21 luglio 2013 - XVI Domenica del Tempo Ordinario: L'ascolto, primo servizio a Dio
News del 17/07/2013 Torna all'elenco delle news
Un rabbi che entra nella casa di due donne, sovranamente libero di andare dove lo porta il cuore. Libero di parlare alle donne, le escluse, come agli apostoli, seguendo la strada tracciata per la prima volta dall'angelo dell'annunciazione: mettere a parte le donne dei più riposti segreti del Signore.
Gesù ha una meta, Gerusalemme, ma non tira mai dritto, non «passa oltre» quando incontra qualcuno. Per lui, come per il buon samaritano, ogni incontro diventa una meta.
Maria seduta ai piedi del Signore ascolta la sua parola.
Il primo servizio da rendere a Dio - e a tutti - è l'ascolto. Dare un po' di tempo e un po' di cuore; è dall'ascolto che comincia la relazione. Allora una sorta di contagio ti prende quando sei vicino a uno come Lui, un contagio di luce quando sei vicino alla luce. Mi piace immaginare questi due totalmente presi l'uno dall'altra, lui a darsi, lei a riceverlo. E li sento tutti e due felici, lui di aver trovato un nido e un cuore in ascolto, lei di avere un rabbi tutto per sé, per lei che è donna, a cui nessuno insegna. Lui totalmente suo, lei totalmente sua.
Marta Marta tu ti affanni e ti agiti per troppe cose. Gesù, affettuosamente raddoppia il nome, non contraddice il servizio ma l'affanno, non contesta il cuore generoso di Marta ma l'agitazione.
A tutti, ripete: attento a un troppo che è in agguato, a un troppo che può sorgere e ingoiarti, troppo lavoro, troppi desideri, troppo correre, prima la persona poi le cose». Ti siedi ai piedi di Cristo e impari la cosa più importante: a distinguere tra superfluo e necessario, tra illusorio e permanente, tra effimero ed eterno.
Dice Gesù: non ti affannare per nulla che non sia la tua essenza eterna.
Gesù non sopporta che Marta, sia impoverita in un ruolo di servizio, che si perda nelle troppe faccende di casa: Tu, le dice Gesù, sei molto di più. Tu non sei le cose che fai; tu puoi stare con me in una relazione diversa, condividere non solo servizi, ma pensieri, sogni, emozioni, sapienza, conoscienza.
Perché Gesù non cerca servitori, ma amici, non persone che facciano delle cose per lui, ma gente che gli lasci fare delle cose dentro di sé, come santa Maria: ha fatto grandi cose in me l'Onnipotente.
Il centro della fede non è ciò che io faccio per Dio, ma ciò che Dio fa per me.
In me le due sorelle si tengono per mano. Con loro passerò da un Dio sentito come affanno, è Marta, a un Dio sentito come stupore, è Maria. Imparerò a passare da un Dio sentito come dovere, a un Dio sentito come desiderio.
Omelia di padre Ermes Ronchi
L'arte dell'ospitalità
L'arte di ospitare: potrebbe essere questo il tema delle letture di oggi. La prima (Genesi 18,1-10) narra di Abramo che senza rendersene conto accoglie con ogni premura il suo Dio, ed è ricompensato con la nascita del tanto atteso figlio. Il vangelo (Luca 10,38-42) presenta Gesù a Betania, in casa di Lazzaro (l'amico che poi risuscitò), accolto dalle sue sorelle Marta e Maria. Entrambe onoratissime di riceverlo, entrambe preoccupate di offrirgli una degna accoglienza, lo manifestarono però in modo diverso: Marta si fece in quattro nei lavori domestici (possiamo immaginarla indaffarata a riordinare la casa, cucinare, imbandire la mensa); Maria invece si assunse il compito di tenergli compagnia: "Sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola". Comodo, deve aver pensato la prima, la quale se ne lamentò: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Richiesta ragionevole, a prima vista; non però agli occhi di Gesù, il quale ne profittò per lasciarci un insegnamento di perenne validità: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta".
Taluni hanno inteso l'episodio come una contrapposizione tra l'azione concreta, anche buona, e l'ascolto, la meditazione, la preghiera; insomma tra la vita attiva e la vita contemplativa, tra il fare e il pensare, concludendo che Gesù privilegia il secondo. Quando nel Settecento i governi cominciarono a sopprimere i monasteri incamerandone i beni, la motivazione formalmente addotta fu che i monaci e le monache, ritenuti impegnati solo nella preghiera, erano inutili perché privi di una funzione sociale. Quando poi soppressero anche i frati, le suore e le confraternite di laici pur se accanto alla preghiera svolgevano svariate opere di carità, il vero intento divenne palese: indebolire la Chiesa, privandola di uomini e mezzi. Ma quelle decisioni nascevano anche da una motivazione che tuttora qualcuno condivide: l'uomo, dotato di ragione, opera bene, anche a beneficio di altri, senza bisogno di "perdere tempo" a pregare.
Una tale fiducia nell'uomo, capace da solo di vivere rettamente, è contraddetta in modo clamoroso dalle cronache quotidiane e dalla comune esperienza. Il male dentro e intorno a noi non lo possiamo vincere da soli; tutti abbiamo bisogno di quell'aiuto che unicamente Dio ci può dare. E ce lo dà, tanto quanto ci mettiamo in ascolto di lui, in sintonia con lui attraverso la riflessione e la preghiera. Anche il bene (di cui pure siamo capaci), perché non sia semplice frutto delle nostre corte vedute, perché non si risolva in un autocompiacimento, deve essere quello di cui Gesù ha dato l'esempio, deve sgorgare dall'amicizia con lui. Questo dicono le sue parole a Marta: egli non nega il valore di quello che la donna fa; ne contesta l'eccesso e stabilisce la gerarchia dei valori. Essere è più importante che fare. Essere in sintonia con lui è più importante anche del fare, apparentemente, per lui o in suo nome.
Gesù dunque non contrappone vita attiva e vita contemplativa, come se pregare fosse da preferire al servizio del prossimo (del resto, anche nella casa di Betania doveva pur esserci chi preparava la cena). Il richiamo a Marta è a non affannarsi, a non esaurire il suo impegno in cucina; accogliere un ospite non significa soltanto fare cose per lui, ma anche offrirgli la disponibilità del proprio tempo, della propria attenzione. Tanto più se l'ospite è il Signore, che accogliamo, magari con gioia, nella "casa" della nostra vita. Ne va della qualità e dell'efficacia di quello che pensiamo di fare per lui. La vita attiva non dev'essere "altro" da quella contemplativa, ma una sua traduzione, come lui stesso in un'altra circostanza (Luca 11,28) ha sintetizzato: "Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica".
Omelia di mons. Roberto Brunelli
La perfezione? Una comunione
In questa sedicesima domenica, attraverso le letture e il vangelo ascoltati, la Chiesa ci dice, rispetto al tema che ci accompagna da oltre un mese, che il discepolo è colui che accoglie Dio nella propria vita. Lo si accoglie come Dio, con la consapevolezza cioè che la vita non è più quella di prima, che cambiare è una conseguenza "logica", perché qualcosa di nuovo ci spinge, qualcosa di nuovo dà forma alla nostra vita: dopo l'incontro con Dio i nostri criteri non sono più gli stessi di prima.
La prima lettura ci parla dell'accoglienza dello straniero e il fatto che la tradizione della chiesa abbia interpretato questo incontro di Abramo come l'incontro con il Dio-Trinità fa dire che nell'accoglienza dello straniero è importante cogliere questa opportunità: accogliere Dio.
Chi cerca di cogliere nella Bibbia un messaggio sullo straniero e sui rapporti da tessere con lui, fa una prima scoperta che può destare un certo stupore: chi è lo straniero nella Bibbia? La risposta è: il primo straniero è il popolo di Dio, è Israele. Addirittura Dio ha richiesto agli Ebrei di recitare una professione di fede, recitare un credo, diremmo nel nostro linguaggio, e l'Ebreo quando andava al tempio, sta scritto nel Deuteronomio, doveva dire questa formula: Mio padre era un Arameo errante, uno straniero. Israele è stato un popolo straniero e lo stesso appellativo da cui deriva il termine italiano "ebreo", che nella lingua ebraica si dice "ibri", ebbene questo termine indica una persona sconosciuta che viene da un'altra terra. Quindi addirittura potremmo dire che chi diceva "ebreo" nell'antichità diceva "straniero".
