13 ottobre 2013 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: È la salvezza la vera guarigione!

News del 08/10/2013 Torna all'elenco delle news

Dieci lebbrosi fermi a distanza; solo occhi e voce; mani neppu­re più capaci di accarezzare un figlio: Gesù, abbi pietà .

E appena li vede (subito, sen­za aspettare un secondo di più, perché prova dolore per il dolore del mondo) dice: An­date dai sacerdoti. È finita la distanza.

Andate. Siete già guariti, an­che se ancora non lo vedete. Il futuro entra in noi molto prima che accada, entra con il primo passo, come un se­me, come una profezia, entra in chi si alza e cammina per un anticipo di fiducia con­cesso a Dio e al proprio do­mani. Solo per questo antici­po di fiducia dato a ogni uo­mo, perfino al nemico, la no­stra terra avrà un futuro.

Si mettono in cammino, e la speranza è più forte dell'evi­denza. Ma chi vuol stare con l'evidenza si rassegni ad es­sere solo il custode del pas­sato.

Si mettono in cammino e la strada è già guarigione. E mentre andavano furono guariti.

Il cuore di questo racconto ri­siede però nell'ultima paro­la: la tua fede ti ha salvato. Il Vangelo è pieno di guariti, un lungo corteo gioioso che ac­compagna l'annuncio. Ep­pure quanti di questi guariti sono anche salvati?

Nove dei lebbrosi guariti non tornano: si smarriscono nel turbine della loro felicità, dentro la salute, la famiglia, gli abbracci ritrovati. E Dio prova gioia per la loro gioia come all'inizio aveva prova­to dolore per il loro dolore.

Non tornano anche perché ubbidiscono all'ordine di Ge­sù: andate dai sacerdoti. Ma Gesù voleva essere disubbi­dito, alle volte l'ubbidienza formale è un tradimento più profondo. «Talvolta bisogna andare contro la legge, per es­serle fedeli in profondità» (Bonhoffer). Come fa Gesù con la legge del sabato.

Uno solo torna, e passa da guarito a salvato. Ha intuito che il segreto non sta nella guarigione, ma nel Guarito­re. È il Donatore che vuole raggiungere non i suoi doni, e poter sfiorare il suo oceano di pace e di fuoco, di vita che non viene meno.

Nel lebbroso che torna im­portante non è l'atto di rin­graziare, quasi che Dio fosse in cerca del nostro grazie, bi­sognoso di contraccambio; è salvo non perché paga il pe­daggio della gratitudine, ma perché entra in comunione: con il proprio corpo, con i suoi, con il cielo, con Cristo: gli abbraccia i piedi e canta alla vita. I nove guariti trova­no la salute; l'unico salvato trova la salute e un Dio che fa fiorire la vita in tutte le sue forme, che dona pelle di pri­mavera ai lebbrosi, un Dio la cui gloria non sono i riti ma l'uomo vivente. Ritornare uo­mini, ritornare a Dio: sono queste le due tavole della leg­ge ultima, i due movimenti essenziali d'ogni salvezza.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Uno solo tornò indietro

La riconoscenza è merce rara, si usa dire, e non senza fondamento. Lo sottintende anche il vangelo di oggi: Gesù era in cammino verso Gerusalemme, quando dieci lebbrosi, fermandosi a distanza da lui (come era prescritto, i colpiti da quel terribile male erano esclusi dal contatto con il resto dell'umanità), invocarono il suo aiuto: "Gesù, maestro, abbi pietà di noi!". Egli si limitò a rispondere: "Andate a presentarvi ai sacerdoti". Sempre secondo le prescrizioni, chi dalla lebbra si riteneva guarito doveva farlo certificare dai sacerdoti, ai quali spettava di riammetterli nella comunità. "E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un samaritano".

Non è l'unico passo del vangelo in cui i samaritani, detestati dai giudei in quanto stranieri ed eretici, emergono migliori di loro: basti ricordare la parabola detta appunto del "buon" samaritano, perenne ammonimento sul fatto che non è la razza a determinare la qualità degli uomini. Ma l'episodio di oggi si focalizza sul fatto che, indipendentemente dalla nazionalità, su dieci miracolati uno solo tornò a ringraziare. "Quando incontriamo qualcuno che ci deve riconoscenza ce ne ricordiamo subito. Quante volte invece incontriamo qualcuno verso il quale abbiamo un debito di gratitudine e non ci pensiamo", ha scritto Goethe, fotografando una realtà che, se riflettiamo, ci riguarda un po' tutti. E se è vero nei riguardi del nostro prossimo, lo è tanto di più riguardo a Colui al quale più di chiunque altro dobbiamo gratitudine, perché da lui abbiamo ricevuto tutto: la vita, con ogni buona cosa che la vita ci ha portato e ci porta, come l'intelligenza e l'istruzione, la possibilità di mangiare tutti i giorni, di avere una casa e un vestito e di curarci se ci ammaliamo, la capacità di amare ed essere amati, un mondo da ammirare per l'infinità di cose belle che racchiude. Soprattutto, da Dio abbiamo ricevuto incomparabili doni spirituali, riassumibili nella sua amicizia e nella possibilità di raggiungerlo, un giorno.

