6 ottobre 2013 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario : la fede, un «niente» che può «tutto»

News del 03/10/2013 Torna all'elenco delle news

Gesù ha appena avanza­to la sua proposta "uni­ca misura del perdono è perdonare senza misura", che agli Apostoli appare un obietti­vo inarrivabile, al di là delle lo­ro forze, e sgorga spontanea la richiesta: accresci in noi la fede. Da soli non ce la faremo mai.

Gesù però non esaudisce la ri­chiesta, perché non tocca a Dio aggiungere, accrescere, au­mentare la fede, non può farlo: essa è la libera risposta dell'uo­mo al corteggiamento di Dio.

Gesù cambia la prospettiva da cui guardare la fede, introdu­cendo come unità di misura il granello di senape, proverbial­mente il più piccolo di tutti i semi: non si tratta di quantità, ma di qualità della fede. Fede come granello, come briciola; non quella sicura e spavalda ma quella che, nella sua fragi­lità, ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria picco­lezza ha ancora più fiducia nel­la sua forza. Allora ne basta un granello, po­ca, anzi meno di poca, per ot­tenere risultati impensabili. La fede è un niente che è tutto. Leggera e forte. Ha la forza di sradicare alberi e la leggerezza di farli volare sul mare: se aveste fede come un granello di se­nape, potrete dire a questo gel­so sradicati.

Io ho visto alberi volare, ho vi­sto il mare riempirsi di gelsi. Ho visto, fuori metafora, discepoli del Vangelo riempire l'orizzon­te di imprese al di sopra delle forze umane.

Segue poi poi una piccola pa­rabola sul rapporto tra padro­ne e servo, che inizia come una fotografia della realtà: Chi di voi, se ha un servo ad arare, gli dirà, quando rientra: Vieni e mettiti a tavola? E che termina con una proposta spiazzante, nello sti­le tipico del Signore: Quando a­vete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Capiamo bene: servo i­nutile significa non determi­nante, non decisivo; indica che la forza che fa crescere il seme non appartiene al seminatore; che la forza che converte non sta nel predicatore, ma nella Pa­rola. «Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore» (Rumi).

Allora capisco che chiedere «ac­cresci la mia fede» significa do­mandare che questa forza vivi­ficante entri come linfa nelle vene del cuore.

Servo inutile è colui che, in una società che pensa solo all'utile, scommette sulla gratuità, sen­za cercare il proprio vantaggio, senza vantare meriti. La sua gioia è servire la vita, custo­dendo con tenerezza coloro che gli sono affidati. Mai nel Vangelo è detto inutile il servi­zio, anzi esso è il nome nuovo, il nome segreto della civiltà. È il nome dell'opera compiuta da Gesù, venuto per servire, non per essere servito. Come lui an­ch'io sarò servo, perché questo è l'unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Dal punto di vista di Dio

La fatica più grande del nostro credo forse non è quella di accettare le dottrine, ma di accogliere la fede come un fatto vitale. Tradurre in concretezza la nostra fede in esperienza è in effetti più difficile di quanto sembri, sia per le continue sfide a cui si è sottoposti, sia per il fatto stesso che il credo cristiano comporta una testimonianza radicale, una prassi di vita costante che va sostenuta ed esercitata nel male e nel bene. Nei momenti di difficoltà ci si ricorda spesso di elevare una preghiera a Dio, così come ci si dimentica di lodarlo e ringraziarlo nei benefici e nelle prosperità; si rende debito culto al Signore nelle celebrazioni liturgiche, lo si venera nelle confessioni sacramentali atte a mondare la nostra coscienza motivati a volte semplicemente da scrupoli e timori esteriori, ma molto spesso ci si dimentica di lui quando si tratti di rendere testimonianza nei rapporti col prossimo. Molte volte si riduce la religione a solo fatto di culto o manifestazione esteriore, senza considerare che è proprio nella quotidianità e nell'ordinarietà della vita che siamo chiamati a mettere in atto i contenuti del nostro credo.

