6 maggio 2012 - V Domenica di Pasqua: "Chi rimane in me porta molto frutto"
News del 04/05/2012 Torna all'elenco delle news
Uno stesso tema riunisce i due testi di Giovanni (1 Giov.3,18-24; Giov.15,1-8) che la liturgia ci presenta: occorre "rimanere" in Cristo per portare i frutti dell'Amore. Se con tanta forza è sottolineata l'urgenza per i discepoli di Gesù di portare frutti, che sono i frutti dell'Amore ("agape"), con altrettanta fermezza è dichiarato che questo è possibile solo "rimanendo" in Lui.
"Io sono il Pastore buono", "Io sono la vite vera": continua così la Liturgia pasquale a farci rivivere il nostro incontro con Cristo risorto, vivo della vita di Dio, l' "Io sono", che può dare alla nostra vita il senso a cui aspiriamo dal profondo del nostro cuore.
L'allegoria della vite è familiare ai profeti di Israele: Osea, Isaia, Ezechiele, paragonano il popolo d'Israele alla vite piantata da Dio. Il testo più espressivo è il canto della vigna di Isaia 5,1-7: "Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Che cosa dovevo fare ancora per la mia vigna che io non abbia fatto?..." Ma il canto d'amore diventa di amara delusione: "Aspettò che producesse uva e invece produsse acini acerbi"
Gesù riprende l'allegoria ma in modo radicalmente nuovo: all'opposto della vigna che non ha prodotto frutto, Gesù si presenta come Colui nel quale si realizza il progetto di Dio. Il Padre è il vignaiolo che ha piantato la vite e ad essa ha comunicato tutto il suo amore; Lui, Gesù, è la vite "vera": vera perché Lui porta il frutto atteso dal vignaiolo, Lui realizza il sogno per il quale aveva piantato la vigna. Gesù è il ceppo autentico, la vite autentica, e tutti i discepoli sono i tralci: la comunione di Gesù con i discepoli, una comunione intensa, ricca di vita, è la realizzazione del progetto del Padre. Ma questa realizzazione avviene perché il Padre stesso ha comunicato tutto se stesso al Figlio e il Figlio lo ha accolto, ha risposto con il dono totale di sé al Padre: senza questa relazione tra il Padre e il Figlio non ci sarebbe la fonte della linfa vitale di cui vive la Vite vera, che dal ceppo passa ai tralci perché essi portino frutti abbondanti. Tutto è Amore, tutto è comunione, tutto è vita: tutto è dono, donato, accolto, condiviso, e il cuore di tutto questo è Lui, Gesù con il suo abbandono totale nel Padre che fa di Lui la fonte dalla quale sgorga la vita per il mondo intero.
Certo, quando Gesù parla dei "frutti", fa riferimento al racconto della creazione: quando Dio crea l'erba e gli alberi dona loro la possibilità di produrre frutti e semi; gli animali e gli uomini sono chiamati a moltiplicarsi (Gen.1,11-12). Tutto ciò che è creato ha la possibilità a sua volta di portare la vita: la creazione è "buona", e questa vita che produce frutti è una benedizione di Dio. Ai suoi discepoli Gesù rivela che la vita vera che produce frutti maturi passa attraverso la sua unione con il Padre e dei discepoli con Lui.
Tutto è grazia, benedizione, meraviglia, splendore di vita: l'unica condizione è "rimanere in Lui". "Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me, non potete fare nulla" La parola di Gesù, stupenda, rivelazione della gratuità del dono della vita offerta a chi "rimane" in Lui, come sempre nel Vangelo di Giovanni, è pure preoccupata, esigente, pedagogica. "Senza di me non potete fare nulla": il rischio fondamentale, legato alla dimensione umana come tale, è l'autosufficienza, il voler fare da sé, l'aver paura di Dio, di Cristo, quasi che il rapporto con Dio condizionasse la realizzazione dell'uomo. Cristo è l'offerta d'amore del Padre, perché chi "rimane in Lui" sperimenti la libertà e la pienezza della vita. Gesù certamente denuncia ogni attivismo puramente umano e l' illusione che l'autosufficienza possa condurre alla realizzazione della vita umana.
