1 luglio 2012 - XIII Domenica del Tempo Ordinario: Non avere paura, solo credi...
News del 29/06/2012 Torna all'elenco delle news
Nella Domenica tredicesima del Tempo Ordinario la Liturgia ci presenta un intenso brano di Marco (Mc.5,21-43), che chiede a ciascuno di noi, se desideriamo gustarlo e viverlo nella sua ricchezza, una attenta lettura personale: appare in questa pagina, il suo stile preciso, essenziale, e così denso nel descriverci i caratteri delle persone, le loro esperienze interiori, i loro drammi, i loro bisogni, le loro attese e nello stesso tempo il suo entrare sempre più profondamente nel mistero di Gesù di Nazareth. Ma la bellezza del Vangelo è proprio questa capacità di penetrare nella densità del mistero dell'uomo e nella inesauribilità del mistero di Gesù, senza violarlo, senza astrattezze, scoprendo quanto il mistero dell'uomo cerchi il mistero di Cristo e in Lui trovi la verità a cui aspira, non teorica, ma esperienziale, una verità "vera" perché è viva e dà gioia, speranza, motivo per una vita che ha senso.
E' chiaro che il centro del "lieto annuncio" che questa pagina vuole darci è "la fede", la fede che è l'opposto della paura, è pienezza di vita per chi è povero di tutto, è la relazione libera, personale, pienamente realizzante tra ogni uomo in ricerca e la risposta di Gesù: Marco sta guidando noi, oggi, nel cammino della nostra fede. Per noi formati dal catechismo o dalla teologia, condizionati dalla nostra cultura, Marco lascia aperti i problemi che noi vorremmo fossero chiariti: ma la via che il Vangelo segue, non è quella della "teologia", ma dell'esperienza vissuta: e proprio a questo il Vangelo ci educa, al coraggio della verità interiore che ci fa incontrare la verità di Gesù.
C'è ancora una grande folla attorno a Lui che sta lungo il mare. Dalla folla viene "uno" dei capi della sinagoga, di nome Giairo: è una autorità, nota. "Vedendolo, cade ai suoi piedi e lo supplica molto dicendo: "La mia figlioletta è in fin di vita; vieni a imporle le mani perché sia salvata e viva". In Marco è l'unico caso in cui un capo religioso rivolge a Gesù una domanda: ma evidentemente in questa situazione in lui prevale l'uomo, l'autenticità del padre angosciato per la condizione della giovane figlia; non lo condiziona il ruolo sociale: "cade ai sui piedi e lo supplica molto". Prega perché la figlia sia salvata e viva: non solo perché non muoia, ma pure perché possa proseguire una vita che è solo agli inizi. La risposta di Gesù alla supplica del padre, non fatta di parole, sta tutta nell'incamminarsi con Giairo per accompagnarlo verso l'incontro con la figlia.
A questo punto Marco nota ancora la presenza di una folla tanto che lo comprime. Questo gli permette di inserire nel racconto l'esperienza di un nuovo personaggio: una donna senza nome la cui condizione, descritta da cinque participi, è di soffrire da dodici anni di perdita di sangue, di aver molto sofferto a causa di molti medici, di aver speso tutto quello che possedeva, di non aver tratto nessun giovamento e di essersi anzi piuttosto aggravata. Ancora due participi: avendo sentito parlare di Gesù ed essendo venuta, dietro, tra la folla, preparano il verbo principale di questa lunga frase: toccò il suo mantello. In realtà, con questa frase singolare per Marco che usa sempre frasi semplici, egli descrive la situazione di questa donna senza nome, condannata ad una vita priva di relazioni e priva di mezzi, precipitata in un baratro di solitudine per la quale si apre una imprevedibile speranza. Anche lei emerge dalla folla e si appella ad un salvatore dal quale spera di essere liberata dal suo male e di essere restaurata nella sua femminilità. Senza parlare, ha cercato un contatto con il suo corpo, per avere da Lui l'unica speranza di salvezza: ha rischiato ed ha ottenuto ciò che voleva, "subito la sua perdita di sangue fu inaridita ed essa seppe nel suo corpo che era guarita". Se nel comportamento della donna c'era ancora qualcosa di magico, adesso tutto si fa nuovo nella parola di Gesù: anche lui ha sentito "dentro di sé" il farsi di una relazione nuova, personale, con una persona che lo ha cercato. Non finisce tutto nella salute fisica sperimentata dalla donna senza nome: adesso Gesù la interpella, la guarda, la chiama ad uscire dall'anonimato della folla: chi ha toccato le mie vesti? Adesso la donna deve riscoprire e ricominciare a vivere la propria identità: in una splendida frase Marco sintetizza tutta l'esperienza che questa donna sta vivendo, l'esperienza della sua vita ricostruita: "Allora la donna, impaurita e tremante, conoscendo ciò che le era accaduto, venne e si prostrò a lui e disse a lui tutta la verità". Certo, noi vorremmo sapere di più di ciò che sente dentro di sé questa donna, del cammino interiore che la conduce dalla accoglienza della sua povertà, dalla paura, all'accostarsi a Gesù, all'affidarsi a lui, al dire a lui "tutta la verità (quale? cosa?)": l'importante è che noi riviviamo personalmente questa esperienza ed arriviamo a dire a lui e a noi stessi "tutta la nostra verità".
