27 ottobre 2013 - XXX Domenica del Tempo Ordinario: la preghiera autentica diventa esperienza di Dio e si apre all'amore per gli altri
News del 23/10/2013 Torna all'elenco delle news
La pagina del Vangelo di Luca che leggiamo nella XXX Domenica del Tempo Ordinario (Lc.18,9-14), la Parabola del fariseo e del pubblicano, è una di quelle più note a tutti e allo stesso tempo di quelle che ci introducono nel cuore dell'esperienza cristiana con una profondità sempre nuova, come se fosse la prima volta che la ascoltiamo.
Anche in questa pagina, come in quella immediatamente precedente, Gesù parla della preghiera, ma per farci capire che la preghiera è l'espressione più intensa e più vera dell'esperienza interiore che l'uomo ha di se stesso, è la relazione più personale dell'uomo con Dio percepito come il Tu con il quale l'io dell'uomo trova pienamente se stesso, ed è la fonte da cui nasce la possibilità per l'uomo di entrare in relazione con gli altri.
La preghiera è l'esperienza della liberazione da ogni ipocrisia, è la deposizione di ogni maschera, è il momento della verità interiore.
La preghiera è l'esperienza più intensa dell'amore: il bisogno di amore che ogni uomo sente nel profondo di se, trova risposta nella gratuità dell'amore di Dio, Amore puro, fedele e misericordioso, e diventa relazione sincera di amore con gli altri. Certo, la preghiera è all'interno del cammino della fede, cammino mai concluso, che richiede il coraggio della spogliazione di sé per abbandonarsi nell'infinito e sempre misterioso amore di Dio. Ed è cammino personale, che si sviluppa all'interno della concretezza degli eventi della vita quotidiana.
Il brano del Vangelo che oggi leggiamo, è una mirabile pagina di pedagogia della fede e di educazione alla preghiera, che illumina la situazione attuale, nella quale noi siamo chiamati a vivere.
"Disse per alcuni che hanno fiducia solo di se stessi perché sono giusti e non considerano gli altri, questa parabola": la traduzione letterale della frase ci invita ad una particolare attenzione. La parabola pronunciata da Gesù è rivolta a persone caratterizzate dal loro atteggiamento umano interiore e non da loro circostanze storiche. Sono persone sempre presenti nella storia: in qualche modo ciascuno di noi può ritrovarsi in esse. "Sono giusti": non dice il Vangelo che questo sia falso, ma sottolinea che proprio questo è la radice di tutto il problema. "Sono giusti": ma quando gli uomini sono giusti? Quali sono i criteri per ritenersi giusti? La coscienza di aver osservato le leggi? Qui, il Vangelo, dice che quando l'uomo si convince della propria autosufficienza, autostima, autoreferenzialità si crea la convinzione di essere giusto e produce la disistima degli altri. E' interessante questa osservazione, che l' "essere giusti" genera la presunzione di sé e il disprezzo degli altri, genera la distruzione di ogni relazione corretta: è, forse, questa, la caratteristica più specifica dell'uomo contemporaneo che, ritenendosi autosufficiente, si ritiene giusto e non è più capace di relazioni positive, belle, costruttive perché ritiene di non aver nulla da accogliere dagli altri ma di dovere soltanto difendersi, guardando agli altri con uno sguardo solo di disprezzo.
L'esito di questo modo di "essere giusti" che nasce dall'autosufficienza,diventa l'autodistruzione perché l'incapacità di relazione non può non essere distruttivo alla radice della persona. Per questo Gesù presenta la preghiera come via per la realizzazione dell'autenticità della esperienza umana. Ma certo, la proposta di Gesù non è così ingenua dal ritenere la preghiera come soluzione taumaturgica del problema del senso della vita dell'uomo: anche questo è un rischio per l'uomo contemporaneo che si dibatte tra l'autosufficienza che fa a meno di Dio e diventa autodistruttiva e il buttarsi irrazionale in un religioso emozionale che deresponsabilizza l'uomo e alla fine di nuovo lo distrugge.
La proposta di Gesù è la preghiera, ma come via che l'uomo percorre nella verità, che nasce dal profondo del cuore, diventa esperienza di Dio e si apre all'amore per gli altri.
E' questo il ruolo svolto dalla parabola: "due uomini salirono al Tempio per pregare, uno fariseo e l'altro pubblicano". Anche qui Luca usa lo strumento delle figure contrapposte, il fariseo e il pubblicano: in realtà, attraverso gli estremi, ciò che interessa, è il cammino interiore che viene proposto a chi ascolta la parabola perché la sua preghiera diventi autentica.