Quando Giovanni scrive, è cosciente dei rischi che la sua comunità sta correndo e vede all'opera il vignaiolo, il Padre, che "taglia" e "purifica", non per distruggere la vite, ma per permetterle l'abbondanza della vita.
Probabilmente Giovanni allude anzitutto, al rischio che la comunità dia per scontato il suo "rimanere in Lui" e diventi autoreferenziale, preoccupata più di quello che ritiene la propria testimonianza nel mondo che non di lasciare che Lui operi in lei. Sono in vista le persecuzioni: il pericolo è allora quello di scoraggiarsi, di dubitare dell'amore di Dio. Si tratta invece di "rimanere in Lui", nella logica della Croce: la comunità ne esce allora purificata e realizza la vite vera.
L'altro pericolo è il settarismo all'interno della comunità: l'evangelista ha senza dubbio in mente i membri della comunità che si sono separati (1 Giov.2,19), che hanno privilegiato prospettive, idee, modi di intendere propri, piuttosto che "rimanere in Lui", nell'unità della comunione fraterna. Non è il vigore di un tralcio che si separa dalla vite che dà la vita, ma è la vite che dà la vita atttraverso i tralci pur fragili: "senza di me non potete fare nulla".
"Rimanere in Lui", nell'unità per la quale Gesù ha pregato è dunque il valore fondamentale (Giov.17). Non per nulla il verbo "rimanere", caro al Vangelo di Giovanni, ritorna incessantemente in questo brano: dodici volte in pochi versetti. "Rimanere" non è soltanto essere "accanto" o "con" ma essere "nell'altro" e non significa un semplice "restare" statico oppure sentire l'obbligo di non abbandonare un luogo: esprime l'unione intima, l'inabitazione di Gesù nei suoi discepoli e dei discepoli in Lui, in una dimensione dinamica di relazione, di ascolto, di trasformazione interiore che genera poi la trasformazione di tutta la vita.
"Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto": il frutto atteso dal vignaiolo, che la vite vera produce, che realizza pienamente il suo sogno, dunque, è l'amore, la comunione, che fa dell'umanità un popolo unito, una comunità di fratelli.
"Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi": il rischio è di sottolineare soltanto la prima parte della frase riducendo l'invito di Gesù ad un impegno soltanto umano, psicologico. L'originalità del pensiero di Giovanni si esprime nella parola "come": non si tratta soltanto di imitare il Maestro che ha lavato i piedi dei discepoli, ma di agire come risposta all'amore che Lui ci dona per primo, con l'energia che Lui stesso dona ai tralci della vite.
Nel brano che la Liturgia ci fa leggere come seconda lettura (1Giov.3,18-24), Giovanni ci ricorda che l'amore non si limita a buoni sentimenti o a buone parole: "Figlioli, non amiamo a parole o con la lingua, ma con i fatti e nella verità". Immediatamente prima ha ricordato che la verifica della autenticità della mistica è il servizio dei fratelli.
Ascoltando la sua Parola e rivivendo nell'Eucaristia l'esperienza del "nostro" rimanere in Lui come Lui è in noi, sapendo che il nostro amore rimane sempre inadeguato al suo, gustiamo pure l'altra stupenda parola della seconda lettura, che ci illumina sulla dinamica fondamentale della nostra vita nella comunità credente: "Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa".
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Amare con i fatti e nella verità
Celebriamo oggi la quinta domenica del periodo liturgico di Pasqua, che pone al centro della nostra riflessione la vasta gamma dei frutti della conversione, della risurrezione e del mistero pasquale che in questo tempo stiamo celebrando nella liturgia. La Parola di Dio, infatti, si concentra molto sul tema dell'operosità dei credenti invitando tutti i cristiani ad amare con i fatti e non solo a parole, come spesso capita in tante realtà vicino a noi e a noi note. La fede se non si traduce in opere è morta. La risurrezione di Cristo che non trasforma il nostro cuore e la nostra azione rimane solo un mistero da contemplare o meditare, senza alcun risvolto pratico sulla vita quotidiana.