"E lui le dice: Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male". Era sola, emarginata: adesso Gesù l'ha integrata nella "sua" famiglia. La sua fede l'ha salvata: la fiducia nella potenza di Dio presente nella carne di Gesù che le dà il coraggio di non disperare della sua fragilità, la salva, la mette in piedi per vivere una vita che si riscopre piena dei doni di Dio.
Adesso può riprendere il cammino di Gesù con Giairo, verso la casa dove si trova la figlia sofferente: Giairo aveva fretta, l'incontro con la donna sofferente da dodici anni ha rallentato il cammino. Ma Giairo che non ha esitato a spogliarsi della sua immagine di autorità per non perdere la figlia, deve imparare a spogliarsi di tutto se stesso, di ogni progetto su di sé e sulla sua famiglia per ritrovare in pienezza la sua vita, deve imparare a fidarsi di Gesù che cammina con lui.
Il momento più drammatico per Giairo è quando dalla sua casa vengono a dirgli: "Tua figlia è morta", tutto è finito, la sua speranza è ormai senza oggetto e quindi: "Perché disturbare ancora il maestro?" Ma a questo punto entra Gesù: ancora prima che Giairo reagisca, la Parola di Gesù si fa creatrice: "Non avere paura: solo credi". Anche questa frase, sintetizza in modo mirabile tutto il dramma dell'esistenza umana con la sua fragilità, la sua paura, a cui risponde solo la fede, la fede nuda, il coraggio della fede pura, che, sola, apre alla meraviglia di una vita nuova. E Marco costruisce tutta la scena: da una parte l'umanità che piange, si dispera e dall'altra parte Gesù solo, che sembra dire cose senza senso, Gesù forte, che caccia via chi lo deride, chi lo blocca (la fede è, nel punto essenziale, rottura), Gesù che prende con sé i tre discepoli testimoni, il padre della bambina e finalmente anche la madre, ed entra dove era la bambina e presa la sua mano le dice: "Talità kum" (fanciulla alzati). "E subito la fanciulla si alzò e camminava: aveva infatti dodici anni". La fede nuda di Giairo ha permesso alla Parola di Gesù di diventare creatrice di una vita nuova: "e subito erano fuori di sé per la meraviglia". Non rimane che lo stupore di fronte alle meraviglie di Dio. Una donna senza nome, colpita da emorragia da dodici anni, è stata riportata alla normalità della sua vita feconda; una giovane ragazza all'età della pubertà ritrova la vita perduta: la fede in Gesù, nella sua Parola, è l'ingresso in una vita nuova, meravigliosa.
Non per nulla tutto avviene nella casa, avviene nel corpo della donna: tutto è nuovo, vita nuova, relazioni nuove, famiglia nuova. La fede è l'apertura dell'uomo a Dio, perché egli faccia nuove tutte le cose. "Non avere paura: solo credi": e rimaniamo stupiti di fronte alle meraviglie di Dio.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Fra miracoli e miracolismo
Nei confronti della possibilità del miracolo vi sono due concezioni opposte ugualmente errate e inaccettabili, una per i suoi eccessi, l'altra per i suoi difetti.
La prima di esse, propria dell'ambiente popolare e devozionistico che non di rado sfocia nella superstizione, è la volontà di interpretare il miracolo alla stregua di incantesimo, magia o comunque di un intervento prodigioso atto a risolvere, immediatamente e senza alcuno sforzo personale, una determinata situazione difficile come una malattia fisica o psichica, uno stato di ansia, di preoccupazione o di debolezza.
