14 settembre 2014 - XXIV Domenica del T.O. e Festa della esaltazione della Santa Croce

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Il 14 settembre la Liturgia celebra la festa della "Esaltazione della S. Croce": la XXIV domenica del tempo ordinario, quest'anno assume un significato particolare, ponendoci con chiarezza di fronte alla sconvolgente "differenza" cristiana. "Esaltare la Croce" non è privo di rischi: potrebbe indurre a pensare ad un Dio sadico che gode nel far soffrire il proprio figlio e le sue creature, o alla volontà masochista delle creature che ritengono di farsi Dio amico offrendogli sacrifici a lui graditi, o potrebbe, come di fatto è avvenuto, diventare la giustificazione al desiderio di usare la Croce di Cristo per le proprie battaglie, come un'arma che assicura la vittoria. Celebrare questa festa per noi significa entrare nel mistero della Croce: la Croce ci libera dal pericolo di teorizzazioni, gnosticismi, utopie consolatorie e ci fa incontrare l'evento cocreto e la persona di Gesù di Nazareth. Come "il centurione, che si trovava di fronte, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest'uomo era figlio di Dio!" (Mc.15,39), anche noi siamo chiamati a porci di fronte alla Croce, a guardarlo morire in quel modo e solo dopo non essere fuggiti, non esserci scandalizzati di lui ed essere scesi con lui nel profondo della nostra umanità, sentire che, nella identificazione con lui, sentire che la nostra vita cambia. Guardando la Croce entriamo nel mistero del figlio dell'uomo, della fragilità senza limite dell'uomo che continua a desiderare l'infinito, e nel mistero di Dio che discende nel limite umano per riempirlo con il suo infinito Amore: nella carne crocifissa di Gesù, il mistero di Dio e dell'uomo si incontrano in un infinito abbraccio di Amore. Noi vorremmo che il mistero si sciogliesse: vorremo che Dio facesse il grande miracolo... ma finirebbe la storia, non ci sarebbe il mondo, non ci saremmo noi! Dio continua ad implorarci perché nella Croce di Gesù, e nelle nostre croci, spesso terribili, crediamo il suo Amore.

Anche a noi, oggi, come a Nicodemo, Gesù chiede il coraggio della fede (Giov.3,13-17). Nicodemo è il primo dei personaggi che egli incontra, nel Vangelo di Giovanni: è uno dei capi dei Giudei, un maestro, rappresentante del sapere teologico giudaico nella sua più alta espressione. L'incontro con Gesù lo guida nel cammino interiore della ricerca del senso della vita: è un dialogo perché comprenda che l'uomo che cerca, trova la luce aprendosi all'accoglienza di un dono di Amore che illumina la sua notte. Gradualmente Nicodemo scompare, si oltrepassa il dialogo tra due maestri: solo Gesù parla, il suo diventa un discorso di rivelazione. Nella sua notte, Nicodemo cercava Gesù come maestro, buon interprete della Parola di Dio, che gli spiegasse la via adeguata per salire a Dio e trovare il senso della vita: Gesù lo spiazza, presentandogli la sua impensabile novità. Giovanni scrive quando l'evento finale della vita di Gesù è già accaduto: Gesù è disceso, sino alla morte, sino alla Croce. Adesso annuncia che proprio per questo è "salito al cielo": si è annientato sino alla morte, ha lasciato spazio all'Amore. Facendosi piccolo l'Amore diventa infinito. Nella sua Croce, simbolo estremo della finitezza umana, Gesù mostra che la salvezza che l'uomo cerca, non la trova "innalzandosi", cercando con le proprie forze di trascendere il limite dell'esistenza creaturale, ma percorrendo fino in fondo la sua via, che fa dell'esistenza umana lo spazio all'Amore di cui il Padre riempie il Figlio. Solo "discendendo" l'uomo "è innalzato": solo lasciando spazio all'Amore, tutto dell'uomo diventa Amore.

Così, oltrepassando Nicodemo, al mondo, a noi, oggi, Gesù presenta se stesso, come lo spazio umano nel quale l'Amore di Dio si è completamente donato, perché il mondo sia salvato: tutto il mondo, nella sua fragilità, è pieno di Amore, Amore che si fa piccolo, per essere infinito. "Credere l'Amore" è la proposta che con insistenza Gesù fa alla fine del suo monologo. Continua la storia, non può esistere un mondo ideale nel quale non ci sono problemi, non c'è sofferenza, non c'è fragilità morale, non ci sono serpenti... Dio non evita la morte del suo Figlio, Gesù ha sperimentato l'angoscia, è salito sulla Croce: ma persino nell'oscurità più profonda, Dio è presente con il suo infinito misterioso Amore. Credere l'Amore, vederlo in tutte le cose, nella quotidianità più fragile, è sperimentare un Dio che non condanna, non giudica, ma ci dona una vita che è nel tempo ma non rinchiudibile dentro nessun confine tanto è inesauribilmente grande.