L'atteggiamento del fariseo più che l'appartenenza ad un gruppo, rispecchia una dimensione "antropologica": egli si ritiene il centro del mondo; esiste lui e "il resto del mondo" (non fa nessun riferimento alla sua appartenenza farisaica), che egli disprezza. Il suo disprezzo cade sul pubblicano presente per caso nel Tempio, dietro e lontano da lui: sarebbe caduto su chiunque altro che in quel momento fosse caduto sotto il suo sguardo.
La sua "preghiera" di ringraziamento non è espressione di gioia per l'intimità sperimentata con Dio, ma di compiacimento per il suo essere diverso dagli altri: elenca ciò di cui si priva (il digiuno) e ciò che dona (le decime), ma non ciò che Dio gli dona. "Il fariseo stando in piedi, rivolto verso se stesso, pregava": è tutto rivolto verso di sé e non verso Dio. Se guarda agli altri è solo per gettare su di loro ciò che egli rifiuta di vedere dentro di sé: "Dio, ti ringrazio perché non sono come il resto degli uomini ladri, disonesti, adulteri, e neppure come questo pubblicano": rattrappito su di sé, chiuso nella sua torre d'avorio, non vede che se stesso e non vive che per se stesso.
Il pubblicano invece, nonostante la sua posizione curva (non "voleva" neppure alzare gli occhi al cielo), è proteso verso la "pietà" di Dio. Non elenca niente, neanche i propri peccati: il suo modo di guardare dentro di sé, lo spinge a qualificarsi come peccatore, senza chiedersi se gli altri lo siano più o meno di lui. L'imperfetto "egli pregava" per il fariseo indica una preghiera che dura come atteggiamento solipsistico di autocontemplazione mentre l'imperfetto "si percuoteva il petto dicendo…", per il pubblicano significa la ripetizione insistente di una supplica che nasce dalla umile percezione della propria insufficienza e diventa implorazione rivolta a Colui che essendo solo Amore, guarda all'uomo non per condannarlo, ma per perdonarlo, non per chiedergli ciò che l'uomo non può dare, ma per donargli ciò di cui sente la necessità.
Solo dall'accettazione sincera della propria povertà, può nascere la preghiera,scambio di amore tra l'uomo e Dio, l'infinita fragilità e l'infinita gratuità, scambio che libera dalla paura radicale che falsifica ogni relazione, per rigenerare l'uomo che ammettendo di non poter essere giusto da sé, ritrova la gioia di essere amato da Dio e di entrare in un reale dialogo di amore e di comunione con gli altri.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Infelice chi guarda solo a se stesso
Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, denuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, come il fariseo, con un peccato in più.
Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si confronta con Dio, ma con gli altri, e gli altri sono tutti disonesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mondo: l'immoralità dilaga, la disonestà trionfa... L'unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.
Io digiuno, io pago le decime, io... Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, stregate, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a niente, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbagliato di pregare, che può renderci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane.
Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere.
Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno vera.
La prima parola è tu: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa', il pubblicano la edifica attorno a quello che Dio fa.
La seconda parola è: peccatore, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta».
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento - a un Dio più grande del suo peccato, vento che fa ripartire.
Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Umità (e preghiera) anticamera della fede
Scriveva marcel Aymè che "l'umiltà è l'anticamera di tutte le perfezioni e senza di essa le virtù sono vizi". L'autore fa eco a sant'Agostino, che considera l'umiltà superiore per tre volte a tutte le altre virtù esistenti: "L'umiltà è il fondamento di tutte le virtù, e nelle anime dove essa non è presente, non vi può essere nessun'altra virtù, se non di pura apparenza. Allo stesso modo, l'umiltà è la disposizione più propria per ricevere tutti i doni celesti. È tanto necessaria per raggiungere la perfezione, e tra tutte le vie per arrivare alla perfezione la prima è l'umiltà, la seconda è l'umiltà, la terza è l'umiltà".
Altri personaggi illustri ribadiscono lo stesso concetto, delineando come da questa virtù scaturiscono obbedienza, timore, rispetto, pazienza, la mansuetudine e la pace (S. Tommaso di Villanova) e sia proprio essa la radice della serenità e della gioia.
Sarebbe molto esaltante se ci soffermassimo a considerare anche una sola persona che tende a fuggire primati e vanità, che si contenti di fare il proprio con dignità e decoro senza vane pretese, e ci renderemmo conto che non vi è altra virtù più nobile che sia capace di guadagnarci serenità, pace con noi stessi assieme all'ammirazione spontanea degli altri. Una persona umile, appunto perché fugge l'idolatria di se stesso, la presunzione, l'arroganza, non ha nulla a cui aspirare, nulla per cui affannarsi nelle competizioni con gli altri. Non ha nessun motivo di covare rancori e inimicizie, perché proprio la semplicità e la mitezza gli hanno procurato il rimedio contro le tensioni e le inimicizie con gli altri ed è pertanto sensibile e pacifico. L'affrancamento dal falso orgoglio e dalla presunzione lo conduce ad avere più considerazione verso il prossimo e ad usare ottimismo e risolutezza e questo consegue la vera carità e la donazione di se stesso. Chi non si esalta è in grado di obbedire con mansuetudine e di servire con abnegazione e trova la felicità nella semplice constatazione di essere davvero utile agli altri.
