15 luglio 2012 - XV Domenica del Tempo Ordinario: Missionari della purezza, testimoni di un grande amore

News del 13/07/2012 Torna all'elenco delle news

Celebriamo la XV Domenica del Tempo Ordinario e il Vangelo ci presenta Cristo quale Maestro che insegna agli apostoli cosa devono fare e come comportarsi nella loro attività missionaria ed apostolica.
Nel testo del Vangelo possiamo cogliere una missione esplicita, questa volta, rispetto agli altri mandati che il Signore dà ai suoi discepoli: qui c'è il mandato di essere missionari della purezza e di combattere gli spiriti impuri.
Il testo del Vangelo di Marco è molto esplicito. Il discorso tra il puro ed impuro nel vangelo non si limita alla questione della morale sessuale. Sarebbe riduttivo pensare alla purezza solo da un punto di vista fisico. Qui ci sono riferimenti più impegnativi circa il compito che spetta soprattutto ai discepoli del Signore e diciamo ai missionari nella loro azione apostolica: quello di fare emergere il bisogno di Dio nella vita dell'uomo del tempo di Cristo, come nel nostro tempo. Solo Dio è puro e con la purezza di Dio l'uomo trova felicità e gioia nella vita; all'opposto di Dio puro, ci sono gli spiriti impuri che dobbiamo lottare con tutte le forze, soprattutto se la vera impurità sta nel nostro animo, in quanto siamo incapaci di amare e donarci, di offrire noi stessi per il bene dei fratelli. Ci sono persone purissime nel corpo, ma indiavolate nello spirito e nell'anima. Impurità è sinonimo di egoismo, di chiusura agli altri, di autoaffermazione di se stessi contro gli interessi degli altri. Dio che è relazione ed amore è purezza, perché ciò che è purezza dice relazione; ciò che è impuro dice mera ed egoistica soddisfazione dei propri piaceri, da quelli corporali a quelli interiori.
Sto bene io stanno bene tutti. Combattere queste anomale tendenze dell'uomo significa accogliere le indicazioni ed i suggerimenti del Maestro, che sono espressi nel mandato missionario che viene precisato nel Vangelo di oggi: camminare insieme (la pastorale è fatta in comunione, non ci sono battitori liberi), a due a due; essere poveri e distaccati dai beni (non abbiamo bisogno di strumenti potenti per parlare di Cristo all'uomo di oggi, ma solo di un grande amore e grande cuore); il vangelo non è una tecnica di trasmissione di pensiero, ma esperienza di vita fatta con Dio e con Cristo, che bisogna portare agli altri con coraggio, fedeltà, zelo, senza paura ed esitazione nonostante i limiti umani; il vangelo non è raro ed occasione di annuncio, è stabilità di rapporti e di comunicazione: è necessario rimanere nei luoghi e non passare solo, tranne il caso in cui la poca o nulla risposta all'azione evangelizzatrice non autorizza i missionari a stare con le mani in mano in un posto, magari anche per anni senza vedere effetti e cambiamenti di vita nel popolo che si evangelizza. Da qui l'urgenza di andare altrove, ove forse è maggiore il bisogno di Dio e la disponibilità del cuore è superiore di chi ha già avuto il primo annuncio.
Nel mondo globalizzato della comunicazione ci rendiamo conto quanto sia importante per noi cristiani incentrarci su discorsi seri e non superficiali, su progetti di vita e di apostolato a lungo termine e non per un momento. Anche i nuovi media della comunicazione non possono essere esclusi da questa missionarietà della purezza, che consiste nel lottare gli spiriti impuri che altro non sono gli egoismi delle persone. Il coraggio dell'annuncio e della profezia ci viene attestato dal profeta Amos, uno dei profeti dell'Antico Testamento che meglio ha saputo cogliere le istanze del suo tempo e su quel tempo ha agito nel nome di Dio per favorire il cambiamento. La fedeltà alla missione e al compito assegnato dal Signore ad Amos è ben sottolineata, come convinta è la risposta del profeta circa il suo fare. Egli deve profetizzare e non ha paura di farlo e lo farà. Quanti di noi hanno il coraggio di parlare di Dio in questo nostro tempo, nei luoghi, negli incontri privati ed ufficiali, nelle situazioni più o meno normali della nostra quotidianità? A volte abbiamo paura anche di dire che siamo cristiani, che crediamo a certi valori o all?opposto di essere altoparlanti assordanti nel trasmettere la parola, ma non di trasmettere la propria esperienza di vita. A volte ci nascondiamo dietro un falso perbenismo o nel bigottismo e ci scandalizziamo di tutto e di tutti, senza accorgerci delle vere necessità d'amore, di relazioni, di bisogni di ogni genere che ci vengono dal nostro mondo e dal mondo intero. Siamo chiusi in noi stessi e rifiutiamo ogni proposta di vera apertura agli altri. Il profeta deve avere il coraggio di infrangere le barriere dell'egoismo, della superficialità e dell'apparenza.
C'è una dignità della persona umana anche nella debolezza e nella fragilità che non possiamo non considerare da un punto di vista religioso, morale e spirituale. Il bellissimo inno Cristologico di Paolo, che noi troviamo espresso nella Lettera agli Efesini, ci dice come va interpretata e letta la storia della creazione, della salvezza e la storia di ciascuno di noi. E' una storia di benedizione e non maledizione, di luce e non di tenebre, di gioia e non di dolore, di Dio e non del demonio, di amore e non di odio, di perdono e non di giustizialismo. In poche parole una storia di grande amore, come spesso sentiamo dire in modo più adatto alla esperienza umana tra due persone innamorate: è una grande storia d'amore. Ma qui questa storia d'amore è immensa, perché è Dio che ama davvero e per sempre, perché è purissimo spirito. Solo chi ama veramente può dire indirettamente cosa significhi l'amore di Dio verso le sue creature.
In sintonia con quanto abbiamo letto e meditato insieme, sia questa la nostra preghiera odierna:
Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell'uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere.
Amen.  
 