Partendo dalle lettera di San Giacomo Apostolo si comprende esattamente tutto quello che è necessario fare per rendere credibile e visibile la nostra fede nel risorto. Approfondendo il brano della seconda lettura di oggi comprendiamo precisamente che solo una corrispondenza piena tra il dire e fare ci rende agli occhi degli altri veri, autentici e credibili. Evidentemente anche al tempo degli apostoli tra coloro che si riconoscevano nella fede di Cristo, molti erano i predicatori, ma pochi gli operatori del bene, con il rischio evidente di non essere fedeli alla parola di Dio e non vivere compiutamente i comandamenti del Signore, in primo luogo quello della carità. Quanto siamo carenti anche oggi, nelle varie situazioni personali, familiari, comunitarie in questo campo lo evinciamo dal contesto generale della nostra società, sempre più immersa nell'egoismo e nell'edonismo. Abbiamo un forte debito nei confronti di quel precetto dell'Amore verso Dio e verso i nostri simili di cui spesso non prendiamo coscienza. Ci legittimiamo comportamenti egoistici, al di fuori di ogni logica del vangelo della carità.
Il Vangelo di oggi ci pone davanti alla figura del Cristo, come Colui che è la sorgente della nostra grazia, della nostra linfa vitale, di quanto sia più essenziale alla nostra vita. Egli è la Vite e il Padre è l'Agricoltore. In questo campo spirituale, in questo terreno della grazia, in questo vasto territorio di Dio e del dialogo di Dio con l'umanità, due sono i riferimenti perché tutto progredisca: Cristo e Dio. Essere ancorati a Cristo e vivere immersi nella sua grazia santificante, allontanando da noi ogni ipotesi e prospettiva di peccato, significa portare i veri frutti della propria salvezza ed essere strumenti di salvezza per gli altri. Si continua l'opera di Cristo. Non a caso la Chiesa è chiamata anche la vigna del Signore. Ancorati alla vigna principale ogni tralcio agganciato ad essa produce molto e saporito frutto. Ma se se ne distanzia, rischia di morire essiccato, perché non circola più all'interno del tralcio la linfa necessaria per vivere e produrre. In questo ancorarsi a Dio continuamente c'è anche la legittima attesa che quanto chiediamo a Lui possa essere esaudito in qualche modo, anche se le nostre richieste non corrispondono in pieno con i progetti e i pensieri di Dio.
Con un preciso riferimento al vangelo di oggi la preghiera iniziale della messa ci introduce nel senso della celebrazione della domenica, la Pasqua settimanale, il giorno del Signore per eccellenza: O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. La sintesi o lo schema di riferimento per la nostra vita di preghiera e per la nostra attività pastorale è ben espresso in questa orazione che meglio di ogni altra preghiera oggi ci dice esattamente quale scelta di vita siamo chiamati a fare se vogliamo far sì che la Parola di Dio non venga seminata invano nella nostra vita e in quella del mondo.
L'esempio di un impegno missionario a largo raggio ci viene oggi dal testo degli Atti degli Apostoli in cui vediamo all'opera Paolo e Barnaba. Dopo la conversione Paolo di Tarso, come sappiamo, cambia radicalmente la sua vita al punto tale che tutto il suo vivere è per Cristo e la morte per lui in nome di Cristo è un guadagno, già pensando a ciò che lo attendeva nella gloria del cielo. Ma è importante sottolineare in questo brano degli Atti degli Apostoli quante difficoltà la Chiesa nascente dovette fronteggiare per recuperare pace al suo interno e al suo esterno, impegnando le energie dei diretti discepoli del Signore e di quanti erano divenuti discepoli ed apostoli successivamente, come Paolo. Un certo scetticismo regnava tra loro, soprattutto come nel caso di Paolo si sapeva precisamente la sua origine e le cose che aveva fatto prima. Barnaba diventa strumento, mediatore per far conoscere Paolo nella sua nuova veste di convertito e di convinto assertore della divinità di Cristo e della sua missione portata a compimento nella morte e risurrezione. Paolo viene accreditato come apostolo vero e certo di fede, su cui si poteva investire e contare per la diffusione del vangelo della salvezza soprattutto alle genti, a quei popoli lontani dalla fede di Israele. A conferma di questo viene presentato agli apostoli riuniti a Gerusalemme ciò che aveva fatto fino quel momento nel campo dell'evangelizzazione. Dall'insieme del brano si evince anche quanto sia stata difficile per Paolo la sua adesione al Vangelo sia per essere accettato tra i discepoli di Cristo e sia tra coloro che non credono, che lo vogliono uccidere. Prudentemente la Chiesa lo fa ritornare a Tarso per non esporlo ulteriormente a qualche omicidio o attentato. Questo a conferma che, allora come oggi, per parlare di Dio ci vuole coraggio e non bisogna aver paura di quanti hanno poter di uccidere il corpo, ma non possono uccidere l'anima, il cuore e la libertà di espressione e di fede. I tanti martiri dei primi secoli del cristianesimo, tra cui lo stesso San Paolo, ci dicono esattamente quale testimonianza di fede siamo chiamati a dare in caso di necessità. Chiediamo al Signore che questo coraggio dell'evangelizzare e testimoniare la fede cresca ogni giorno di più nella nostra vita.
