29 marzo 2015 - Domenica delle Palme: da Betania al Gòlgota il racconto della "Passione" di Cristo
News del 28/03/2015 Torna all'elenco delle news
La Domenica delle Palme segna l'inizio della settimana centrale dell'anno liturgico che culminerà con il Triduo Pasquale.
Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio
Il racconto della "Passione" di Gesù è considerato dalla Chiesa un tesoro da conservare gelosamente e da tramandare nella sua purezza. Lo stile di Marco, sempre veloce, essenziale, incalzante, qui rallenta ed abbonda in particolari: secondo alcuni commentatori il Vangelo è il racconto della "Passione" a cui è stata premessa una lunga introduzione. Mc.14-15 sono la narrazione di episodi che si svolgono in luoghi precisi: la sala al piano superiore dove avviene l'ultima cena, il giardino del Monte degli ulivi, la casa del sommo sacerdote e la residenza del governatore romano, la via che conduce al Golgota dove avviene la morte, la tomba. La lettura attenta ci fa pensare che all'origine di questo racconto ci sia l'esperienza dei primi cristiani che ripercorrevano i passi di Gesù, meditando, ripensando a quei fatti alla luce dell'A.T. per comprenderli come la rivelazione del modo di essere di Dio con noi, fino ad arrivare alla tomba per proclamare: "Non è qui: è risorto". Si tratta quindi di una narrazione preoccupata più che mai della fedeltà storica dei fatti, ma che al tempo stesso è già diventata "memoria orante" che provoca il lettore a prendere posizione di fronte a Gesù, in una storia che rimane viva per ogni persona.
Marco costruisce il suo racconto mettendo in evidenza che Gesù rimane sempre più solo: così lo sguardo si concentra su Gesù che invita il lettore a riflettere se non sia lui stesso, oggi, ad abbandonarlo. Lui, solo, prega nel Gethsemani, in una preghiera angosciata e drammatica, mentre i discepoli dormono; i discepoli, tutti, abbandonandolo, fuggono; Pietro sostiene di non conoscerlo; il sommo sacerdote con il suo consiglio lo condanna; il governatore romano e i soldati lo maltrattano; le sue ultime parole, sulla Croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", mostrano che persino Dio lo ha lasciato solo. Gesù è solo: se prima Marco ha mostrato Gesù in preghiera, solo con il Padre che gli parlava e illuminava la sua vita filiale, adesso la sua solitudine è totale. Ma adesso la narrazione della Passione di Gesù secondo Marco comincia a svelarci qual è il suo significato essenziale: la rivelazione nuova e piena di Dio. Dio ormai è dentro Gesù ed è operante dall'interno del suo cuore. Lo stile di Marco continua ad essere glaciale, fatto di episodi brevi, privi di spiegazioni che cerchino di rendere ragione dei fatti: ma proprio attraverso questi fatti avviene la grande rivelazione. Quando Gesù è spogliato di ogni speranza, di ogni potere, quando rimane solo in un incubo senza senso, senza speranza di poter sopravvivere, solo allora parla e dichiara la propria identità. Al "sommo" sacerdote che gli chiede: "Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?", Gesù, con estrema chiarezza, rompe il silenzio e risponde: "Io sono". Gesù che nel Vangelo di Marco ha continuamente proibito di dire chi Lui è, che ha rifiutato di essere identificato con il potente che fa i miracoli, adesso dice il suo nome: "Io sono", come Dio chiama se stesso quando si rivela a Mosè (Es.3,14). Mentre nel Vangelo di Giovanni l' "Io sono" ricorre con frequenza, Marco lo riserva a quest'unico momento, quello dell'estrema debolezza, nel quale il potere umano incombe su Gesù in modo totale: solo in questo momento si dichiara Dio. Ed aggiunge: "e vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza, venire sulle nubi". Come in altri passi di Marco, questa espressione "Figlio dell'uomo" che rimane oscura nonostante le varie interpretazioni degli esegeti, vuole sottolineare la concretezza umana di Gesù nella quale si fa presente il mistero di Dio. "Io sono e vedrete il Figlio dell'uomo...": è la nuova rivelazione di Dio, un Dio che adesso appare, solo quando ogni manifestazione di potere e di affermazione umana è scomparsa, solo quando Gesù rompe il silenzio. Tutto il Vangelo di Marco converge verso questo momento: l' "Io sono e vedrete" (un presente che lo nasconde e un futuro che lo mostrerà) che rompe il silenzio di fronte al sommo sacerdote, la proclamazione sconvolgente di Dio che il sommo sacerdote ritiene una bestemmia. Tutto il Vangelo di Marco vuole correggere l'idea che si debba credere in Gesù perché compie azioni miracolose o che si debba ascoltare Lui perché dice parole meravigliose. "L'ascolto di ciò che Gesù dice con la sua vita, con la sua carne mortale, con la sua morte, può avvenire solo quando ogni possibilità umana di speranza, di amore, di liberazione, è stata apparentemente spazzata via e ci troviamo di fronte a questa nuda affermazione: questo uomo mortale ("il Figlio dell'uomo") è qui, nel Nome di Dio, e il posto di Dio è quello dell'essere umano respinto e condannato. Marco