Omelia di mons. Gianfranco Poma

Liturgia e Liturgia della Parola della Festa della esaltazione della Santa Croce

 

La Festa della Esaltazione della Santa Croce

E' nata nel 335 quando Costantino ed Elena inaugurarono la basilica che sta sul Golgota e sul Santo Sepolcro.

E' importante domandarsi se io esalto la croce, perché è il segno che ne ho capito il significato e la salvezza che ne deriva; salvezza da un'immagine di Dio che non corrisponde a quella che Gesù è venuto a rivelarci, salvezza che comincia con la conoscenza di questo Dio.

Gesù dice che è disceso dal cielo e quindi può parlare e spiegare chi è questo Dio, e per farlo bisogna che sia innalzato sulla croce. Questo è un discorso scandaloso per i Giudei e stoltezza per i pagani dice San Paolo. Scandaloso perché consideravano che il segno della benedizione di Dio è lo stare bene in tutti i sensi, mentre l'andare in croce era segno di maledizione e abbandono di Dio; questa è una mentalità che abbiamo un poco ancora oggi, tanto è vero che ci scandalizziamo se un giovane o una persona da bene si ammala, muore o subisce un'ingiustizia qualsiasi. I pagani considerano che un re è uno che va elevato su un trono, è uno che ha potere. Finire in croce è tutto il contrario.

Come facciamo noi ad esaltare una situazione che per tutti è una disgrazia? Lo facciamo chiaramente alla luce della risurrezione che ci apre la prospettiva della vita eterna, ma per ottenere questo bastava che Gesù morisse di una qualsiasi morte naturale e risorgesse dopo qualche giorno. La morte in croce invece è necessaria per rivelarci un Dio che si lascia trattare così. La sua onnipotenza si rivela proprio in questa capacità di continuare ad amare l'uomo malgrado il fatto che l'uomo da sempre lo rifiuta, lo fraintende, dice male di lui e tende ad ucciderlo. Questo smonta ogni immagine di un Dio autoritario e da tenere buono con sacrifici, pratiche religiose, ecc.

Dio ama l'uomo perché è la sua creatura e se la voleva diversa la faceva diversa.

Capire questo apre il cuore e la mente alla scoperta di un Dio veramente grande, e io mi rendo conto che esaltare questa croce e non la mia bontà, i miei sacrifici, è il segno che sto intravedendo dalla croce, la totale gratuità di Dio nei miei confronti. 

Omelia di padre Paul Devreux


Il "Magnificat" di Dio

L'esaltazione della Santa Croce, attraverso Gesù, che dalla croce strumento di condanna viene esaltato nello Spirito come il Cristo che rende la croce vessillo di vittoria, ci conduce all'intimità e identità di Dio.

E' il Padre, che nel Figlio esprime attraverso la via della croce le sue scelte di vita, i suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi orientamenti dell'animo, della sua mente e del suo cuore, sigillandoli nel suo "magnificat", nell'esultare di gioia attraverso lo Spirito Santo, di fronte alla potenza salvifica, sanante e risuscitante della Croce divina.

Ogni croce che si accosti a questo cammino divino, in un modo o in un altro, si illumina a sua volta, brilla e riluce dello stile del magnificat di Dio, intravedendo sempre e comunque la vittoria su ogni realtà contraria.
E così, la croce divina esalta il meglio non solo di Dio, ma dell'umanità.
Senza la croce come garanzia, ogni verità che voglia dirsi tale è solo parvenza e chimera del momento. Quante belle verità, e forse a partire proprio dalla Chiesa, non rientrano più nell'esperienza della Croce!

Se incontri un disagio, una croce, in te o attorno a te, osservali con l'occhio dello Spirito. Vedrai subito brillare, al di là della prova, della sofferenza e della croce stessa, quello che il Padre ci invita a contemplare, a percepire come vittoria in atto, in quel panorama che attraverso la croce si dispiega agli occhi della fede: è la immensa realtà del mistero di Dio che si fa in noi, unendoci alla gioia del suo Magnificat. 

Omelia di don Luciano Sanvito


La croce, punto di congiunzione tra Dio e il mondo

L’ unica parola che il cristiano ha da consegnare al mondo è la parola della Croce. Dio è entrato nella tragedia dell’uomo, perché l’uomo non vada perduto, con il mezzo scandalosamente povero e debole della croce. Per sapere chi sia Dio devo inginocchiarmi ai piedi della croce ( Karl Rahner).

Tra i due termini, Dio e mondo, Dio e uomo, che tutto dice lontanissimi, incomunicabili, estranei, le parole del Vangelo indicano il punto di incontro: il disceso innalzato, al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio del cielo. Cristo si è abbassato, scrive Paolo, fino alla morte di croce; Cristo è stato innalzato sulla croce, dice Giovanni, attirando tutto a sé.