Omelia di padre Antonio Rungi 


Non porre limiti alla libertà di Dio

Ad eccezione del solo Isaia che si propone spontaneamente a Dio con le parole "Eccomi, manda me", nessuno dei profeti, dei patriarchi o degli apostoli hanno mai preso l'iniziativa di armarsi e di partire per svolgere un mandato di provenienza divina. E' stato sempre Dio stesso a chiamare i suoi missionari e i latori del suo messaggio e non lo ha fatto certo seguendo i nostri schemi mentali o i nostri sottili ragionamenti.
Le vie del Signore non sono le nostre vie e i criteri delle sue scelte decisionali differiscono estremamente dai nostri. Cosicché, quando si parla di vocazione, cioè i chiamata divina verso un progetto o uno stato di vita di qualsiasi natura ed entità, vanno scartati tutti i procedimenti propri delle nostre selezioni professionali quali il curriculum, il titolo di studio, la competenza, il fascino e l'abilità: Dio è libero di scegliere e di destinare chi vuole e secondo le modalità che lui stesso preferisce, non è vincolato da criteri e modalità di scelta e procede secondo programmi a noi sconosciuti. Nessuna meraviglia quindi se coloro che egli chiama alla sua sequela non mostrano le qualità che noi ci aspetteremmo: Mosè e il successore Giosuè non erano fra i più colti e illuminati del popolo e addirittura Mosè oltre che ignorante era anche assassino.
Degli apostoli si sa che erano rudi pescatori, uno di essi era addirittura un traditore, un altro cambiavalute e un altro ancora addirittura tradì il Signore. Pietro, animato da grande spirito di umanità e di amicizia, stentava a vedere nel Signore il Messia e il Cristo. E il nostro Amos, di cui ci parla la prima lettura di oggi, racconta egli stesso della sua vita: "Non ero profeta, né figlio di profeta. Ero mandriano e cultore di sicomori. Il Signore mi chiamò mentre seguivo il gregge; il Signore mi disse: ?Va, profetizza al mio popolo Israele." Lo sciatto e rozzo mandriano diventerà profeta apportatore del particolare messaggio della giustizia e della rettitudine in Israele e sarà uno dei profeti minori più rinomati dalla Sacra Scrittura. Dio non considera, nel chiamarlo, la sua scarsa capacità nell'arte oratoria, non guarda al perbenismo della formazione intellettuale e di raffinata sapienza che sono prerogative seguite ai nostri giorni nella scelta di una persona a un determinato ufficio. Dio semplicemente chiama e il suo appello è motivato dalla libertà sua propria, che è incondizionata e caratterizzata dall'amore e dalla fiducia che ci riserva. Ciascuno può essere oggetto di fiducia divina ed essere scelto da Dio ad un determinato ministero, ad una missione anche non duratura o perfino ad uno stato di vita speciale perché tutti siamo "degni" davanti al Signore. Succede pertanto, come è avvenuto al sottoscritto e a tanti altri giovani di trovarsi improvvisamente a percorrere itinerari che prima non si reputavano possibili, a vivere dimensioni che non ci si sarebbe mai immaginato e incontrare luoghi e persone prima impensabili come pure, ad un certo punto, a disporre di prerogative e capacità di cui anteriormente non si disponeva.
La vocazione, ovviamente, non è orientata alla sola scelta di speciale consacrazione o al solo ministero pastorale, ma riguarda ogni singolo battezzato e ogni uomo: può rivelarsi volontà di Dio la vita matrimoniale, una particolare scelta professionale, l'elezione di un particolare proposito di vita o semplicemente un solo atto di volontariato o di apostolato. Disposizione vocazionale da parte di Dio può anche risultare la dedizione di un giovane alla catechesi (quando si è incerti e impauriti, consideriamo che è Dio che ci sta inviando). Poiché non dipende da noi, non possiamo mai avere certezza assoluta del progetto di vita impostato da Dio su di noi con la sola eccezione dell'amore e della carità: quando si fa il bene, in ogni caso e in tutte le circostanze, si sta ottemperando alla chiamata divina.