Spesso ci si dimentica di tutto ciò; tutto ci pare dovuto, o insignificante perché ovvio, scontato. Ecco perché nella preghiera spesso ci limitiamo a chiedere, chiedere ancora, chiedere dell'altro. Sarà allora il caso di ricordare che, tra i tanti doni, Dio ci ha messo nelle mani anche il modo di ringraziarlo come si conviene. "Ricordati di santificare le feste", recita uno dei comandamenti; già prima di Gesù, la festa comportava di non lavorare, per avere il tempo e le disposizioni d'animo adatte ad elevare la mente a Dio con sentimenti di riconoscenza. Con Gesù, la festa ha mantenuto lo stesso significato, ma enormemente arricchito: la riconoscenza trova la sua espressione più alta nella Messa, il cui nome proprio, non a caso, è Eucaristia, cioè "ringraziamento". Nella Messa, con-celebrata insieme dal sacerdote e dai fedeli, l'uno e gli altri riconoscono di avere ricevuto tutto da Dio, e come si fa tra gli uomini contraccambiano in quanto possono: di nostro avremmo ben poco da offrirgli; ma ci è dato da offrirgli il dono più grande, il suo stesso Figlio per noi morto e risorto. Quale meraviglia, quale generosità! Dio ci colma di doni, compreso quello da rendergli; da parte nostra occorre soltanto la volontà di farlo. E se lo facciamo, se anche noi ci riconosciamo graziati, si realizza anche per noi quanto Gesù ha detto all'unico dei dieci lebbrosi tornato a ringraziarlo: "Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato".

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

Chi ringrazia certamente crede

Come ben sappiamo, non è la prima volta che un Samaritano fa' la parte del leone in un episodio evangelico. Anche se ciò avviene solamente in un contesto parabolico, un abitante della Samaria, nella strada fra Gerusalemme e Gerico, a differenza di un levita, di un sacerdote e di altri ebrei senz'altro molto zelanti e radicali, si "rendeva prossimo" di un pover'uomo che trova riverso per la strada dopo essere stato aggredito dai briganti. Gli veniva incontro e lo soccorreva prendendosi cura di lui nei minimi dettagli. La sua sollecitudine superava il presunto perbenismo dei dotti farisei d'Israele, ben lontani dalla sua cultura e dalla sua forma mentis.

Nell'episodio evangelico di oggi avviene che, una volta ricevuta la guarigione di Gesù dal morbo terribile della lebbra, a rendere grazie a Dio nella persona di Cristo è di nuovo un Samaritano, che ancora una volta supera in coerenza e rettitudine i cosiddetti "bravi Israeliti".

I lebbrosi che corrono in cerca di Gesù sono infatti in tutto dieci, lui compreso. Tutti quanti vengono guariti dall'intervento prodigioso del Messia Salvatore, che li risolleva oltre che dal male fisico anche dalla pecchia morale del peccato; fra tutti quanti solo il Samaritano ritorna indietro da Gesù a rendere lode a Dio. Gli altri sono intenti a correre dal sacerdote per aver decretato lo stato di avvenuta guarigione, valido per la riammissione nella società. Per la legge di Mosè infatti il malato di lebbra è un impuro che deve essere isolato dal resto della sua comunità e solamente quando è del tutto ristabilito può ottenere il permesso di tornare a socializzare con i suoi concittadini. Tale permesso spetta concederlo solo al sacerdote.

Cosicché, forse presi dalla gioia di poter tornare a convivere con tutti gli altri, avvinti dal fascino del miracolo appena ottenuto, galvanizzati dalla prodigalità del Signore che ha operato in loro ciò che altrove sarebbe stato impossibile, codesti nove mondati non si preoccupano di rendere grazie per il beneficio ricevuto, ma corrono solo dal Sacerdote.