In definita, l'umiltà, anticamera delle perfezioni, è la porta aperta verso la fede, la speranza e la carità ed è la prima condizione per essere graditi a Dio.
Anche la preghiera, espressione della fede, inizia con l'umiltà. Quale orazione potrebbe mai essere ben accetta al Signore quando sia motivata dalla tracotanza e dalla presunzione, quale preghiera potrà mai essergli gradita quando ad essa è affinata la malizia e l'affezione al peccato?
E' da ipocriti rivolgersi al Signore quando albergano in noi sentimenti meschini o quando la nostra coscienza non sia effettivamente monda intorno a possibile mancanze verso il prossimo. Non possiamo pretendere di essere ascoltati da Dio, né tantomeno dobbiamo aspettarci delle grazie o dei favori particolari, quando la coscienza ci rimprovera pecche e lacune spirituali che non abbiamo mai voluto colmare. In casi come questi la preghiera diventa un fatto egoistico e interessato, che mira unicamente ad accattivarci la presunta amicizia di Dio. Dice San Giacomo nella sua bellissima Lettera: "Voi chiedete (a Dio) e non ottenete, perché chiedete male, con l'intento di delapidare."
La preghiera umile e attenta è invece quella dell'ammissione delle proprie colpe davanti a Dio e della volontà ferma di emendamento. Osserviamo la duplice attitudine alla preghiera che il brano di Vangelo odierno ci presenta: il fariseo, gonfio di orgoglio e di presunzione, omette di considerare perfino il fatto che in quel momento sta esaltando se stesso paragonandosi al pubblicano che prega accanto a lui: traccia delle linee di paragone fra se stesso e il suo vicino, senza per nulla considerare che tale attitudine costituisce già peccato essa stessa: "Ti ringrazio, Signore perché non sono come questo pubblicano". Perché si vanta di non essere come lui? Non perché abbia tante virtù encomiabili, ma semplicemente perché osserva prescrizioni di rito esteriore, si attiene a normative rigorose e tassative, roboante per il solo fatto di conoscerne tutto il codice.
Una preghiera altezzosa e tronfia, la cui vanità è tuttavia controproducente: Dio non ascolta e anzi prende le distanze.
Diversa invece è l'orazione rivolta da parte di chi è abitualmente propenso a gabbare i suoi interlocutori con la riscossione delle tasse, depredando spesso i contribuenti di ingenti somme di denaro, quale è un pubblicano ai tempi di Gesù. Egli, ben consapevole di non essere neanche degno di accostarsi all'altare di Dio perché colpevole di gravi misfatti di latrocinio, non osa rivolgere richiesta alcuna al Signore al di fuori di questa: "Abbi pietà di me peccatore". E' preoccupato di considerare la propria nequizia e l'indegnità di stare davanti al Signore e per questo addirittura evita di chiedere grazie o favori divini particolari. Come posso io ricomparire davanti ad un amico che in precedenza ho gravemente offeso per chiedergli adesso un favore importante? Non è da falsi millantatori ostentare subdola umiltà interessata nei confronti di quanti abbiamo oltraggiato e vituperato? Tale è il pensiero di questo sconosciuto pubblicano che neppure osa sollevare lo sguardo verso l'alto, riconoscendosi falso e ipocrita nei confronti di Colui che ha più volte offeso e dileggiato con il peccato.
La sua umiltà è tuttavia giudicata pari al peccato commesso, la contrizione che manifesta, il dolore per le sue colpe sottende anche alla volontà di porvi rimedio e pertanto la sua preghiera viene ascoltata ed esaudita. Dio gli concede il perdono richiesto (è giustificato) ma certamente gli otterrà anche ciò che non aveva osato domandare. A differenza del pubblicano, che ha perduto tempo profanando il tempio del Signore con la propria autoesaltazione e con il giudizio improprio di condanna rivolto al compagno accanto.
Se la preghiera non inizia con l'umiltà e se questa non è realmente identica quale fuga dall'ipocrisia e dalla presunzione e non si esterna nell'ammissione dei propri peccati, probabilmente non è neppure preghiera. E se l'umiltà è l'anticamera delle perfezioni, non può non essere che l'anticamera della nostra fede, che ci conduce ad essere perfetti e irreprensibili come il Padre sulle orme di Cristo.
Omelia di padre Gian Franco Scarpitta
Liturgia e Liturgia della Parola della XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 27 ottobre 2013