Insomma, la fede è questione di vivere e non solamente di professare, richiede testimonianza coraggiosa, a volte eroismo disinteressato e chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato (1Gv 2, 6). Lo ribadisce anche Giacomo nella sua preziosa Lettera: la fede senza le opere è vana e inesistente (Gc 2, 26).

Con questa espressione così paradossale per noi, Gesù sottolinea che la fede non può limitarsi a mera condotta intellettuale o ad astrattismo e deve escludere ogni forma di esagerata esteriorità: "Se aveste fede quanto un granello di senapa potreste dire a questo monte..." Forse le risultanze della nostra fede non saranno davvero così miracolose, può darsi che non ci si debba aspettare risultati così eclatanti ed inimmaginabili quali lo spostamento di montagne o affini, ma certamente la fede, vissuta nella sua globalità esistenziale, adottata come prerogativa di vita da chi la professa e puntualmente messa in atto con le opere di carità, apporta senza dubbio i suoi benefici e le sue ricompense. L'apertura di cuore a Dio, l'accettazione disinvolta e libera della sua rivelazione e della sua volontà, l'affidamento alla sua Parola e la vita costante nel Signore sotto tutti gli aspetti e in tutti i settori, non passerà inosservata agli occhi di Dio, poiché il Signore non manca di ricompensare chi gli mostra apertura e fedeltà. Quando la fede si incarna nella nostra vita, quando diventa una caratteristica esistenziale che ci identifica fra tutti quanti gli altri, assume connotati di consolazione e consegue benefici certi seppure non mancano le lotte e le vessazioni.

Certamente non si può omettere di considerare la stridente prova insuperabile a cui si è asserviti nella circostanza di lutti improvvisi o di improvvise e immeritate sciagure e in questi casi le domande e gli interrogativi inquietanti del nostro credere sono inevitabili e spesso anche assillanti. Chi perde ad esempio senza preavviso il papà e la mamma o addirittura il figlio in tenera a causa di un malessere inaspettato resta certamente folgorato dall'esperire più la lontananza di Dio che la vicinanza. Essere raggiunti da ingiusti castighi quali malattie irreversibili che costringono alla sedia o al letto con possente sacrificio dei congiunti, essere vessati da avvilenti prove di lutto e di dolore mentre si mostra fedeltà assoluta a Dio comporta certamente smarrimento e sfiducia: "Che cos'ho fatto per meritare questo?" "Perché proprio a me e non ad altri?" "Perché il Signore prova solo i giusti e non i peccatori?". Circostanze come queste rendono comprensibile come sia difficile tante volte coniugare la fede con la vita e anche il Re Abacuc nella prima Lettura lamenta la pena del suo popolo costretto ai patimenti e allo sconforto a causa delle invasioni assirobabilonesi: "

"Fino a quando Signore?"; si domanda cioè fino a quando sarà costretto a vedere iniquità e contese tutt'intorno e per implicito anche fino a quando debbano subire immeritato castigo i giusti e i retti, e si assisterà al trionfo incontrastato dei malvagi e dei prepotenti, che continueranno a passare inosservati nelle loro malefatte. E' la rimostranza di qualsiasi uomo pio e retto costretto a subire castighi immeritati e i dileggiamenti dei malvagi ai quali nulla succede in negativo.

Ciò nondimeno, la rivelazione del Dio Amore che salva accettando la croce e facendo propria ogni esperienza umana di dolore, ci rassicura che le sofferenze e le pene dei giusto non sono inutili: esse contribuiscono a salvare se stessi e gli altri poiché concorrono alla passione stessa del Cristo.