Tra Dio e il mondo il punto di congiunzione è la croce, che solleva la terra, abbassa il cielo, raccoglie i quattro orizzonti, è crocevia dei cuori dispersi.

Colui che era disceso risale per l’unica via, quella della dismisura dell’amore. Per questo Dio lo ha risuscitato, per questo amore senza misura.
L’essenza del cristianesimo sta nella contemplazione del volto del crocifisso (Carlo Maria Martini), porta che apre sull’essenza di Dio e dell’uomo: essere legame e fare dono.
Ha tanto amato il mondo da dare il Figlio. Mondo amato, terra amata. Da queste parole sorgive, iniziali ripartire: «Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» ( P. Xardel).

E noi qui a stupirci che, dopo duemila anni, ci innamoriamo ancora di Cristo proprio come gli apostoli. Quale attrazione esercita la croce, quale bellezza emana per sedurci?
Sulla croce si condensa la serietà e la dismisura, la gratuità e l’eccesso del dono d’amore; si rivela il principio della bellezza di Dio: il dono supremo della sua vita per noi.
Lo splendore del fondamento della fede, che ci commuove, è qui, nella bellezza dell’atto di amore.

Suprema bellezza è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio di Dio si lascia annullare in quel poco di legno e di terra che basta per morire. Veramente divino è questo abbreviarsi del Verbo in un singulto di amore e di dolore: qui ha fine l’esodo di Dio, estasi del divino. Arte di amare.
Bella è la persona che ama, bellissimo l’amore fino all’estremo. In quel corpo straziato, reso brutto dallo spasimo, in quel corpo che è il riflesso del cuore, riflesso di un amore folle e scandaloso fino a morirne, lì è la bellezza che salva il mondo, lo splendore del fondamento, che ci seduce. 

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

La scuola della croce: amare non è emozione ma dare

Festa dell'Esaltazione della Croce, in cui il cristiano tiene insieme le due facce dell'unica evento: la Croce e la Pasqua, la croce del Risorto con tutte le sue piaghe, la risurrezione del Crocifisso con tutta la sua luce. Parafrasando Kant: «La cro­ce senza la risurrezione è cieca; la risurre­zione senza la croce è vuota».

Dio ha tanto amato. È questo il cuore ar­dente del cristianesimo, la sintesi della fe­de: «Dove sta la tua sintesi lì sta anche il tuo cuore» (Evangelii Gaudium 143). «Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» (L. Xardel). La salvezza è che Lui mi ama, non che io amo Lui. L'unica vera ere­sia cristiana è l'indifferenza, perfetto con­trario dell'amore. Ciò che sventa anche le trame più forti della storia di Dio è solo l'in­differenza.

Invece «amare tanto» è cosa da Dio, e da ve­ri figli di Dio. E penso che ogni volta che u­na creatura ama tanto, in quel momento sta facendo una cosa divina, in quel mo­mento è generata figlia di Dio, incarnazio­ne del suo progetto.

Ha tanto amato il mondo: parole da ripe­tere all'infinito, monotonia divina da inci­dere sulla carne del cuore, da custodire co­me leit-motiv, ritornello che contiene l'es­senziale, ogni volta che un dubbio torna a stendere il suo velo sul cuore.

Ha tanto amato il mondo da dare: amare non è una emozione, comporta un dare, ge­nerosamente, illogicamente, dissennata­mente dare. E Dio non può dare nulla di me­no di se stesso (Meister Eckart).

Dio non ha mandato il Figlio per condan­nare il mondo, ma perché il mondo sia sal­vato per mezzo di lui. Mondo salvato, non condannato. Ogni vol­ta che temiamo condanne, per noi stessi per le ombre che ci portiamo dietro, siamo pa­gani, non abbiamo capito niente della cro­ce. Ogni volta invece che siamo noi a lan­ciare condanne, ritorniamo pagani, scivo­liamo fuori, via dalla storia di Dio.

Mondo salvato, con tutto ciò che è vivo in esso. Salvare vuol dire conservare, e niente andrà perduto: nessun gesto d'amore, nes­sun coraggio, nessuna forte perseveranza, nessun volto. Neppure il più piccolo filo d'er­ba. Perché è tutta la creazione che doman­da, che geme nelle doglie della salvezza.

Perché chiunque crede in lui non vada per­duto, ma abbia la vita eterna. Credere a questo Dio, entrare in questa dinamica, la­sciare che lui entri in noi, entrare nello spa­zio divino «dell'amare tanto», dare fiducia, fidarsi dell'amore come forma di Dio e for­ma del vivere, vuol dire avere la vita eterna, fare le cose che Dio fa', cose che meritano di non morire, che appartengono alle fibre più intime di Dio. Chi fa questo ha già ora, al presente, la vita eterna, una vita piena, rea­lizza pienamente la sua esistenza.

Omelia di padre Ermes Ronchi