Omelia di padre Antonio Rungi
Il frutto del rimanere
Io sono la vite, voi i tralci.
Siamo nel lungo discorso di addio durante l'ultima cena; Gesù racconta la sua persona, la profondità del rapporto con il Padre suo e il rapporto con i suoi discepoli. Gesù mostra la sua identità, ma anche rivela i discepoli a se stessi. Nella relazione tra lui e il Padre e nella relazione dei discepoli con lui si concretizza il mistero della salvezza.
La vite vera è il vero albero della vita che il Padre Agricoltore ha piantato nella storia degli uomini; l'uomo nel Giardino non poteva gustarne, ora ne è intimamente legato e chiamato a darne il frutto. In questo è la sua glorificazione. Forse non abbiamo una idea corretta della Gloria di Dio, l'abbiamo raffigurata nei nostri templi fatta di ori, luci e cori angelici, eppure "La gloria di Dio è l'uomo vivente" (S. Ireneo): è l'uomo chiamato a portare molto frutto.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
L'intervento dell'Agricoltore è necessario perché il frutto sia abbondante. Questa è l'opera del Padre, lui conosce i tralci e sa come e dove mondarli, non è compito nostro. Non siamo chiamati a mortificarci o mortificare gli altri, non siamo chiamati ad arrampicarci in percorsi di elevazione spirituale, nella storia si realizza l'azione di Dio che ci monda, ci pensa lui e sa come fare.
La Parola che ci è annunciata, essa stessa ha l'effetto della potatura, ha lo scopo di rafforzare l'intima unione con il tronco. Il frutto è dunque anche frutto dell'intimità con il Signore.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
La parola "rimanere", che Giovanni qui ripete dieci volte, sembra quasi avere una dimensione statica, sembra comunicarci il senso della stabilità, tentazione a cui ogni religione tende il fianco e, storicamente, il cristianesimo non ne è immune. La relazione con Cristo, invece, è conseguenza della dinamica della Parola, che opera nel discepolo e lo spinge a seguire Lui. Senza questa dinamica relazionale il discepolo rimane solo (Gv. 12,24), il suo tralcio si inaridisce e non dà frutto. Rimanere nella Parola realizza una comunione tale con il Figlio e il Padre che possiamo chiedere qualsiasi cosa e l'amore del Padre che ci precede lo farà: è il mistero dell'obbedienza di Cristo al Padre che amano dello stesso amore che ci raggiunge e ci coinvolge. Diventare discepoli è rimanere nella vita stessa del Signore e condividerne la missione.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli
La giustizia, la pace, la fraternità, l'amore... sembrano essere i frutti della vita cristiana, ma questa lettura moralistica non corrisponde all'esempio parabolico che Giovanni racconta. Il Frutto, al singolare, è prodotto sinergico dell'opera di Dio che toglie e purifica e la permanenza dell'uomo nella Parola che gli è stata annunziata. Il tralcio ben innestato nella vite si prolunga nella storia, attraversa lo spazio per "portare" l'unico Frutto possibile che è lo stesso Signore Gesù. Per ben sette volte Giovanni ripete l'espressione "portare Frutto", questa è la missione del discepolo che Gesù consegna ai suoi prima di lasciare questo mondo. Più avanti dirà in modo esplicito (15,16): "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga".
Omelia di don Luciano Cantini
Liturgia della V Domenica di Pasqua (Anno B): 6 maggio 2012
Liturgia della Parola della V Domenica di Pasqua (Anno B): 6 maggio 2012
tratti da www.lachiesa.it