14 luglio 2013 - XV Domenica del Tempo Ordinario: Chi è il mio prossimo? La parabola del buon samaritano

News del 14/07/2013 Torna all'elenco delle news

Il viaggio del Signore verso Gerusalemme, come ce lo presenta Luca in queste domeniche dell'anno, non è astratto e lontano dalla vita; passa per le strade degli uomini e percorre le vie di questo mondo. Sin dall'inizio della sua vita pubblica, secondo l'evangelista Matteo, "Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il Vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità" (Mt 9,35). Davvero il Vangelo, e Gesù stesso, come indica il Deuteronomio, "Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?" (30,12-13). Il Signore Gesù è vicino, molto vicino. La sua parola non è lontana, è concreta, come la vita.

Così Gesù risponde a un dottore della legge che, come quelli che non vogliono capire, gli chiede chi sia il suo prossimo. Costui interroga Gesù con parole alte e anche vere: "Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?" (v. 25). Sono parole che anche altri avevano detto a Gesù; ricordiamo il giovane ricco. Ma non c'è sincerità nel cuore di quel dottore della legge. Alla risposta di Gesù sul primato del comandamento dell'amore, egli tenta di giustificarsi: "E chi è il mio prossimo?" (v. 29). Gesù, come nel caso del giovane ricco, non gli risponde con un discorso che è al di là del cielo o al di là del mare; inizia dicendo che "un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti" (v. 30). Parla di una strada che tutti conoscevano, e narra un fatto che probabilmente spesso capitava: un uomo viene rapinato, malmenato e lasciato mezzo morto lungo la strada. Quest'uomo è solo; ma in lui vediamo tanti altri, uomini e donne, piccoli e grandi, giovani e anziani, lasciati mezzi morti lungo le strade di questo mondo; accanto a lui ci sono i milioni di profughi che fuggono dalle loro terre; i condannati a morte isolati da tutti; ci sono talora popoli interi schiacciati dalla guerra e lasciati soli ai margini della storia; e tutti coloro che muoiono di fame e di torture, di violenza e di abbandono. Quella strada è davvero larga. E ugualmente alto è il numero dei sacerdoti e dei leviti che continuano a camminare e ad andare oltre, dalla parte opposta a quella dei poveri. Il Vangelo nota che quei due passavano per quella "medesima strada"; quasi a dire che quell'uomo mezzo morto non era sconosciuto e lontano tanto da non accorgersene. I poveri sono ormai conosciuti, la televisione e i giornali ne parlano, non sono più lontani. Eppure, come annebbiati da una triste abitudine, normalmente si passa dall'altra parte, diretti verso altri interessi.

Il sacerdote e il levita non amavano che se stessi e i loro impegni rituali. È facile pensare che dovessero andare al tempio e quindi non potevano "sporcarsi le mani" con quel ferito. Sapevano che c'erano i poveri e forse avevano anche aiutato qualcuno di quelli che sostavano nelle vicinanze del tempio. Ma lungo quella strada non potevano fermarsi; e poi, chi era quello straniero? Magari non parlava la loro lingua, era un estraneo. Quante motivazioni salgono nel cuore e nella mente mentre si passa accanto a costoro! E non ci si ferma, perché vince sempre la preoccupazione per sé e per la propria sicurezza. Del resto, chi è preso da sé non sente che se stesso; e vive senza compassione per gli altri. Tutti sappiamo per esperienza quanto siamo pronti a commuoverci per noi, e quant'è difficile commuoversi per gli altri! Il sacerdote e il levita non si commossero, e quell'uomo mezzo morto restò solo. Per fortuna passò il samaritano il quale, appena vide l'uomo mezzo morto, ne ebbe compassione, scese da cavallo, gli si avvicinò, gli diede le prime cure e poi lo portò in una locanda. Tante generazioni cristiane hanno visto in quel samaritano, che si è rivoltato contro l'indifferenza del mondo, Gesù stesso; egli, sta scritto, prese a guarire quanti avevano bisogno di cure, ebbe compassione delle folle stanche, sfinite, abbandonate come pecore senza pastore. Gesù è il compassionevole; infatti, "pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo" (Fil 2,6).