Solo il Samaritano invece torna indietro a rendere grazie al Signore e il fatto che sia solamente lui a farlo ha dello straordinario. Lodando Dio, si prostra davanti a Gesù e lo ringrazia: atteggiamenti simili sottendono un sentire profondo di fede nei confronti di Gesù, ritenuto il figlio di Dio. La sua reazione verte a instaurare un rapporto di spontanea fiducia con il Signore e ad immedesimarsi nella profondità dell'intimità con il Dio che solo in Gesù Cristo è ravvisabile. A differenza dei suoi compagni di sventura, che si affidano ai ritualismi di pratiche esteriori, il Samaritano vuole instaurare un rapporto profondo con Colui che lo ha sanato.

La fede stessa, come finalmente commenta lo stesso Gesù, ha ottenuto la guarigione a questo oscuro personaggio di Samaria che non ha avuto neppure bisogno, a differenza di Naaman il Siro, di particolari ritualismi esteriori quali il bagnarsi nelle acque fluviali: è bastata la sola presenza di Gesù a risanarlo. E' sufficiente la fede radicale nel Cristo a fare in modo che egli riottenga la salute e il reinserimento nella società.

Ma occorre anche sottolineare un particolare importante: questa volta la fede viene associata alla riconoscenza. A differenza degli altri nove, solo il Samaritano si sente in dovere di esprimere gratitudine a Dio nella persona di Gesù, per cui ringrazia e loda prostrandosi a terra. ha motivi validissimi per mostrare riconoscenza perché la lebbra è ai suoi tempi sinonimo di impurità che procura il deprezzamento della gente e obbliga ad isolarsi fino a quando non si è mondi. Per cui si sente in dovere di ringraziare a piene mani con gioia ed esultanza.

Ringraziare significa ammettere. Nel dire "grazie" c'è infatti l'ammissione di essere stati raggiunti dal beneficio del quale ci stiamo compiacendo. Il Samaritano appunto ammette la gratuità del dono di Dio, la sua immeritata ricompensa, la sua piccolezza davanti all'immensità di Dio, per cui per lui il dire grazie è un atto di umiltà.

L'ingratitudine è propria di chi, ottenuto finalmente il beneficio, pensa solamente a goderne e a trastullarsi, noncurante di essere stato gratificato. Ingratitudine è distrarsi dal prossimo che ci ha appena aiutati per concentrasi solo su stessi. La riconoscenza è invece il valore più alto della stima e nel cosa di Dio anche della fede.

Chi ringrazia Dio è certamente uomo di fede. Ma il senso di gratitudine dovrebbe essere una costante del nostro rapporto con Dio. Non dovremmo mai stancarci di rendere grazie a chi è fautore di tutte le grazie, soprattutto nella prosperità e nel benessere. Considerando che quanto abbiamo potrebbe non essere più a nostra disposizione.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

tratti da www.lachiesa.it


Alla gratuità dell’agire di Dio verso l’uomo risponde il riconoscimento del dono e la riconoscenza, la gratitudine di chi riconosce che «tutto è grazia», che l’amore del Signore precede, accompagna e segue la sua vita.

Le parole di Gesù sulla fede di quest’uomo [il lebbroso samaritano, guarito e tornato a ringraziare] significano inoltre che la salvezza è veramente tale se la si celebra: il dono di Dio è accolto quando per esso si sa ringraziare, ovvero riconoscerne e confessarne l’origine. Per questo il cuore della fede cristiana è l’eucaristia, che – non lo si dimentichi – significa proprio «rendimento di grazie»; il posto centrale dell’eucaristia ci ricorda che il culto cristiano consiste essenzialmente in una vita capace di rispondere con gratitudine al dono inestimabile di Dio, il dono del Figlio Gesù Cristo che il Padre, nel suo immenso amore, ha fatto all’umanità (cf. Gv 3,16). E così alla sequela di Gesù Cristo, l’uomo che ha saputo fare dell’intera sua vita una risposta all’amore preveniente del Padre fino a offrirla puntualmente nel segno del pane e del vino, i cristiani rendono grazie a Dio facendo della loro esistenza un’eucaristia vivente. Di fronte al dono di Dio si può solo rispondere cercando di divenire donne e uomini eucaristici (cf. Col 3,15; 1Ts 5,18), capaci di vivere «nel rendimento di grazie» (1Tm 4,4); i cristiani dovrebbero essere coloro che «rendono continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore Gesù Cristo» (cf. Ef 5,20)…(testo di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose)