5 maggio 2013 - VI Domenica di Pasqua: E' amando che si capisce la Parola

News del 24/04/2013 Torna all'elenco delle news

Se uno mi ama. Gesù ri­vendica per sé, per la prima volta, il senti­mento più importante e di­rompente del mondo uma­no: l'amore. Entra nella no­stra parte più intima e profonda, ma con estrema delicatezza. Tutto poggia sulla prima parola «se», «se tu ami». Un fondamento co­sì umile, così libero, così fra­gile, così puro, così pazien­te. «Se mi ami osserverai la mia parola» e non esprime un ordine, non formula un comando, ma apre una pos­sibilità; non un verbo al­l'imperativo, ma al futuro e che esprime il rispetto emo­zionante di Dio, che bussa alla porta del cuore e atten­de: se ami, farai. E subito rovescia il nostro modo di pensare. Noi a­vremmo detto: se osservi la mia parola arriverai ad a­marmi, senza avvertire che questa logica capovolge il Vangelo, perché vede Dio come uno specchio su cui far rimbalzare i propri meri­ti, Dio della legge e non del­la grazia. Un detto medioevale affer­ma: «I giusti camminano, i sapienti corrono, gli inna­morati volano». L'amore mette una energia, una luce, un calore, una gioia in tutto ciò che fai, e ti pare di vola­re. Volare a osservare la sua Parola, così è scritto, e noi invece abbiamo subito ca­pito male come se Gesù a­vesse detto: a osservare i miei comandamenti. E invece no, la Parola non coincide con i comandamenti, è molto di più. La Parola salva, illumi­na, traccia strade, consola. La Parola fa vivere, semina i campi della vita, ti incalza, porta Dio in te.
Solo se la ami, la Parola si ac­cende, porta pane, soffia nelle vele. Solo se hai scoperto la bellezza di Cristo partirà la spinta a vivere il suo Vangelo. Perché la no­stra vita non avanza per col­pi di volontà ma per una passione. E la passione nasce da una bellezza. In me l'amore per Gesù sgorga dal­la bellezza che ho intuito in lui, dalla sua vita buona, bel­la e beata. Poi una seconda serie di espressioni: verremo a lui, prenderemo dimora presso di lui, tornerò a voi. Un Dio che ama la vicinanza, che abbrevia instancabilmente le distanze. E prenderemo di­mora: in me il Misericordio­so senza casa cerca casa. Forse non troverà mai una vera dimora, solo un pove­ro riparo. Ma una cosa Lui mi domanda: essere un frammento di cosmo ospi­tale. Dio non si merita, si o­spita.
Ma se non pensi a lui, se non gli parli dentro, se non lo a­scolti nel segreto, forse non sei ancora casa di Dio. Se non c'è rito nel cuore, una liturgia segreta e intima, tut­te le altre liturgie sono ma­schere del nulla. Custodia­mo allora i riti del cuore. 
Omelia di padre Ermes Ronchi


Se uno mi ama, osserverà la mia Parola ed il Padre mio lo amerà

Dovremmo leggere interamente il cap.14 del Vangelo di Giovanni di cui la Liturgia nella domenica VI di Pasqua ci offre solo la parte finale (vv.23-29) per coglierne la intensa unità. Le ultime parole (che il lezionario liturgico omette) "Alzatevi, andiamo", sono la conclusione di un insegnamento e sono l'invito ad un movimento che, materialmente, di fatto, nel racconto, non avverrà: possono avere piuttosto un senso metaforico, come invito rivolto ai discepoli, fermi e seduti, ad alzarsi e a partire con Gesù per seguire il pastore. "Io sono la via, la verità e la vita" (v.6), ha proclamato Gesù, invitando i discepoli a seguirlo nel cammino verso il Padre per raggiungere la pienezza della vita.
Giov.14 inizia così: "Non sia turbato il vostro cuore. Credete in Dio e in me credete." e termina: "Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate". La fede, dunque, è il tema centrale di questo capitolo, la fede come cammino sicuro, come fonte di gioia perché è cammino nell'Amore.
"Credete in Dio e in me credete". La frase, costruita in modo preciso, invita ad abbandonarsi totalmente in Dio: solo Dio può donare all'uomo fiducia, sicurezza e gioia. E invita ad abbandonarsi con la stessa totalità in lui, Gesù, che con la sua presenza concreta nella storia, manifesta che cosa significhi abbandonarsi in Dio e vivere di Dio. Credere significa dunque seguire Gesù che è la vera via della vita, non come fonte di precetti morali, ma lasciandosi afferrare da lui, lasciandosi amare da lui, entrando in una relazione così intima con lui da vivere la sua stessa vita, che è vita di relazione con il Padre: seguire Gesù signfica entrare con lui nella "conoscenza" del Padre, scoprire "dove" è il Padre e vivere la vita piena. Credere significa seguire Gesù fino in fondo per scoprire chi è l'uomo, che trova senso solo nella relazione con Dio: seguire Gesù, l'uomo in relazione filiale con il Padre, relazione di Amore senza limite.
Ma Gesù sta dicendo, parlando al cuore dei discepoli, che seguire lui, credere in lui, credere in Dio, significa seguire la via della Croce. La conclusione del discorso è sconvolgente: "Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe di questo mondo: contro di me non può nulla, ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco". La Croce non è la sconfitta di Gesù, ma la sua vittoria: egli non evita la prova, si coinvolge con il mondo, sperimenta il male e il dolore facendo di questa sua condivisione il luogo della fedeltà a Dio che vuole solo amare. Gesù è amato dal Padre perché fa di se stesso, del suo corpo, della sua parola, la via attraverso la quale può arrivare al mondo l' Amore: questo fa di lui il più forte. La Croce, momento di estrema debolezza, nel quale Gesù dona la sua vita, è in realtà il momento dell'estremo Amore, il momento di Dio, la sua "ora", l'ora della vita.
Credere la Croce come Amore, l'oscurità come luce, la morte come fonte di vita: il discorso di Gesù è in realtà una grande catechesi rivolta ai discepoli di ogni momento (a noi, oggi) perché non si scandalizzino della Croce, lo seguano e vivano, in comunione con lui, la pienezza della vita nuova che proprio la Croce ha generato, percependone tutta la ricchezza.
È così bella questa vita di cui Gesù parla con i suoi discepoli che Giuda, non l'Iscariota, non può trattenersi dal chiedergli: "Signore, cos'è accaduto che tu debba manifestarti a noi e non al mondo?" Certo la comunità credente nel suo cammino sperimenta le difficoltà, le resistenze, il dubbio: come è possibile credere l'Amore-Croce? Come è possibile accettare quella parola di Gesù: "Come il Padre mi ha comandato, io agisco"?
Gesù fa una distinzione tra "il mondo" per il quale la sua morte è la fine ("non lo vedrà più") e i discepoli che "lo vedranno e avranno la vita": egli insiste sulla dimensione della relazione personale. La fede, credere in Gesù che ama sino alla Croce per essere la presenza dell'Amore del Padre, è relazione personale di amore. "Se uno ama me, resterà fedele alla mia parola e il Padre mio amerà lui, e noi verremo a lui, e noi prenderemo dimora presso di lui...": la serie insistente dei pronomi personali sottolinea che Gesù non vuole insegnare una dottrina ma invitare ad entrare in una esperienza di relazione personale. Egli si manifesta vivo non in modo spettacolare ma aprendo ad una relazione che è amore, ascolto, fedeltà, "venire presso", rimanere. La rivelazione di Gesù non è la conquista delle masse, ma proposta per ciascuno in particolare. Solo chi personalmente ama Gesù, si apre a lui, vive di lui, crea lo spazio che permette a Dio di manifestare il suo Amore e di prendere dimora nella sua vita.
E Gesù rivela che chi lo ri-presenta vivo è "lo Spirito Santo che il Padre manderà nel suo nome". Gesù è vivo perché lo Spirito assicura la presenza nuova dell'Assente facendo "memoria" di Gesù ed attualizzandone l'insegnamento. Ed è proprio questa la novità della relazione con ogni credente che la Croce ha reso possibile: lo Spirito nella storia rinnova la memoria di Gesù nella persona di chi si apre a lui ed attualizza la sua parola perché non sia mai vecchia, ripetitiva, fuori dalla storia.
Così, la trasformazione dell'esistenza dei discepoli, è la prova che la morte di Gesù non è una perdita ma una splendida vittoria: per questo essi possono non soccombere alla tristezza ma vivere il dono che caratterizza la vita di chi credendo, si sente avvolto dall'Amore, che è la pace. La pace trasmessa da Gesù, che solo Dio dona: è la pace che lui, abbandonato nel Padre, ha sperimentato in mezzo a conflitti, rifiuti, tentativi di lapidazione, tradimenti, rinnegamenti...la pace, ben diversa da quella del mondo, di fronte alla quale il "Principe di questo mondo" nulla può fare.
Giuda, non l'Iscariota, gli aveva chiesto: "Signore, cos'è accaduto che ti manifesti a noi e non al mondo?" Adesso Gesù risponde: "Bisogna che il mondo sappia che io amo il mondo...". Secondo il Vangelo di Giovanni l'annuncio essenziale ("il kerigma") è proprio questo: "Gesù ama il mondo". È l'annuncio rivolto al mondo intero, dell'infinito Amore di Dio che si è fatto concreto, sperimentabile, nella carne di Gesù. E' l'annuncio per tutti, ma è l'annuncio dell'Amore nella Croce. Non è una teoria razionale, è un'esperienza: solo credendo l'Amore si può sperimentarlo, provarne la forza e la verità. Solo chi si fa discepolo di Gesù, si lascia amare da lui, lo sperimenta. Poi può annunciarlo al mondo, perché il mondo creda. "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri". Tutto è Amore, persino la Croce: solo chi lo sperimenta e ne è afferrato, ne diventa un appassionato annunciatore perché si dilatino gli spazi del mondo che rinasce. 
Omelia di mons. Gianfranco Poma