Nella condivisione del nostro dolore con quello della croce di Gesù, ci rendiamo missionari insieme a lui nella stessa opera di redenzione e di salvezza e proprio la fede ci dischiude questa ricca prospettiva con cui vanno viste le sopportazioni di prove e di dolori. La fede ci invita ad interpretare ogni disgrazia come un'opportunità e anche il male irrimediabile della morte diventa in essa comprensibile e legittimabile alla luce del Risorto. Infatti, seppure ci rattristerà sempre (ed è giusto) lo sconforto della morte prematura di un giovane per improvviso malessere, l'apertura all'Assoluto ci ravviserà tuttavia che Dio proprio alle anime giuste concede il giusto premio, la gloria e la vita senza fine per cui ogni evento luttuoso diventa transito di gioia e di festa, quando visto nell'ottica della fede, che è del tutto differente dalle aspettative propriamente nostre.

Forse si dovrebbe avere la volontà di abbandonare il nostro punto di vista per assumere quello di Dio. Vedere insomma ogni cosa e ogni avvenimento con l'ottica trascendentale che esula dalla nostra per riscoprire che la fede può smuovere davvero le montagne, nel senso che è capace di traguardi insperati anche laddove questi si nascondono o non si palesano immediatamente.

Ma il preambolo della fede è l'umiltà. Attitudine di preambolo che ci rende servi inutili, per meritare davvero ogni cosa.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Accresci in noi la fede!

La liturgia della domenica XXVII del tempo ordinario ci fa leggere solamente gli ultimi versetti (Lc.17,5-10) di un brano (Lc.17,1-10) con cui si conclude la seconda tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (Lc.13,22-17,11): si tratta della sintesi di ciò che Gesù chiede ai suoi discepoli come risposta alla proposta di entrare nel progetto del Padre che è di fare dell'umanità una famiglia raccolta attorno all'unica mensa, dove si sperimenta l'amore, la condivisione, la fraternità, dove i primi posti sono riservati agli ultimi, perché non sono i meriti che danno diritti particolari ai migliori, ma solo la gratuità della misericordia del Padre rende il cuore di chi si lascia amare capace di gustare la gioia e la bellezza della mensa comune. Così, il cammino verso Gerusalemme lascia intravedere "la grande gioia" (Lc.24,52) che è la meta alla quale Gesù vuole condurre i suoi discepoli., ma alla quale si arriva solo passando attraverso la croce. La seconda tappa del cammino che Luca ci ha fatto percorrere con Gesù in queste ultime domeniche ha precisamente questo scopo: annunciarci che siamo chiamati ad una vita bella quale solo l'amore ci fa gustare, ma occorre credere l'Amore, avere il coraggio di scelte radicali per liberarci dall'idolatria dell'attaccamento a noi stessi e alle nostre ricchezze che, illudendoci, conducono solo alla infelicità e alla tristezza.

Il brano con cui Luca chiude questa tappa del cammino ci cala nel vissuto della sua comunità, rendendoci partecipi delle difficoltà concrete che essa incontra nella sua esperienza di fede e ci educa in questo modo ad affrontare le nostre, senza paure, mostrandoci come proprio attraverso le nostre crisi passa l'esperienza dell'Amore che ci cambia la vita.

Certo, per una corretta lettura del brano, dovremmo poter conoscere esattamente le situazioni in cui si trova a vivere la comunità cristiana di Luca. E' importante comunque ricordare che il Vangelo non è mai riducibile ad un trattato teorico di morale, ma è la testimonianza di una comunità che vive la fede in un contesto concreto.

"Disse ai suoi discepoli": comincia così il cap.17 di Luca, rivolgendosi ai "discepoli" di Gesù, quindi all'interno della comunità e non più agli "scribi e farisei".