E ai discepoli di ogni tempo, noi compresi, lascia in eredità la sua compassione perché continuiamo come lui a fermarci ai bordi delle strade della vita e a raccogliere coloro che hanno bisogno di salvezza. È lui infatti che in questi anni della nostra storia ci ha indicato i poveri mezzi morti lungo il nostro cammino e ci ha insegnato a fermarci, è lui che ci ha aperto gli occhi perché non fossimo ripiegati su noi stessi, è lui che tante volte ha portato sino alla nostra porta i poveri perché li accogliessimo. Sì, quella locanda di cui parla il Vangelo e a cui il Signore porta quell'uomo mezzo morto siamo anche noi, è la comunità dei discepoli. Il Signore Gesù, come il buon samaritano, affida a noi, albergatori di questa locanda, quell'uomo mezzo morto, esausto, ferito. E continua a ripeterci, ogni giorno: "Abbi cura di lui". E non solo: ci dà anche due denari. Sì, bastano davvero due denari della compassione di Gesù per aiutare, confortare e guarire i deboli. E poi aggiunge ancora: "Ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno" (v. 35).

Se c'è bisogno di più compassione, Gesù stesso continuerà a darcela; quel che conta è essere sempre pronti alla porta, attenti al samaritano che bussa. Questo è il senso della nostra vita nel mondo, essere come quella locanda evangelica, scuola di compassione e di amore, capace di accogliere e custodire i poveri e i deboli. Il Signore, affidandoceli, ci strappa dal destino triste di quel sacerdote e di quel levita, uomini freddi e infelici, e ci rende partecipi del suo amore e della festa che si vive in quella locanda. Sì, la festa degli umili e dei deboli che sono raccolti dal Signore. In questa domenica il buon samaritano torna in mezzo a noi ancora una volta; torna come maestro di carità, perché ognuno di noi impari a seguire le sue orme, apra le mani per ricevere i due denari, e apra il cuore per vivere la sua compassione. E sentiremo ancora forte l'invito evangelico: "Va' e anche tu fa' così" (v. 37).

Omelia di mons. Vincenzo Paglia


Prossimo o "farsi prossimo?"

Il Grande Comandamento, espressione di tutta la Legge di Dio, si trova nel libro del Deuteronomio 6, 5: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze." Un altro, che si lega a questo, viene descritto da Gesù come complementare: "e (amerai) il prossimo tuo come te stesso." Accanto a tutti gli altri moniti divini, esso doveva essere conosciuto, assimilato, seguito dagli Israeliti, che dovevano trasmetterlo ai loro figli di generazione in generazione, soprattutto entrando nella terra che Dio stava dando loro in dono. Si è molto commentato su questo testo breve, conciso e compendioso, soprattutto sulla necessità di dover coniugare l'amore al prossimo con l'amore verso Dio e verso se stessi. L'amore sincero e fondato risiede in questa triplice dimensione: Dio, me stesso, il prossimo, senza che di esse se ne escluda una sola. Scrive Eric Fromm: ""Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente"

Ad ogni buon conto, basta osservare il commento che Paolo fa di questo passo veterotestamentario, per comprenderne la profondità e la portata:

"Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti, il precetto:Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,8-10). L'amore verso Dio, verso gli altri e verso se stessi è la pienezza di tutti i comandamenti, il compendio della legge di Dio! Amore se stessi non equivale a smentire l'amore verso gli altri, poiché in Dio ci aiuta a vedere un "altro" appunto in me stesso, nella mia povera persona che va amata e apprezzata. L'amore verso gli altri scaturisce dall'umiltà con cui so riconoscere me stesso come un bisognoso di amore, e che tale bisogno mi viene appagato solo da Dio, Amore infinito. La vita cristiana è una relazione amorosa che sarebbe incompleta se non avesse come oggetto me stesso, Dio, gli altri. Non per niente Sant'Agostino esclama: "Ama, e poi fai tutto quello che vuoi."