La pagina evangelica relativa all'invio dei Discepoli ci agguaglia anche di un'altra certezza: colui che ci invita a partire, non manca di attrezzarci e di fornirci di ogni mezzo necessario allo scopo. Come si diceva all'inizio, quando si corrisponde ad una vocazione, non occorre equipaggiarsi né premunirsi, poiché chi ci affida una missione ci darà anche i mezzi e gli strumenti per poterla portare a termine, provvedendo anche al nostro adeguato sostentamento. I Discepoli prescelti, mentre partono, credono di dover contare solamente nel solo bastone che hanno a disposizione, ma si accorgeranno un po' alla volta che il loro stesso ministero e l'efficacia del loro messaggio non farà mancare loro nulla, nemmeno le cose voluttuarie e in necessarie. Si ritrovano infatti a predicare la conversione manifestando un segno dell'avvenuto Regno di Dio con la guarigione degli ammalati ed esercitando il potere conferito loro dal Maestro sui demoni e questo comporterà loro il consenso e l'accoglienza da parte dei nuovi credenti e delle turbe di popolo che si accalcheranno loro attorno. Proprio come succede anche oggi a quanti si incamminano in una missione religiosa. Come certamente sarà successo anche agli inviati di Gesù, si incontrano non di rado difficoltà legate all'indifferenza degli interlocutori, alle inimicizie e alle incomprensioni e spesso si fa fronte anche alle persecuzioni che l'attività missionaria comporta, ma si riscontrerà comunque di essere assistiti, sospinti e incoraggianti non dalle proprie forze ma da Colui che ci ha resi oggetto di tanta fiducia e stima.
Sia attraverso Amos, sia in questi missionari di cui ci parla Marco, come pure in tutti i personaggi della Scrittura, veniamo incentivati ad intraprendere qualsiasi ruolo, incarico o ministero nelle intenzioni di una corrispondenza vocazionale, rilevando a monte la sola volontà del Signore che mentre ci da' l'incarico ci predispone ad esso; insomma ad interpretare ogni nostra scelta nell'ottica della vocazione divina e corrispondere semplicemente ad una chiamata senza attribuire a noi stessi competenze e capacità è sempre garanzia di successo.
La situazione attuale di dispersione nel mondo del lavoro, con i continui tagli alla spesa pubblica, la riduzione delle infrastrutture e delle industrie, la diminuzione sempre più crescente del prodotto interno lordo e la conseguenza di una gravissima crisi occupazionale in tutti i settori, preclude ogni speranza al futuro dei giovani e delle famiglie, conduce a pensare la scelta lavorativa nell'ottica dell'urgenza e della fatalità: pur di trovare una sistemazione e un minimo salario mensile, ci si adatta a qualsiasi cosa, cercando un qualsiasi appiglio, specialmente quando si è perso da poco il lavoro e si tenta disperatamente di trovare una nuova sistemazione professionale. Una situazione certamente spiacevole e demoralizzante, che scoraggia la possibilità di una scelta mirata, ponderata e valutata secondo opportuna riflessione e considerazione, anche nel mondo dei laureati e degli abilitati. E' effettivamente difficile in questo desolane contesto concepire la scelta professionale su parametri di vocazione divina, eppure proprio questo stato confusionale dovrebbe condurci a considerare che davvero il nostro destino è nelle mani di Dio e che ogni nostra scelta deve davvero corrispondere ad una chiamata vocazionale. Proprio la situazione attuale dovrebbe privarci di false sicumere personali, farci prendere coscienza del dono esclusivamente divino e farci porre la domanda su cosa Dio voglia da ciascuno di noi. E per ciò stesso prendere in considerazione, per esempio, anche tutte quelle attività che siamo soliti relegare ad altri, quali l'assistenza anziani, l'artigianato, la coltura della terra e le attività servili di pulizia, essendo fra l'altro anche questi luoghi lavorativi rispettabili e apportatori di soddisfazioni e opportunità, che corrispondono non di rado ad un talento e ad un'inclinazione vocazionale. In tutti i casi, affidare alla fatalità il proprio futuro non è mai esaltante e conduce all'autolesionismo che vien dato dalla insoddisfazioni e dalle incertezze.
Valutando invece ogni cosa nell'ottica della fede e del primato di Dio nella nostra vita, orientando al meglio il nostro libero arbitrio, non sarà difficile corrispondere a noi stessi impostando adeguatamente il nostro avvenire e anche la vita di tutti i giorni, quando concepita alla stregua di scelta elettiva vocazionale, diventa foriera di soddisfazioni. Colui che chiama è Colui che ama. Ci conosce fin dall'eternità avendo chiari i nostri sentieri e le nostre disposizioni e può pertanto, unico fra tutti, determinare quanto davvero ci compete.  