Vi leggo alcuni versetti, ma li potrete moltiplicare per dieci, perché li ritrovate paralleli in altri testi: Tu amerai lo straniero come te stesso. Non solo il prossimo che ti è vicino, il grande comandamento che tutti conoscete: Amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso, ma in Levitico 19,34: Amerai lo straniero come te stesso: questo è un comando di Dio. Esodo 23,9: Non opprimerai lo straniero, tu infatti sei stato straniero in Egitto, Deuteronomio 10,18: Dio ama lo straniero e all'interno della Legge si registrano numerose altre ammonizioni sull'argomento, ma tutte riconducibili a queste tre, legate tra l'altro sempre ad una identica motivazione: perché anche voi siete stati stranieri in terra d'Egitto. I credenti in Dio devono amare lo straniero e, se vogliono essere fedeli alla loro vocazione, non possono assumere nei confronti degli stranieri atteggiamenti di sfruttamento e oppressione. Lo sappiamo, erano molti gli stranieri che si recavano nella terra di Israele per trovarvi pane e lavoro in tempi di carestia, e, secondo la cultura dell'epoca, gli stranieri erano ritenuti senza dignità, alla stregua degli schiavi, adibiti a lavorare per i residenti; ebbene, a fronte di ciò, Dio chiede al suo popolo non solo di accogliere lo straniero, ma di rispettarlo nella sua dignità umana, chiede di amarlo, e promette addirittura: se lo straniero griderà verso di me, io ascolterò il suo lamento e mi metterò contro di voi, cioè Dio si fa vendicatore dello straniero, visto che Dio supponeva che se lo straniero è oppresso, significa che anche le leggi dello stato lo lasciano opprimere e in quel caso Dio piglia lui la responsabilità di punire chi opprime lo straniero. Tutto l'insegnamento è contraddistinto da un'attenzione particolare ai senza-dignità: i poveri, le vedove, gli orfani, gli stranieri e come clausola dell'alleanza con Dio, come condizione per avere le benedizioni da Dio. Dio richiede una liturgia in cui, attenzione ve la leggo, è la liturgia di Deuteronomio 27,19: I sacerdoti grideranno: maledetti quelli che ledono i diritti dello straniero, dell'orfano e della vedova e tutto il popolo rispose: Amen, è così. Chi lede il diritto degli immigrati si pone fuori dall'alleanza, fuori dal rapporto con Dio.
Abramo oggi ci dice l'importanza dell'apertura, dell'ospitalità, della generosità non solo nei riguardi "dei suoi", ma anche nei riguardi degli stranieri. Si, perché l'essere ospitali con il prossimo, dice disponibilità e apertura a Dio che chiede di essere accolto; dopo il servizio e l'accoglienza, dopo il darsi da fare ecco l'ascolto, il rimanere in piedi davanti ai tre: il suo silenzio è figura della fede, che ascolta, che attende, e si abbandona fiduciosa alla Parola di Dio (d. Daniele Simonazzi). Alcune sottolineature mi paiono importanti:
- nella versione greca non troviamo il verbo apparire. Quindi questa non è una apparizione come quelle che intendiamo noi un po' influenzati, forse, dal senso del grandioso e del meraviglioso. Dio si fece vedere è la traduzione letterale e mi sembra più forte, più bella, perché mi aiuta a comprendere che quello di Dio è un continuo venire, scendere nella vita dell'uomo. E' un Dio che non si stanca di prendere l'iniziativa.
- Dio si lascia accogliere da Abramo (dagli uomini) quasi non desiderasse altro.
- Dio si fa vedere nell'ora più calda del giorno, quella in cui, mi viene da dire, ci si riposa, non si fa niente. Abramo allora ci dice una prontezza, un desiderio, un'agilità che vincono anche l'età ormai avanzata.