Una Chiesa a dodici porte

Il libro dell'Apocalisse, la cui lettura ci ha accompagnato durante questo Tempo di Pasqua, non è certo di facile interpretazione. Giovanni, nel testo dell'Apocalisse, descrive la visione della Nuova Gerusalemme che "scende dal cielo...risplendente della gloria di Dio". Le simbologie e i significati legati a questa descrizione sono molteplici: ma quello che a me colpisce è il particolare di queste "porte", dodici, tre per ognuno dei quattro punti cardinali della città, quasi a sottolineare l'apertura universale di questa città ad ogni realtà umana. Se è vero (come pare) che la Nuova Gerusalemme celeste è il "tipo", il modello della Comunità dei credenti, ossia della Chiesa, a cui la comunità di Giovanni guarda come a qualcosa cui bisogna tendere, allora questa Chiesa si caratterizza per le sue numerose porte, aperte su ogni lato dell'umanità, su ogni frontiera, su ogni uomo.
Proprio come la Chiesa che esce dal Concilio di Gerusalemme, il primo della storia, di cui ci parla la prima lettura. La situazione - si comprende bene - riflette l'annosa questione del modo di professare la religione cristiana: il cristianesimo è il compimento della legge giudaica oppure ne rappresenta un superamento e quindi una novità, pur derivando da essa? Per essere dei buoni cristiani, bisogna essere innanzitutto (come lo fu Gesù) dei buoni osservanti della legge giudaica oppure si può arrivare alla fede cristiana a prescindere dal passaggio attraverso la religione di Israele? Dal momento che la religione giudaica era un tutt'uno con la sua cultura, il suo territorio, la sua lingua, e dal momento che per essere buoni cristiani occorreva anzitutto essere osservanti della legge giudaica, la conclusione poteva diventare quella per cui al di fuori del territorio e della cultura giudaica non si poteva accedere al cristianesimo: come la mettiamo, allora, con i greci, con gli abitanti della Siria, dell'Asia Minore, dell'area Balcanica, della Turchia e alla fine di Roma che - grazie soprattutto alla predicazione di Paolo e di Barnaba, ma non solo - avevano abbracciato il cristianesimo senza passare attraverso il giudaismo ma provenendo direttamente da quello che allora era considerato "paganesimo"? Se poi a questo aggiungiamo l'aggravante di gente che, per i propri interessi, vuole costringere gli altri a giungere alla salvezza attraverso l'unico cammino possibile, cioè quello che loro stessi avevano fatto (come i Giudei che volevano imporre la legge di Mosè alle comunità di Antiochia), allora l'idea del cristianesimo come religione universale, e della Chiesa come realtà aperta ad ogni uomo, inizia davvero a scricchiolare.
Sono questioni che a noi paiono ormai superate: che uno sia italiano o scandinavo o nordafricano o indiano o sudamericano o australiano, poco conta, perché possa dirsi cristiano. Il messaggio di Cristo è universale, e questo è tranquillamente accettato. Non era così a quei tempi.
Fatte però le debite distinzioni legate alle diversità epocali, dopo duemila anni di cristianesimo non diamo per scontato che la Chiesa oggi abbia ormai acquisito una dimensione piena di universalità. A livello territoriale, lo dicevamo prima, non si discute: ma a livello culturale, teologico e soprattutto sul piano dell'etica e del comportamento cristiano, ci sono ancora parecchie difficoltà ad accettare la "cattolicità", l'universalità del messaggio cristiano come "specifico", "sostanziale" del cristianesimo. Ancora oggi, la Chiesa, pur avendo ben presente il modello della Gerusalemme Celeste a cui deve tendere, fatica a mantenere aperte su ogni punto cardinale quelle "dodici porte" di cui l'Apocalisse ci parla.
Abbiamo ancora troppe chiese che lasciano chiuse le loro porte "ad ogni uomo"; troppe chiese hanno le porte chiuse! E non mi riferisco ai templi, che per ragioni pratiche molte volte sono costretti a chiudere i loro battenti al termine di una funzione liturgica per evitare il trafugamento di opere d'arte. Mi riferisco alle chiese nel senso di "comunità di credenti", che spesso chiudono le loro porte invece di aprirle. Mi riferisco a comunità di credenti che invece di accogliere allontanano la gente. Mi riferisco a comunità di credenti che a parole dicono: "Ci vuole gente nuova"; poi però quando arriva qualcuno di nuovo, con atteggiamenti degni della miglior gelosia impediscono a chi è nuovo di inserirsi in un cammino di fede e di impegno pastorale. Mi riferisco anche a comunità di credenti rette e manipolate da cristiani ben pensanti di prima categoria e di alto profilo culturale che vorrebbero (come i giudei della prima lettura) imporre agli altri un modo di vivere la fede che nemmeno loro sono in grado di portare avanti con coerenza. Mi riferisco a coloro che fanno del cristianesimo una religione dell'aut - aut (o vivi così o non sei cristiano) invece di adottare uno stile dell'et - et (dando spazio e posto a ognuno nella Chiesa, ognuno con le proprie peculiarità e i propri modi di vivere il cristianesimo).
Certamente, su alcune cose di fondo bisogna intendersi, perché la Chiesa non è un concentrato di anarchie. Anche la Chiesa che esce dal Concilio di Gerusalemme ne esce dando come indicazioni alcune "cose necessarie a cui attenersi" e sulle quali è bene che ci sia anche oggi ampia condivisione. Ma se facciamo caso alle "cose necessarie a cui attenersi" indicate nei versetti finali del brano degli Atti degli Apostoli, ci rendiamo conto di come la maggior parte di esse siano legate a situazioni ben precise, determinate da un puntuale contesto storico e culturale, e che vanno continuamente rilette e riadattate alla luce dei tempi che stiamo vivendo.
Se la Chiesa non è capace di rileggere il messaggio cristiano, soprattutto nella sua dimensione sociale ed etica, alla luce dei tempi, delle culture e delle situazioni che si trova a vivere nel prosieguo della storia, rischia di non essere più immagine di quella Gerusalemme del cielo con le dodici porte aperte in ogni direzione. Diventerà sempre più un baluardo inaccessibile, una fortezza inespugnabile, perfetta, inattaccabile, ma - forse - resterà desolatamente vuota.
Il Concilio Vaticano II l'aveva colto già cinquant'anni fa: "É dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna, infatti, conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico". (GS 4).
E ancora: "Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l'universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede, infatti, tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane". (GS 11).
Lo Spirito Santo - ce lo ha promesso quest'oggi Gesù - "ci insegnerà ogni cosa". 
Omelia di don Alberto Brignoli 

Liturgia e Liturgia della Parola della VI Domenica di Pasqua (Anno C) 5 maggio 2013