Gesù, pur esaltando questa grande pedagogia, tuttavia procede molto oltre, in forza del suo essere Figlio di Dio che per amore si concede sulla croce all'umanità. Egli infatti esclama: ""Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati" (Gv 15, 12), invitando i suoi discepoli a restare nel suo amore osservando i suoi comandamenti per recare molto frutto perenne (vv. 10 - 16). Secondo parecchi esegeti quest'ultima espressione gesuana supera la predetta impostazione del Deuteronomio che a sua volta non avrebbe più valore. Sono convinto in realtà che Gesù non fa altro che completare e rivalutare, a suo modo, l'espressione di Dt 6, 5: Gesù semplicemente vi da l'avallo proponendo se stesso, Dio fatto uomo, quale modello di perfezione d'amore voluto dal Padre. Solo Gesù può infatti fornirci la pratica dell'amore triplice verso Dio, verso se stessi e verso il prossimo, soprattutto perché egli stesso ha amato fino alla fine sottolineando che l'amore è da Dio. Nella sua morte di croce, Cristo ha esplicitato la predetta legge dell'amore portandola a compimento, qualificandola davvero come la pienezza di tutti i comandamenti.

E' la croce il supremo elemento di auto donazione che esplicita l'amore verso Dio, ma intanto Gesù riafferma la necessità di questo amore "che non fa mai male a nessuno" attraverso un rinnovato concetto di "prossimo." Esso riguarda non più una determinata categoria di persone, come avveniva nell'Antico Testamento, ma sottende un comportamento, una normativa etica e uno stile di vita. Nell'ambiente giudaico "prossimo" oggetto esclusivo di amore e di attenzione era il connazionale, il vicino, l'amico (Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico); in Gesù invece il concetto non corrisponde più all'elencazione di categorie sociali: chiunque può "farsi prossimo", cioè donarsi agli altri indistintamente senza ritrosie o pregiudizi. Non si tratta quindi di capire chi è il prossimo, ma come "farsi prossimo", cioè come estendere l'amore. Il che è presto delineato dalla famosissima parabola che oggi ci sta intrattenendo: a differenza di un levita e di un sacerdote (addetti alla cura del tempio e del culto del Dio altissimo), un passante Samaritano prova compassione e amore nei confronti di questo sventurato che sanguina riverso sulla strada dopo l'incontro con i malviventi. Non considera le possibili reazioni di pregiudizio della gente del posto, ostile alla terra di Samaria, ritenuta impura e repellente; non considera neppure che egli stesso, secondo formazione ricevuta, dovrebbe addirittura lasciar morire per la strada il malcapitato in preda alle ferite e ai dolori. Nella concezione culturale di cui fa'parte, sarebbe stato legittimo usare riluttanza e indifferenza di fronte ad un Galileo sofferente. E invece "si rende prossimo" di questo pover' uomo ferito provvedendo a tutti i particolari per un soccorso efficace e congeniale: si china su di lui, lo cura, lo assiste, lo conduce in albergo disposto perfino ad indebitarsi con il locandiere pur di ottenere adeguata ospitalità per il meschino malcapitato. Così è l'ideale dell'amore cristiano: la carità non deve precludersi a nessuno e nell'amore devono assolutamente scomparire eventuali inimicizie o discordie e il concetto di "nemico" dovrebbe anche uscire dal nostro vocabolario. E' peraltro la stessa carità con cui Dio ama di cuore ciascuno di noi, con la quale vorremmo essere amati noi stessi e in forza della quale si esterna la nostra fede nel Dio vivente.

Nel concetto di "prossimo" voluto da Gesù, anche le distanze chilometriche sono ravvicinate e scompaiono le disuguaglianze, perché Gesù non spiega ad alcuno chi è il "prossimo" ma invita concretamente tutti a farsi "prossimi di chiunque". Chi ama diventa oggetto di amore e questo impone che chi si rende prossimo trovi gli altri sempre più vicini a sé, cosicché l'amore è il distintivo del cristiano, non senza queste preliminari condizioni di radicalità.