"E' inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per il quale avvengono. E' meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi. Se il tuo fratello commette una colpa, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: "Sono pentito", tu gli perdonerai". Questi versetti omessi, purtroppo, dalla lettura liturgica di questa domenica, sono di una importanza essenziale per illuminare il cammino di fede della comunità cristiana e sono di un altrettanto raffinata profonda precisione: la loro lettura richiede una particolare attenzione. Si parla di scandali come inevitabili: è indice del realismo concreto della vita della comunità cristiana. Lo scandalo è l'ostacolo in cui si inciampa e si cade: Luca parla di atteggiamenti precisi di alcuni che nella comunità con il loro comportamento ostacolano l'esperienza della fede di coloro che hanno un desiderio e un bisogno grande di sperimentare l'amore del Padre. E sottolineando la gravità del comportamento di chi è responsabile degli scandali, tanto da dire: "è meglio che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato in mare", insiste: "State attenti a voi stessi". Questo richiamo alla responsabilità rivolto alla comunità ("voi stessi"). collega la forte denuncia degli scandali e delle persone precise che ne sono la causa, con la risposta che la comunità credente è chiamata a dare: l'attenzione rivolta verso se stessi è la premessa necessaria perché la comunità affronti il problema nell'autenticità di una viva esperienza di fede. "Se il tuo fratello commette una colpa, rimproveralo...": il rapporto fraterno è la condizione normale ed essenziale di coloro che condividono la fede in Gesù. L'autenticità del rapporto fraterno permette la chiarezza costruttiva, anche dura, tra coloro che si amano: l'amore diventa richiamo, diventa perdono, che è l'amore al livello più alto, capace di fare nuova la persona che ha commesso anche il peccato più grave. Il perdono è il rapporto interpersonale più preciso, è l'amore senza limite: è l'Amore che caratterizza la vita della comunità cristiana, che muove il discepolo che ha creduto in Gesù che ha amato fino al dono totale di sé, che ha perdonato i suoi crocifissori. Solo chi si lascia perdonare da Gesù sa che cosa è il perdono e impara a perdonare.

"Accresci in noi la fede": chi partecipa della vita della comunità cristiana, condivide la fragilità, la complessità, il limite, sperimenta quanto sia impossibile alle forze umane vivere l'Amore di Cristo. La bellezza della esperienza da Lui proposta diventa solo un sogno se lasciato all'iniziativa umana, se la comunità cristiana diventa solo una esperienza psicologica o sociologica: "aumenta la nostra fede" è la preghiera che sgorga dal cuore di chi impara a credere e a vivere la fede nella concretezza della quotidianità della vita. Ma la risposta di Gesù è pure illuminante: non si tratta di avere una fede più grande. E' anche questa una illusione, pensare che una fede "più grande" produca effetti più grandi: solo una logica umana pensa di poter misurare gli effetti della fede. Gesù chiede solo la fede, l'abbandono in Lui: essenziale è credere, non credere molto. La fede opera come tale, al di là di ogni nostro desiderio di verifica. La fede cambia i cuori, sposta le montagne, sradica i gelsi.

E ancora: la logica della comunità cristiana non è quella del potere umano, di qualsiasi tipo si tratti, potere della ricchezza, potere dell'intelligenza, potere della forza, potere della politica. Luca in tutto il suo Vangelo ci parla della logica di Dio, che è la logica del capovolgimento dei valori: Dio fa grandi cose in chi è piccolo, depone i potenti dai troni ed innalza gli umili. La logica della comunità cristiana è la fraternità, l'amicizia, il servizio: è ancora la logica della fede. La forza della comunità è il Signore risorto, il servo di Dio che ha offerto la sua vita per tutti gli uomini: il servizio nella comunità cristiana è la continua memoria del dono di Cristo al Padre perché tutti gli uomini vivano della vita di Dio. Servizio al Padre per i fratelli è l'esercizio dell'autorità nella comunità: ogni persona in diversi modi esercita un'autorità. Ognuno nella comunità deve sentirsi solo "servo" di Dio per i fratelli: il coraggio di abdicare ad ogni forma di dominio, della spogliazione dal proprio egoismo, di imporre se stessi agli altri, per essere servi gli uni degli altri, è la via che rende possibile la gioia della vita nuova in Cristo.

Omelia di mons. Gianfranco Poma

Liturgia e Liturgia della Parola della XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 6 ottobre 2013

tratti da www.lachiesa.it