La seconda interpretazione del miracolo, propria per lo più degli ambienti raffinati e benestanti, è quella della refrattarietà e della recalcitrazione: specialmente per la cultura illuminista, scettica e razionalista, qualsiasi rivelazione sovrannaturale è relegabile all'immaginario degli stolti e degli ignoranti e chiunque prenda in considerazione il miracolo vive di fanatismo e di autoesaltazione. E' la tendenza opposta alla precedente che scredita e svilisce in tutti i casi la possibilità di un intervento sovrannaturale, con un'ostilità a volte talmente ridicola da negare l'evidenza dei fatti.
Che il fatto miracoloso sia sempre entrato nella cultura e nella consapevolezza dell'uomo è prova della sua possibilità e non è affatto contrario alla ragione o al buon senso concepire che sia possibile, senza troppe pretese, il fenomeno soprannaturale.
Come scrivono gli storici, peraltro, la stessa medicina nelle sue origini era associata alla magia e all'esoterismo; solo in Egitto (XVII secolo) si giunse al trinomio scientifico diagnosi - prognosi - terapia. Oggigiorno non sono pochi gli ambiti intellettuali e di intenso sapere razionale nei quali si costituiscono movimenti settari che mettono in atto lo stesso binomio: medicina, magia e stregoneria. Dire quindi che il fattore miracolo appartenga alla sola sfera dell'ignoranza popolare è indice di affermato fanatismo in senso opposto.
Per chi ha fede, a Dio tutto è possibile, anche la possibilità di manifestarsi per mezzo di segni e prodigi straordinari che interrompano momentaneamente o in un certo qual modo il corso della natura; il miracolo è proprio della cultura umana anche prescindendo da ogni credo religioso e non è difforme dalla razionalità. A condizione tuttavia che lo si collochi nella giusta dimensione e che non lo si confonda con il "miracolismo", cioè con la tendenza ad assolutizzare il fenomeno miracoloso ad ogni costo.
Considerando gli interventi prodigiosi di Gesù, ci sovviene allora un interrogativo: che concezione mostra del miracolo Colui che noi crediamo essere il Figlio di Dio, che esercita effettivi poteri straordinari con estrema autorità, senza neppure fare ricorso a Dio Padre (ad eccezione del solo caso della risurrezione di Lazzaro) e che abilita anche i suoi discepoli ad operare interventi prodigiosi a lui pari? Come si atteggia nei confronti di coloro che sono beneficiari del suo prodigioso intervento? I vangeli narrano di ben 27 interventi miracolosi di Gesù, di cui 14 riguardano le guarigioni; egli manifesta di disporre di un potere prodigioso che esterna sempre a favore degli altri e che beneficia specialmente i poveri e gli esclusi. Abbiamo già accennato con questo ad una risposta: per Gesù il miracolo non è che un segno. Il segno rimanda ad una realtà più profonda. In ogni atto miracoloso operato da Gesù si evince quindi non il carattere portentoso e sconvolgente di un taumaturgo o di un mago guaritore, non si vuole dare l'idea del miracolo come fine a se stesso o come fenomeno attuato da un saltimbanco esibizionista che ottiene il plauso della gente. Piuttosto qualsiasi intervento prodigioso di Gesù, non importa di che natura esso sia, proclama la realtà definitiva del Regno di Dio ed è - per l'appunto - un segno che mostra una realtà innovativa apportata da Dio nella vita dell'uomo. Come proclama lui stesso espressamente: "I ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti e ai poveri è annunciata la buona novella? "(Mt 11, 2 e ss) tutti segni dell'avvento del Regno. Nelle parole e nelle opere di Gesù, come pure in ogni suo atteggiamento nei confronti della gente con particolare predilezione dei poveri, degli afflitti e degli emarginati, Dio Padre ha apportato i mezzo agli uomini una nuova dimensione di vita che è giustizia, pace e amore. Essa interpella tutti gli uomini singolarmente nel loro intimo ed è atta ad instaurare una situazione generale di benessere collettivo. Ha Dio come protagonista, ma richiede anche la sensibilità di corrispondenza da parte dell'uomo, che cioè ciascun uomo reagisca esattamente come Dio, impostando la propria convivenza con gli altri nell'amore e nella pace. Questa dimensione è il Regno di Dio e di essa sono segno efficace gli insegnamenti del suo Figlio Gesù Cristo, le sue parabole, i logia e soprattutto i concreti atti di amore e di misericordia