Le barriere razziali e i pregiudizi covati gli uni contro gli altri sono purtroppo all'ordine del giorno anche nella nostra epoca, che non ha superato la distanza aristocratica propria del giudaismo e dell'Antico Testamento o della discriminazione borghese, che spesso è alla base dei mali e dei conflitti. Il pregiudizio e il falso orgoglio precludono che ci "facciamo prossimi" degli altri e destano il clima del sospetto e dell'indifferenza. Eppure, un Dio che si è "approssimato" a noi uomini fino ad incarnarsi lui stesso facendosi povero con i poveri dovrebbe averci sensibilizzato a superare simili pregiudiziali distanze. Dovremmo piuttosto mettere in pratica il suo monito perentorio: "Va anche tu e fai lo stesso"; il che equivale a dire: "Fatti prossimo degli altri e di te stesso."

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Una terra abitata da prossimi

Maestro, che cosa devo fare per essere vivo, per essere uomo vero? Gesù risponde con un racconto in cui è racchiusa la possibile so­luzione della storia, la sorte del mondo e il destino di ognuno.

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Un uomo, dice Gesù. Guai se ci fosse un aggettivo, buo­no o cattivo, ricco o povero, dei nostri o straniero. Può essere perfino un disonesto, un brigante anche lui. È l'uomo, ogni uomo aggredito e che ha bisogno.

Ogni strada del mondo va da Gerusalemme a Geri­co. Il mondo geme, con le vene aperte; c'è un im­menso peso di lacrime in tutto ciò che vive, un o­ceano di uomini derubati, umiliati, violati, naufra­gati per ogni continente. È questo il nome eterno dell'uomo.

Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa stra­da.

Il primo che passa, un prete, un uomo spiritua­le, passa oltre. Ma cosa c'è oltre? Oltre il dolore, ol­tre la carne dell'uomo non c'è lo spirito, bensì il nul­la. Quel prete non troverà mai Dio. «Percorri l'uomo, dice sant'Agostino, e raggiungerai Dio». Uomo, via maestra verso l'assoluto!

Invece un samaritano che era in viaggio lo vide, ne ebbe compassione, gli si fece vicino. Un samaritano: uno straniero, un extracomunitario d'oggi, ha com­passione e si avvicina, scende da cavallo, forse ha paura, non è spontaneo fermarsi. Misericordia - a­vere cuore per il dolore - non è un istinto, ma una conquista. Bisogna avvicinarsi, vedere gli occhi, a­scoltare il respiro, allora ti accorgi che quell'uomo è tuo fratello, un pezzo di te. E nulla di ciò che è uma­no ti può essere estraneo. Il racconto di Luca mette in fila dieci verbi per de­scrivere l'amore: lo vide, si mosse a pietà, si avvi­cinò, scese, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò... fino al decimo verbo: al mio ritorno sal­derò il debito se manca qualcosa.

Questo è il nuovo decalogo, i nuovi dieci comanda­menti, una proposta per ogni uomo, credente o no, perché l'uomo sia uomo, la vita sia amica, la terra sia abitata da «prossimi», non da avversari.

Ma chi è il mio prossimo? Gesù risponde: tuo pros­simo è chi ha avuto compassione di te. Allora ricor­dati di amare i tuoi samaritani, quelli che ti hanno salvato, hanno versato olio e vino sulle tue ferite, e riversato affetto in cuore. Non dimenticare chi ti ha soccorso e ha pagato per te.

Li devi amare, con gioia, con festa, con gratitudine. E poi da loro imparare. Va e anche tu fa lo stesso. An­che tu diventa samaritano, fatti prossimo, mostra misericordia. Il vero contrario dell'amore non è l'o­dio, è l'indifferenza.

Omelia di padre Ermes Ronchi


Liturgia
e Liturgia della Parola della XV Domenica del TEmpo Ordinario (Anno C) 14 luglio 2013