27 dicembre 2015 - Festa della Santa Famiglia di Nazareth: è in famiglia che si impara il nome più bello di Dio
News del 26/12/2015 Torna all'elenco delle news
Gesù nasce e cresce in una famiglia; tuttavia i suoi genitori non si vedono molto negli anni della sua predicazione, né tantomeno si sa nulla dei suoi anni vissuti a Nazareth. C’é come un vuoto tra la sua infanzia, che si conclude dodicenne, quando rimane nel tempio a discutere con i dottori della legge a insaputa dei genitori, e la sua vita di adulto apparso a farsi battezzare sul Giordano da Giovanni Battista.
Eppure il legame di Gesù con la sua famiglia di origine é ben riconosciuto e segnalato dai vangeli anche da adulto. Così Filippo quando trova Natanaele gli dice: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret» (Gv 1,45) e dopo la moltiplicazione dei pani sul lago di Tiberiade la folla esclama: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?» (Gv 6,45).
La personalità di Gesù, poiché si é sviluppata nella sua umanità come quella di ogni essere umano, non può non recare l’impronta di Giuseppe e Maria. Ognuno di noi porta con sé certe abitudini, modi di fare, un’educazione, un certo gergo e persino una gestualità, che recano l’impronta dell’ambiente familiare in cui é cresciuto. Dunque la poderosa e sana psicologia di Gesù deve certamente tanto alla dolcezza e umiltà di Maria, ma anche alla solidità e alla silenziosa concretezza di Giuseppe. I padri possono essere più o meno assenti nella vita dei figli, ma lasciano sempre un’eredità o la testimonianza di un modo di essere con cui essi dovranno necessariamente confrontarsi. Così é stato per Gesù, che con Giuseppe ha trascorso molti anni nella condivisione della vita familiare e del lavoro. Se da Maria sono arrivate a Gesù la compassione e la tenerezza, da Giuseppe deve essere stata ereditata quella sottile arguzia argomentativa, sempre spiazzante, che Gesù sfodera nelle dispute con scribi e farisei. D’altra parte la tradizione mostra Giuseppe come uomo del dubbio. «Con il cuore in tumulto, tra pensieri contrari, il savio Giuseppe ondeggiava: sospetta segreti sponsali, o Illibata»; così canta l'inno Akathistos, caro alla tradizione bizantina. Ma Giuseppe, il giusto, é capace di ascoltare anche la parte più profonda di sé e di far vincere la verità di un sogno all’evidenza umana, assumendosene poi tutta la responsabilità. Nell’opera Natività a Betlemme, l’artista francese Arcabàs, seguendo una tradizione iconografica che ha il suo esempio più illustre in Caravaggio (Riposo durante la fuga in Egitto), lascia dormire pacificamente la mamma e il suo bambino, protetti dalla presenza solida di Giuseppe. L’artista lo rappresenta con una candela in mano, mostrandone la carità delle buone opere e il dono della fede; ma gli conferisce una struttura solida come un tronco d’albero, come é detto del giusto nella Bibbia, che sarà come «albero piantato lungo corsi d’acqua e tutto quello che fa riesce bene» (Sal 1,3). Giustizia e carità, fedeltà alla Legge e all’Amore.
dal Sussidio CEI
È in famiglia che si impara il nome più bello di Dio
Che cosa dice la Parola di Dio alle fragilità delle nostre famiglie? Dice prima di tutto che il matrimonio è santo come il sacerdozio. Che la vocazione dei genitori è santa come quella di una monaca di clausura. Perché l'amore quotidiano nella casa è un tutt'uno con l'amore di Dio. E non sono due amori, ma un unico, solo, grande mistero, un solo amore che muove il sole e l'altre stelle, che muove Adamo verso Eva, me verso gli altri, Dio verso Betlemme, nel suo esodo infinito verso di noi.
La famiglia è il luogo dove si impara il primo nome, e il più bello, di Dio: che Dio è amore; dove si assapora il primo sapore di Dio, così vicino a quello dell'amore.
I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme. Questa parola ricorda alla famiglia che essa è in pellegrinaggio. Come canta il Salmo: Beato l'uomo (la coppia) che ha sentieri nel cuore (Sal 83). Beata la famiglia dove si impara a sconfinare. Verso gli uomini e verso Dio.
Non sapevate che devo occuparmi d'altro da voi? I nostri figli non sono nostri, appartengono al Signore, al mondo, alla loro vocazione, ai loro sogni. Un figlio non può, non deve impostare la sua vita in funzione dei genitori. Sarebbe come bloccare la ruota della creazione.
Devo occuparmi delle cose del Padre. Per una vita piena e felice il primato è di Dio. Sono parole dure per i genitori, ma dove l'ha imparato Gesù se non nella sua famiglia? «Me lo avete insegnato voi il primato di Dio! Madre, tu mi hai insegnato ad ascoltare angeli! Padre, tu mi hai raccontato che talvolta la vita dipende dai sogni, da una voce nella notte: alzati prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto».