con cui le parole sono significate. Fra questi gli interventi di guarigione, gli esorcismi, il richiamo in vita dei defunti e qualsiasi altro miracolo. Nessuno degli interventi prodigiosi di Gesù è finalizzato a se stesso o effettuato con assoluta gratuità e spontaneità, ma annuncia sempre la novità del Regno, anche se con angolature differenti. Ciascun miracolo è segno della vita definitiva nel Risorto (la risurrezione di Lazzaro o della figlia di Giairo), del suo potere sulle forze del male e sul peccato (gli esorcismi e la guarigione del paralitico nel lettuccio), della sua forza sconvolgente sul male fisico e sull'infermità morale (le varie guarigioni), del passaggio dalla vecchia alla nuova economia salvifica attuato appunto dal Cristo (la tramutazione dell'acqua in vino a Cana) insomma della nuova radicalità del Regno apportato da Dio che tende ad incidere nella vita dell'uomo secondo parametri del tutto opposti da quelli comuni alla sua mentalità. Il miracolo è quindi legittimo ed esaltante, ha i suoi connotati di salvezza e di edificazione, ma solamente se considerato nell'ottica più generale del messaggio del Cristo. Al Regno di Dio non occorre prepararsi per mezzo di estenuanti corsi accademici di raffinatezza intellettuale e non servono esercitazioni fisiche rocambolesche o attente perquisizioni per sondarne la presenza. "Nessuno potrà dire infatti ?eccolo lì' o ?eccolo qui' perché il regno di Dio è già in mezzo a voi" (Lc 17, 21). Unica possibilità per cui possiamo avvertirne la presenza è affidarci ad Esso, accogliendo lo stesso Gesù Cristo come Signore, immedesimandoci in lui e percorrendo i suoi sentieri. Tutto questo vuol dire fede. Così avviene nei due episodi di cui al brano di Vangelo odierno, che sono solo un piccolo saggio della novità suddetta del Regno, che è la vera vocazione dell'uomo.
Osserviamo in prima istanza la donna emorroissa, gravata da tanti anni dal suo male: aveva confidato e ancora confidava nella scienza medica, nulla aveva trascurato nei confronti di se stessa, ma ora la sua fede la conduce di soppiatto a toccare un lembo del mantello di Gesù. Il che le procura la guarigione immediata e gli elogi dello stesso Signore: "La tua fede ti ha salvata". Gesù, seppure parla di una "forza" straordinaria da lui fuoriuscita, non si mostra nei suoi confronti un medico prodigioso o un esibizionista, ma semplicemente esalta la vera causa della guarigione di questa donna: la fede che ella ha mostrato nel Regno di cui lui è apportatore, quindi per ciò stesso nel Messia e Salvatore Gesù Cristo.
La figlia del capo della sinagoga Giairo è data per morta. Gesù, il Figlio di Dio, che vincerà la morte con la sua risurrezione dal sepolcro, non si arrende e banalizza addirittura la realtà del decesso di questa fanciulla parlando semplicemente di un suo "sonno". Il risveglio miracoloso della fanciulla sottende che in Lui c'è infatti la vita senza fine, che siamo destinati alla vita eterna. Osserviamo un altro particolare: cacciati fuori tutti gli astanti che deridono in un primo momento il commento di Gesù, oltre ai genitori, restano accanto a lui Pietro, Giacomo e Giovanni. Gli stessi discepoli che saranno testimoni della sua gloria al monte della Trasfigurazione e che riferiranno (soprattutto Pietro) la verità di Gesù Messia prefigurato dalla Legge e dai Profeti ottenendo la conversione alla vera fede da parte di parecchi Giudei.
La fede è la virtù caratteristica propria di chi riconosce il Signore in ogni circostanza della propria vita e si abbandona al suo volere, sottomettendo tutto se stesso con l' ossequio dell'intelligenza e della volontà, vivendo la sua Parola, senza porre limiti alla sua misericordia; essa è il dono che Dio stesso ci ha elargito e che noi coltiviamo che ci permette di individuare la sua presenza in tutte le circostanze della vita anche attraverso esperienze che ci sono ostili o avverse. Proprio la fede, cioè l'abbandono fiducioso, è la porta di ingresso alla novità del Regno e proprio questa fede, libera e incondizionata legittima il miracolo senza rischi di fanatismo sterile a astorico, poiché impegna radicalmente in un singolare progetto di vita che ci è stato donato da Dio nel suo Cristo.
Omelia di padre Gian Franco Scarpitta
Liturgia della Parola della XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 1 luglio 2012