La seconda lettura ci dice che il discepolo annuncia Gesù Cristo. E' una precisazione importante, un richiamo che sento necessario, perché la tentazione a mettere in evidenza la propria immagine è sempre alle porte. Il discepolo annunzia, cioè consegna. Non è un racconto di fatti, non è il riassunto di un libro, è consegna di quello che per noi è un tesoro e questo è un impegno serio, che richiede tutte le forze ed energie a nostra disposizione. Il versetto 28, nella sua traduzione letterale, ci dà un'idea di questo impegno. Ammonendo ogni uomo e istruendo ogni uomo in ogni sapienza per presentare ogni uomo perfetto in Cristo... questo ripetere tante volte la parola ogni, ci dice la cura, l'impegno, e lo scopo delicato e profondo dell'opera di evangelizzazione (don G. Nicolini). E' un richiamo, (per me anzitutto che spesso e volentieri sono approssimativo) alla cura scrupolosa che come discepoli dobbiamo avere per consegnare ogni contenuto del messaggio cristiano che non può escludere nessuno (per tre volte si ripete ogni uomo!!!).
In questa seconda lettura mi pare importante anche una riflessione sull'essere perfetti, perché l'idea di perfezione che abbiamo noi, anche nella chiesa a volte, forse è un pochino diversa da quella del Nuovo Testamento. Istintivamente alla idea di perfezione io lego l'assenza di difetti, ma non credo che l'idea cristiana di perfezione sia questa. Mi faccio aiutare ancora dalle parole di don G. Nicolini che un giorno, nella sua lectio ci ha trasmesso questa intuizione preziosissima: perfetto va pensato in direzione di Gesù Cristo e il suo significato si avvicina al termine stesso di cristiano. La nostra perfezione quindi coincide con la nostra piena comunione con Lui. Comunione che, lo sappiamo bene, prescinde dai nostri difetti, dalle nostre debolezze, dai nostri peccati che, assunti, sono il veicolo per una relazione vera e sincera con Gesù, il quale è venuto non per "celebrare le nostre perfezioni", ma per visitare le nostre debolezze.
Anche il brano di Vangelo ci aiuta ad arricchire il nostro cammino sul discepolato dicendoci il primato dell'ascolto. Gesù rovescia le cose rispetto alla prima lettura, (dove Abramo prima serve e poi si ferma ad ascoltare) e pare affermare il primato dell'ascolto sul servizio... o forse quello di Abramo è un fare non agitato, non preoccupato che tutto vada bene perché già risposta ad un ascolto vero, un cambio di vita, un mettersi in cammino. un fare che riconosce la visita di Dio (mio Signore... dice Abramo). Un giorno, ascoltando don Daniele Simonazzi mi rimasero impresse queste sue parole: ascoltare è sempre servire, perché ascoltare è un mettersi ai piedi. L'ascolto e il servizio di Maria, l'ascolto e il servizio della donna peccatrice, l'ascolto e il servizio di Gesù che si mette ai piedi dei discepoli... penso allora al mio essere qua, in mezzo a tanta gente che ha bisogno, ha bisogno di cose e ha bisogno di parole e non posso dire di servirli perché non so se sono capace di mettermi ai loro piedi. A Marta Gesù non dice: ?smettila di servire'. piuttosto dice: ?vivi il servizio come vivi lo stare ai miei piedi'. C'è un servizio che non è il mettersi ai piedi; c'è un servizio che domina, un servizio per il quale si avanzano delle pretese. Ma qui siamo fuori dell'ottica del vangelo che è sempre quella della gratuità; non è certamente questo il servizio che ci è chiesto. Il servizio che ci è chiesto è il servizio vissuto come ascolto. Don Daniele ci raccomandava in quell'incontro: tu fai tante cose: bene. Allora vivile ai piedi, vivile ascoltando. Sappi cogliere che di tutto ciò che fai, che va fatto, ciò che va tenuto è la possibilità che questo servizio ti dà di ascoltare. Si può essere uomini e donne di potere nella misura in cui si è una chiesa che pretende per il servizio che svolge. Questa si chiama reciprocità, questo non è l'atteggiamento di Gesù, non è l'atteggiamento che ci propone il vangelo.
Che possiamo apprendere come chiesa, questo stare ai piedi dei nostri fratelli e sorelle: i piedi sono la loro parte migliore, ce lo insegna un'amica di Gesù di nome Maria.
Liturgia e Liturgia della Parola della XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 21 luglio 2013