Ma essi non compresero. Gesù cresce dentro una famiglia santa e imperfetta, santa e limitata. Sono santi i tre di Nazaret, sono profeti colmi di Spirito, eppure non capiscono i propri familiari. E noi ci meravigliamo di non capirci nelle nostre case? E qui leggo un conforto per tutte le famiglie, tutte diversamente imperfette, ma tutte capaci di far crescere.
Si può crescere in bontà e saggezza anche sottomessi alla povertà del mio uomo o della mia donna, ai perché inquieti di mio figlio. Si può crescere in virtù e grazia anche sottomessi al dolore di non capire e di non essere capiti.
E questo perché? Perché nei miei familiari abita un mistero. Di più, sono loro il mistero primo di Dio, il sacramento, vale a dire il segno visibile ed efficace. Isaia ha detto: Tu sei un Dio nascosto. Dove mai è nascosto Dio, se non nella mia casa? La casa è il luogo del primo magistero. Nella casa Dio ti sfiora, ti tocca, ti parla, ti fa crescere. Ti insegna l'arte di vivere, l'arte di dare e ricevere amore.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Amarsi non è guardarsi negli occhi
Terza festa di seguito: dopo Natale e Santo Stefano, ecco la domenica, che come ogni anno, essendo la prima dopo Natale, è intitolata alla famiglia composta da Gesù, Maria e Giuseppe: la "santa famiglia". In proposito, quest'anno la liturgia presenta un episodio di particolare significato.
Dopo gli avvenimenti connessi con la sua nascita, e sino a quando, trentenne, egli diede pubblicamente inizio alla sua missione, i vangeli tacciono sulla vita di Gesù. Unica eccezione, l'episodio (Luca 2,41-52) che si legge oggi: aveva dodici anni, quando con sua Madre, con Giuseppe e con una comitiva di parenti e conoscenti, andò a Gerusalemme a celebrarvi la Pasqua. Verosimilmente, nell'occasione egli compì anche il rito con cui a quell'età i fanciulli ebrei sul piano religioso diventano adulti, assumendosi appieno le relative responsabilità; sembra suggerirlo il fatto che appunto come un adulto egli si trattenne nel tempio ad ascoltare e interrogare i maestri nella fede, e come un adulto senza doverne chiedere il permesso ai genitori. Questi ultimi, già avviati sulla via del ritorno, quando si accorsero che non era nella comitiva tornarono a cercarlo; trovatolo, lo rimproverarono; ma egli diede loro una risposta inattesa: con la serietà di un adulto, manifestando piena consapevolezza della propria identità e della propria missione, disse: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?"
Quel Padre che non era Giuseppe occupava la mente e il cuore di Gesù sin da ragazzo, come poi sarebbe stato per tutta la vita terrena sino a quando, prima di spirare sulla croce, "gridando a gran voce disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (Luca 23,46). Peraltro, anche il suo facente funzione di padre, cioè Giuseppe, si preoccupò di attuare, in umile obbedienza, la non facile missione che Dio gli aveva affidato. E così la Madre, autodefinitasi "serva del Signore" (Luca 1,38). Tutti e tre dunque i componenti della famiglia di Nazaret, Gesù, Maria e Giuseppe, avevano in Dio il loro riferimento, la loro guida; era lui il basilare legame che li teneva insieme.
Di questi tempi tutti dissertano sulla crisi della famiglia tradizionale: abbandoni, separazioni, divorzi, spesso imposti da uno dei coniugi e subiti dall'altro con conseguenti amarezze e rancori, senza riguardo per i figli, contesi o sballottati tra i contendenti; liti senza fine; talora la rovina economica o la percezione del fallimento dell'intera esistenza. Sulle cause di questi naufragi, sociologi psicologi politici e altri "esperti" discutono, individuandone diverse: inadeguata preparazione agli impegni del matrimonio; il fatto che entrambi i coniugi lavorino fuori casa, con conseguenti frustrazioni e carenza di dialogo; l'egoismo che mira solo al proprio benessere (la cultura del "mi piace-lo voglio"), non importa se a spese altrui; la sete di una presunta libertà, con il rifiuto di impegni definitivi; gli esempi dati da personaggi famosi e sbandierati da cinema giornali e televisione...
Tutte queste motivazioni, cui altre potrebbero aggiungersi, trascurano però la causa prima, la ragione più profonda della crisi della famiglia: il rifiuto che Dio vi entri, come comune punto di riferimento e quindi di unità. Amarsi, ha detto qualcuno, non è guardarsi negli occhi, ma guardare insieme nella stessa direzione; e per i cristiani la direzione è quella della meta cui è offerto loro di tendere. La crisi della famiglia è una crisi di fede; per questo la famiglia di Nazaret è un esempio, un modello. La loro non è stata una vita facile: Giuseppe si è accollato un figlio non suo; la Madre se l'è visto inchiodare a una croce; delle sofferenze di lui, poi, non parliamo neppure. Non è stata una vita facile; ma sono rimasti uniti, e uniti con amore, perché ciascuno di loro era teso a realizzarsi non secondo calcoli di umana convenienza, di personale interesse, ma secondo Dio.
Omelia di mons. Roberto Brunelli
Liturgia e Liturgia della Parola della Festa della Santa Famiglia di Nazareth 27 dicembre 2015
tratto da www.lachiesa.it