2 settembre 2012 - XXII Domenica del Tempo Ordinario: La religione dell'apparenza e la religione del cuore
News del 31/08/2012 Torna all'elenco delle news
Nel Vangelo di Marco c'è un discorso molto severo di Cristo nei confronti del popolo di Israele e in particolare verso quanti onorano Dio solo con le labbra, ma non si lasciano prendere dal cuore, cioè dalla profondità della fede e della religione. Tanto è vero che Gesù condanna apertamente quanti tra i suoi conterranei e contemporanei sono molto attenti all'osservanza esterna della legge di Dio e trascurano invece comandamenti molto più importanti, quali la carità, la giustizia, la verità. Esemplari di una religiosità fatta solo di riti, di prescrizioni, di pura osservanza esteriore sono i farisei, ben conosciuti per il loro modo di agire ligio alle norme esteriori, ma pochi inclini all'amore, alla misericordia. Sono passati alla storia del pensiero cristiano e laico come coloro che salvano la faccia, ma nel privato, nella vita profonda del loro essere sono incapaci di gesti di bontà, misericordia, perdono. Non bisogna andare ai tempi di Gesù per ritrovare, in modo accentuato, oggi, le stesse categorie di persone che, in ogni ambito, compreso quello religioso, tendono solo a salvaguardare la faccia, a dare un'immagine perfetta di se stessi a livello esterno, ma che poi non sono capaci di riflettere nel cuore i valori e le cose che davvero contano davanti a Dio e ai fratelli.
Il Vangelo di oggi ci impone una severa rilettura del nostro modo di credere, del nostro modo di esprimere e manifestare la fede, molte volte solo esteriorità, apparenze, manifestazioni, liturgie svuotate dalla consapevole e sentita partecipazione alla vita della grazia. Una mentalità che affiora sempre più in un uso occasionale della fede, tipo usa e getta, tanto da fare determinate cose religiose (vedi i sacramenti dell'iniziazione cristiana e lo stesso matrimonio) solo per tradizione, solo perché si è fatto sempre così, senza capire a volte l'importanza della scelta che si sta facendo davanti a Dio. I tanti battezzati dove sono? I tanti bambini che hanno ricevuto e rivedono ogni anno la santa comunione, dove sono nelle nostre comunità parrocchiali? I tantissimi giovani che hanno ricevuto il sacramento della cresima, dove vanno, quale itinerario continuano a fare dopo questo sacramento? Le famiglie cristiane fondate sul sacramento del matrimonio dove sono più, quali risposte danno alla cultura della dissacrazione della famiglia e della sua repentina distruzione? E tanti altri temi sensibili a livello religioso: come la preghiera, la partecipazione alla messa, alla confessione, alla vita della comunità ecclesiale, alle opere di bene, alla condivisione e alla solidarietà. Ecco c'è davvero molto da pensare e riflettere su questo brano della parola di Dio di oggi.
Cristo ci invita ad un cambiamento radicale di marcia e di direzione, ci invita ad una seria conversione del nostro cuore e della nostra vita. Non possiamo non fare attenzione a quanto troviamo scritto qui dentro, per la nostra personale santificazione e per la salvezza dell'umanità intera. Queste sono parole sante e santificanti. Sta a noi recepirle e metterle in pratica, eliminando tutto il male che sta nel nostro cuore e nella nostra vita. Sono dodici le parole che sono citate in questo testo e che indicano la depravazione morale in cui viene a trovarsi l'uomo quando agisce solo per fini indegni: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Vedo in questo numero dodici in negativo quello che può essere l'imperfezione totale, rispetto al numero 12 in positivo che viene indicato nella storia e nei simboli dell'antico e nuovo popolo d'Israele.