ci conduce fino a questo punto, spogliandoci da ogni illusione di false speranze: ma questo è il momento del "Vangelo", del lieto evento che Marco vuole annunciare. Il mondo di cui noi parliamo, è completamente sconvolto: ma il mondo nuovo che viene portato all'esistenza, il mondo nuovo annunciato dal Vangelo, ed è qui la notizia infinitamente buona ma pure sconvolgente, è quello nel quale Dio non è lontano da nessun dolore, nessun disastro, nessun fallimento, ma è incredibilmente dentro di essi. Se Gesù proclama che Dio è lì dove è l'uomo fragile, la sua presenza, il suo amore, la sua misericordia non possono essere soffocati dalla solitudine, dall'ingiustizia, dalle sofferenze terribili apparentemente prive di senso, in cui si trovano gli uomini. Se Dio ha scelto di essere nel punto più debole e più basso dell'esperienza umana, i poveri, gli indifesi, i condannati, sanno che Dio è con loro e che il Dio che è con loro non può essere sconfitto, non può essere spogliato della sua divinità" (Rowan Williams). Così Marco ci annuncia il "Vangelo", la lieta, sconvolgente, autodichiarazione di un Dio che non è là dove noi pensiamo che debba essere, e dove noi vorremmo continuamente ritportarlo, ma di un Dio che è lì, nell'uomo spogliato, dove salta ogni mito di un Dio potente nel quale in realtà proiettiamo la nostra sete di potere, per essere solo l'Amore che sta dentro l'uomo fragile per farlo vivere della sua vita.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Gli assurdi contrasti dell'evento più tragico
Oggi, domenica delle Palme, dov'è possibile la Messa è preceduta da un rito che rievoca l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, pochi giorni prima della sua Pasqua di morte e risurrezione. Il vangelo è invece di tutt'altro segno: è il resoconto (quest'anno nella versione di Marco, capitoli 14 e 15) della sua passione. I rami di palma, o da noi d'ulivo, richiamano la folla osannante ("Benedetto colui che viene nel nome del Signore... Osanna nel più alto dei cieli": così proclamano), in violento contrasto con l'altra folla che pochi giorni dopo, sobillata dai capi del popolo, dell'osannato reclama la crocifissione. Una richiesta assurda: chi vi aderiva, o non conosceva Gesù, o poteva averlo visto soltanto fare del bene e sentito pronunciare parole sublimi; in ogni caso non aveva motivo alcuno per volere la sua morte.
Ma tutto, nel resoconto della passione, è sconvolgente. Si pensi ai discepoli: sono stati con lui per tre anni, dovrebbero aver maturato nei suoi confronti quanto meno sentimenti di amicizia, e invece Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega, gli altri (con la sola eccezione di Giovanni) fuggono. Si pensi alle autorità: il sinedrio imbastisce un frettoloso processo di cui ha già scritto la sentenza e si arrampica sugli specchi per giustificarla; Pilato dal canto suo abdica ai suoi poteri e con viltà manda a morte un uomo che sa innocente. Si pensi ai soldati, che si divertono a torturarlo con la vergognosa pantomima della regalità da scherno. Si pensi ai passanti e di nuovo ai capi, che non si fanno scrupolo di insultare un uomo morente. In questa vicenda tragica, la più tragica che mai sia stata raccontata, a "fare bella figura" sono solo il manipolo di donne che non si vergognano del loro amore, manifestandolo sino ai piedi della croce, e Giuseppe d'Arimatea, il quale non ha paura di dissentire dagli altri colleghi del sinedrio, e si presenta a Pilato a reclamare quel corpo straziato per dargli decorosa sepoltura.
E lui, il protagonista? Di fronte a tanta ingiustizia, ai calcoli meschini dei suoi nemici, all'indifferenza quando non allo scherno per il suo dolore, non una parola di odio, non un moto di ribellione. Colpisce sempre il suo grido prima di morire: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Ma occorre prestare attenzione: quello che può sembrare un segno di disperazione, chi, come i presenti che l'hanno udito, conosce la Bibbia, sa bene che è solo l'inizio del lungo Salmo 21. Il Crocifisso, negli spasimi dell'agonia, non poteva certo recitarlo tutto; citarne l'esordio significava farlo proprio per intero: e quel Salmo è la preghiera di un giusto perseguitato, il quale costata la tremenda situazione in cui è venuto a trovarsi, ma non gli viene meno la fiducia in Dio, come attesta la conclusione del Salmo ("Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli") che adombra un impegno dopo la morte, dunque la certezza di continuare a vivere. I sentimenti di Gesù restano dunque sino alla fine quelli della sua precedente preghiera nell'orto degli ulivi: consapevole dell'imminente arresto con quanto ne sarebbe seguito, le spalle cariche del peso immane della sua missione, con un tratto che rivela tutta la sua umanità aveva chiesto al Padre di liberarlo da tanto strazio, aggiungendo però subito l'espressione della sua disponibilità: "Padre, tutto è possibile a te: allontana da me questo calice. Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu!"