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta
 

A due a due per annunciare la luce

Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Perché, se è solo, l'uomo è portato a dubitare perfino di se stesso. La prima predicazione è senza parole, è già in questo accompa­gnarsi, l'uno al passo dell'al­tro. Partono forti di una pa­rola e di un amico: ordinò lo­ro di non prendere nient'altro che un bastone. Solo un ba­stone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuo­re. Un bastone per appog­giarvi la stanchezza, un ami­co per appoggiarvi la solitu­dine.
E proclamarono che la gente si convertisse, ungevano con olio molti infermi e li guari­vano.
Il loro messaggio è con­versione: giratevi verso la lu­ce, perché la luce è già qui. Le loro mani sui malati annun­ciano: Dio è già qui, è vicino a te con amore, e guarisce la vita, girati verso di lui. Quel­lo dei dodici è un viaggio den­tro l'uomo più autentico, li­berato da tutto il superfluo: non portate né pane né sacca né denaro, perché la nostra vita non dipende dai nostri beni, voi vivrete di fiducia: fi­ducia in Dio, che non farà mancare nulla, e fiducia ne­gli uomini, che apriranno le loro case. «Bagaglio leggero impone il viaggio e cuore fi­ducioso. Domani non so se qualcuno aprirà la porta ma confido nel tesoro d'amore disseminato per strade e città, mani e sorrisi che apro­no case e ristorano cuori...» (M. Marcolini).
I dodici, senza parole, con il loro stile di vita, contestano il mondo dell'accumulo, del­l'apparire, del denaro. Pro­clamano: «ci sono due mon­di noi siamo dell'altro» (Cri­stina Campo). In questo mondo altro, la forza non ri­siede nei grandi mezzi mate­riali, ma nel fuoco interiore, nel suo contagio misterioso e lucente. La povertà dei di­scepoli fa risaltare la potenza creativa dell'amore. Invece le cose, il denaro, i mezzi, lun­go i secoli hanno spento la creatività della Chiesa. L'an­nunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l'annuncio sarà infinitamen­te grande. Sono partiti a due a due, con niente. Ma i dodi­ci avevano un fuoco. Il fuoco si propaga col fuoco.
Entrati in una casa lì rima­nete.
Ecco il punto di appro­do: la casa, il luogo dove la vi­ta nasce ed è più vera, ab­bracciata dal cerchio degli af­fetti che fanno vivere. E il Vangelo deve essere signifi­cativo lì, nella casa, deve par­lare e guarire nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l'anziano perde il senno o la salute... Se in qual­che luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i disce­poli non oppongono risentimenti solo un po' di pol­vere scossa dai sandali. E non deprimetevi per una sconfitta, non abbattetevi per un rifiuto: c'è un'altra casa poco più avanti, un al­tro villaggio, un altro cuore. All'angolo di ogni strada germoglia l'infinito.  

Omelia di padre Ermes Ronchi

Liturgia della XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 15 luglio 2012

Liturgia della Parola della XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 15 luglio 2012