San Giacomo nel brano della seconda lettura di oggi ci riporta alla nostra responsabilità diretta che abbiamo rispetto all'accoglienza della parola di Dio e della sua pratica attuazione. Non possano essere tra quelli che ascolano solo, ma è necessario collocarsi tra quelli che operano in ragione e in risposta della parola ascoltata e meditata. I cristiani delle pie intenzioni ce ne sono tanti, quelli che alle pie intenzioni fanno corrispondere sante azioni ce ne sono pochi. Ecco perché la crisi di fede oggi non è più strisciante, marginale, ma evidente e consistente. Una riposta concreta la troviamo in questo brano della parola di Dio che ci interpella. Una religione che proclama soltanto, annuncia, emette sentenze è una religione vuota se a queste cose non corrispondono fatti dei singoli e della comunità. Religione pura, infatti, ci ricorda san Giacomo, che è molto esplicito al riguardo, è senza peli sulla lingua, come si dice nel linguaggio comune, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Non ci resta altro da fare che andare all'origine di questa nostra religione e fede, non solo nel senso biblico e storico, ma nel senso personale e familiare. Se oggi siamo ancora cattolici o diciamo di esserlo bisogna che questo nostro modo di vivere la cattolicità sia espresso con comportamenti consoni alla fede alla quale apparteniamo. Non si può accettare una parte ed escludere l'altra. Ogni regola, ogni legge, ogni consiglio è utile per la nostra santificazione come ricorda il testo della prima lettura odierna, tratto dal Libro del Deuteronòmio. Emerge qui di nuovo la figura del grande condottiero verso la libertà, quel Mosé che il Signore scelse come guida di Israele dalla schiavitù dell'Egitto alla Terra Promessa. Quelle che Dio ha consegnato a Mosè, i dieci comandamenti, sono norme giuste, che servono a mantenere unito un popolo, a farlo camminare nella moralità e nella verità, sia nel tempo presente e soprattutto in vista di quella Terra promessa che è l?eternità. Dio non ha abbandonato mai il suo popolo. Dio ha fatto sentire ad Israele la sua vicinanza, con l'indicare la strada giusta da percorrere se vuole salvarsi. Osservare la legge di Dio a partire da quelle dieci norme, è garanzia per tutti di vita e benedizione, di pace e riconciliazione, di onestà e rettitudine, di rispetto di se stessi e degli altri, della difesa del bene comune e del bene personale, della famiglia, della donna, della proprietà, della fedeltà, delle buone e rette intenzioni. In poche parole la vita incentrata su Dio evita la ricorsa che l'uomo fa per raggiungere beni e benesseri che non lo possono appagare perché come dice il grande Agostino, il nostro cuore è inquieto finquando non trova Dio e riposa nel cuore di Dio. Non avrai altro Dio, se non il Dio che ha manifestato il suo amore, inviando a noi il suo Figlio Gesù e sacrificandolo per noi sulla croce.
Sia questa la nostra preghiera che esprima la nostra volontà di ricominciare e ricominciare davvero o di continuare il cammino con maggiore cognizione dei nostri diritti e doveri di fedeli:
Guarda, o Padre, il popolo cristiano radunato nel giorno memoriale della Pasqua, e fa che la lode delle nostre labbra risuoni nella profondità del cuore: la tua parola seminata in noi santifichi e rinnovi tutta la nostra vita.
Omelia di padre Antonio Rungi
Le labbra e il cuore
Dopo la lunga parentesi estiva in compagnia dell'evangelista Giovanni, la liturgia ci riporta tra le pagine del primo evangelista.
Ci troviamo davanti ad una accesa discussione tra Gesù e i vertici della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi. Il dibattito è acceso e vale la pena chiarire subito che al centro della discussione non sta la validità o meno di alcune pratiche religiose, ma la verità del rapporto con Dio. Cioè: il problema non è se e come devo lavarmi le mani prima di mangiare, ma se guardo a Dio come un ispettore dell'A.S.L. o come un Padre che si prende cura di me.
Gesù critica il formalismo vuoto e sterile dei farisei, condanna la loro presunzione di poter programmare la relazione con Dio, di incasellarla in una schema fisso di dare-avere. La casistica esasperata dei farisei, la loro ricerca di sicurezza tradotta in pratiche rituali, soffoca la novità, la bellezza e la fantasia di Dio.
Gesù vuole riportare ordine e smascherare le false certezze religiose che conducono nel vicolo cieco dell' autocelebrazione idolatrica, non certo alla conoscenza del Dio vivo.
C'è una frase di questo brano, che Gesù riprende da Isaia, che continua a ronzarmi per la testa: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me(v.6).
L'attualità disarmante di questa Parola mi lascia senza fiato!
E' proprio vero: le nostre comunità vivono quotidianamente la fatica di dare cuore e corpo alla Parola. Le labbra fanno grandi proclami, ma i piedi non sanno seguire le esigenze della sequela. Le labbra annunciano grandi slanci di generosità, ma le mani sono ancora chiuse nel possesso. Le labbra cantano le lodi di Dio, ma le orecchie non sono pronte a custodire la Parola.
Proviamoci, cari amici! Proviamo a fare un passo nuovo, fresco e intelligente verso Lui. Scopriremo che Lui ne ha già fatti mille verso di noi.
Omelia di don Roberto Seregni
Trascurando il comandamento di Dio, osservate la tradizione degli uomini
"Religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo". Queste parole tratte dalla lettera dell'apostolo Giacomo, di cui oggi inizia la lettura continua, ci vengono incontro proprio mentre sta terminando per molti il periodo delle vacanze e si riprendono le attività ordinarie. Le parole dell'apostolo si inseriscono nella dimensione normale della vita: non sono esortazioni per la festa o per momenti straordinari; esse riguardano i giorni feriali di ogni settimana. Ecco perché sono un dono per questo tempo. Potremmo dire che sono le parole buone che il Signore ci rivolge all'inizio di questo nuovo tempo perché possiamo "conservarci puri da questo mondo" e comprendere qual è il culto davvero gradito a Dio. Esse, in certo modo, ci introducono al Vangelo che in questa domenica viene annunciato.