Sono parole paradigmatiche per quanti in futuro vorranno essere suoi discepoli. Si può essere nel dolore, umanamente è lecito chiedere a Dio di esserne liberati, e nel contempo occorre rimettersi con fiducia alla Sua volontà. Le vie di Dio trascendono spesso l'umana comprensione, ma portano sempre al bene di chi si affida a Lui. Come è avvenuto per Gesù: il vangelo di oggi si ferma alla sua sepoltura; ma la pagina dopo racconta la sua risurrezione.
Omelia di mons. Roberto Brunelli
Alcune donne
Betania
Il racconto della Passione secondo Marco inizia a Betania con un gesto di attenzione tutto femminile.
Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore.
Di lei non si dice niente se non il gesto che compie, non si conosce il nome, o la provenienza, il perché... come è arrivata così si dilegua, di lei non si è parlato prima e neanche se ne parlerà dopo, il suo è un passaggio leggero come il profumo che porta con sé, eppure - dice Gesù - dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto.
Nel riascoltarlo dopo millenni viene un brivido nella schiena per la profezia del suo gesto, che non ha nulla di straordinario né di eroico, ma è arrivato fino a noi, così lontano nel tempo e nello spazio.
Betania e la casa di Simone il lebbroso, ci raccontano di una periferia e di una emarginazione, lontano da Gerusalemme e le sue trame: subito prima Marco aveva raccontato che i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire, mentre subito dopo si racconta di Giuda che si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù.
Circondato da tanta violenza che si manifesta in Gerusalemme come centro del potere umano e religioso, a debita distanza, là dove la gente non conta nulla, c'è questo racconto ricco di affetto, di profumo e di profezia.
È un gesto discusso, quello della donna, eppure ricco di significati: uno spreco che poteva servire per i poveri che invece rivela la doppiezza dei cuori, uno spreco folle che vale un anno di lavoro capace di rivelare la follia dell'amore che in Cristo si sta manifestando; il vasetto di alabastro che per liberare l'unguento deve essere rotto come si romperà la vita del Signore per liberare lo Spirito che da vita, come si squarcerà il velo del tempio ed affermare la comunione tra Dio e l'umanità; l'unzione del capo come i profeti ungevano i re riconosce in Gesù il Messia, l'unto di Dio.
Gesù difende quella donna che ha compiuto un'azione buona (bella) e ne rivela il senso. Prima però afferma: i poveri infatti li avete sempre con voi, non si tratta di dare qualcosa ai poveri o fare qualcosa per loro ma di averli con, non è questione di una organizzazione caritativa quanto della condivisione per far loro del bene.
Poi afferma: ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura; l'unguento profumato copre l'odore nauseabondo della morte, ne nasconde gli effetti; invece l'anticipazione aggiunge profumo alla vita, non c'è niente da coprire o da nascondere, quella vita profumata non è destinata alla morte. Gesù non fugge dalla morte, ma la supera: la negazione della vita nella condanna a morte, esaltazione dell'odio, è sopraffatta da un amore che raggiunge la follia come il gesto folle dell'unzione.
Gòlgota
Il racconto della passione, della morte e della sepoltura si conclude, come è iniziato, al femminile: Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Marco non racconta di queste donne in tutte le pagine del suo vangelo, adesso quando tutto sembra essersi concluso ne ricorda i nomi e ci dice che erano state da sempre con il Signore; molto forti anche i verbi che ne descrivono la storia: ...lo seguivano e lo servivano...erano salite con Lui a Gerusalemme.
Tutti coloro che hanno accompagnato, ascoltato, dialogato, condiviso una storia con Gesù sono spariti dalla scena, rimangono queste donne che osservavano da lontano; nelle poche parole si descrive la fedeltà, l'attenzione e la pienezza la loro comunione con il Signore, sono immagine del cammino di ogni discepolo di ogni tempo.
In ultimo Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto. Ultime testimoni di una giornata segnata dal dolore e dal distacco che non si è del tutto consumato, le donne erano ancora lì, il loro sguardo e il loro cuore non ha mai smesso di essere con il Signore fin da quando era in Galilea. Sono il segno umile e modesto di comunione, dell'attesa dell'inattendibile, con lo sguardo proteso oltre l'umano. Saranno ancora lì, il giorno dopo il sabato. Solo le donne, forgiate dalla maternità, hanno perso la misura che limita l'amore e ne diventano testimoni più autorevoli.
Omelia di don Luciano Cantini
Liturgia e Liturgia della Parola della Domenica delle Palme (Anno B) 29 marzo 2015
tratto da www.lachiesa.it