Gesù è ancora in Galilea, in un'area lontana dalla capitale e dal centro della religione. Qui aveva iniziato la sua missione pubblica, annunciando ai poveri e ai deboli l'approssimarsi del regno di Dio. Alcuni scribi e farisei arrivarono da Gerusalemme per discutere con lui. La sua fama era evidentemente giunta sino alla capitale e costoro venivano forse non per accusarlo ma semplicemente per discutere con lui. In effetti, Gesù era ancora all'inizio della sua predicazione e ancora troppo lontano da Gerusalemme per richiedere un urgente intervento di opposizione. È noto che molti dei farisei erano osservanti non solo della legge (la Torah) ma anche delle aggiunte che lungo gli anni e i secoli i saggi d'Israele avevano raccolto: queste ultime sono quelle che l'evangelista chiama "le tradizioni degli antichi". Con tali prescrizioni rituali si voleva circondare di rispetto, concreto e minuzioso, il mistero di Dio. E va detto che non si deve affatto disprezzare tale attitudine. Se pensiamo alle nostre liturgie eucaristiche domenicali è da rimproverare semmai una certa superficialità nel trattare le cose di Dio. Giovanni Paolo II, nell'enciclica sull'Eucarestia, richiama al decoro della celebrazione. La mancanza di rispetto per il rito manifesta una mancanza del senso di Dio accompagnato da forte senso di sé. È ovvio che, se le prescrizioni rituali non vivono all'interno di un rapporto reale e autentico con il mistero che si celebra diventano, appunto, ritualiste, ossia gesti vuoti di senso e soprattutto privi di cuore, esteriori e freddi.
I farisei, comunque, vedendo i discepoli di Gesù che non osservano le pratiche di purificazione prima di mangiare, si sentono in pieno diritto di chiedere al maestro: "Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?". Ovviamente, il rimprovero è diretto non alla trasgressione di una norma igienica ma ad una prescrizione rituale (le abluzioni originariamente erano richieste solo ai sacerdoti, ma i farisei volendo un popolo perfetto le estesero a tutti). Gesù, riprendendo le parole di Isaia (29, 13), stigmatizza la grettezza di un atteggiamento puramente esteriore: "Questo popolo -risponde- mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini". È il lamento di Dio per un culto puramente esteriore. Di tale culto Egli non sa che farsene. E Gesù continua: "Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini". Non si tratta di condannare le pratiche rituali, né di favorire una religione intimista e individualista. E neppure si vuole attenuare l'osservanza della legge. Gesù conosce bene quanto Mosé ordinò al popolo d'Israele: "Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla" (Dt 4, 1-2).
Gesù non esorta affatto a disobbedire alla legge. Quel che condanna è la lontananza del cuore degli uomini da Dio. È il rapporto personale tra l'uomo e Dio che è posto in questione da Gesù. Del resto, questo era già chiaro nel Primo Testamento. Mosè ne era ben cosciente tanto da chiedersi in modo retorico: "Qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste com'è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo". Se Dio è così vicino, è davvero inammissibile che gli uomini si rivolgano a Lui solo con gesti esteriori senza che il cuore abbia un minimo di vibrazione d'affetto. In questo caso a nulla valgono riti e parole. Ebbene, Gesù, collegandosi alla critica sulle mancate abluzioni, chiarisce cosa è davvero impuro, ossia non adatto a Dio. C'è una prima affermazione molto chiara: nessuna delle cose create è inadatta a Dio; quindi, nulla è impuro. L'impurità, infatti, non è nelle cose ma nel cuore dell'uomo: "è dal cuore degli uomini che nascono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza", afferma il profeta di Nazareth. Con tali affermazioni Gesù chiarisce che il male non nasce per caso, come se fosse il frutto di un cieco destino. Il male ha il suo terreno, che è il cuore. Ed ha anche i suoi agricoltori: gli uomini. Ognuno è coltivatore, spesso solerte, nel terreno del proprio cuore di piccole o grandi quantità di erbe amare che avvelenano la nostra e la vita degli altri.
Noi, pertanto, siamo responsabili dell'amarezza di questo mondo; chi più, chi meno; nessuno può dirsene fuori. È perciò dal cuore che bisogna partire per estirpare il male in questo mondo. Troppo spesso si trascura il cuore pensando che quel che conta è cambiare le strutture o cambiare le leggi. Ma il punto centrale della lotta contro il male è il cuore. È nel cuore che si combattono le battaglie per cambiare davvero il mondo, per essere tutti migliori. Ed è quindi sempre nel cuore che vanno piantate le erbe buone della solidarietà, dell'amicizia, della pazienza, dell'umiltà, della pietà, della misericordia, del perdono. La via per questa piantagione buona è segnata dal Vangelo: ricordiamo la nota parabola del seminatore che, di buon mattino, uscì per seminare. Ancora nei nostri giorni, fedelmente e generosamente, quel seminatore esce e getta con abbondanza il suo seme nel cuore degli uomini. A noi il compito di accogliere quella parola e farla crescere perché non solo non sia soffocata dalle nostre pesantezze, ma possa portare frutti. E l'apostolo Giacomo, quasi a commento delle parole di Gesù, afferma: "Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le anime vostre. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi".
Omelia di mons. Vincenzo Paglia
Liturgia della XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 2 settembre 2012
Liturgia della Parola della XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 2 settembre 2012