5 febbraio 2012 - V Domenica del Tempo Ordinario: Gesù, se tu vuoi, puoi guarirmi
News del 03/02/2012 Torna all'elenco delle news
Il confronto con la malattia, con il proprio corpo malato (Giobbe) e con i corpi segnati da malattia di altri uomini e donne (Gesù): questo il tema che unifica la pagina di Giobbe e quella evangelica.
E anzitutto emerge la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia. Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici che si rivelano in realtà nemici, “medici da nulla”, ma non conforma il proprio discorso a quello teologicamente corretto dei suoi amici. Giobbe osa esprimere ciò che sente. E Dio stesso, dirà Gb 42,8, gradisce maggiormente le sue invettive che le prediche dei suoi amici. Vi è una legittimità per il malato, nella sua sofferenza, di esprimere una reazione anche di collera, anche irrazionale. In verità, quell’urlo è la maniera con cui il malato cerca di dirsi nella malattia, cerca di esprimere ciò che sta avvenendo alla propria vita. Ed è un momento positivo e vitale in quanto è il primo passo di un possibile cammino di guarigione, o quanto meno di assunzione della malattia: il malato lotta, chiede “perché?”, inveisce, non si rassegna, non la dà vinta al male. Questa presa di parola di fronte al male che invade il proprio corpo non va soffocata da chi sta accanto al malato con esortazioni al silenzio o a “non dire così” o a non disturbare, ma va accolta come un momento importante del faticoso processo di assunzione della crisi esistenziale introdottasi nella vita dell’uomo. Come dice ancora Giobbe: “Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14); “per il malato c’è la pietà degli amici, anche quando Dio si mette contro di lui” (Gb 19,21).
L’incontro di Gesù con i malati, presentato nella pagina evangelica anche mediante un sommario che parla dell’attività di cura e di guarigione dei sofferenti come di un’attività consueta di Gesù (cf. Mc 1,32-34), è istruttivo per il discorso spirituale cristiano circa malattia e sofferenza. Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo. Egli si presenta come “medico” (Mc 2,17), attualizzando in sé la potenza del Dio il cui nome è “Colui che ti guarisce” (Es 15,26). E soprattutto l’attività di cura e guarigione che Gesù compie sta all’interno della finalità prima della sua missione: “predicare il vangelo” (cf. Mc 1,38; 1,14), annunciare il Regno di Dio: le guarigioni operate da Gesù appaiono così vangelo in atti e profezia del Regno di Dio. La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo.
Gesù non si lascia travolgere dalle folle che vogliono guarigioni, ma cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per pregare. E sa porre un limite all’attività, sa dire dei no, non si lascia sedurre dal fatto che “tutti lo cercano”. Gesù si rifiuta di divenire un fornitore di prestazioni terapeutiche e sa anche sottrarsi alle richieste che provengono dalla gente. I gesti che egli compie sono sacramentali, sono trasparenza dell’azione divina, nella misura in cui egli vive la sua missione non tanto cercando di soddisfare i bisogni di coloro cui è inviato, quanto nutrendo la relazione con colui che l’ha inviato. Per questo Gesù prega e rivendica il primato dell’annuncio della parola sull’operare il bene che pure è una caratteristica del suo agire (cf. At 10,38). Del resto: da dove attinge Gesù la sua forza? Da dove attinge la pazienza, la dedizione, l’abnegazione, lo spendersi? Da dove, se non dalla relazione nutrita quotidianamente con il Padre?
Commento della Comunità di Bose (Luciano Manicardi)
Usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e di Andrea
Nella domenica V del tempo ordinario continuiamo la lettura del Vangelo di Marco (Mc.1,29-39): con il suo stile scarno ed essenziale, Marco ci presenta un pensiero estremamente ricco, incalzante, che ci invita ad aprirci alla radicale novità della sua proposta. Al centro del racconto rimane Lui, ormai sempre insieme ai suoi discepoli: Lui con il mistero inafferrabile della sua identità, con i discepoli, che egli ama, che egli educa, che egli chiama alla comunione con sé e che pur tuttavia rimangono sempre nella fragile debolezza umana e proprio per questo sempre solo discepoli.
"E subito, uscendo dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e di Andrea, insieme con Giacomo e Giovanni". E' opportuno sottolineare con quanta frequenza ritorni, nella narrazione di Marco, l'espressione "e subito", per mostrare che cosa significhi l'annuncio di Gesù che "il tempo è compiuto": è l'irruzione della presenza incontenibile dell'azione di salvezza di Dio nella storia. La scena descritta, così normalmente familiare, è piena di significato simbolico: l'uscita di Gesù dalla sinagoga per entrare nella casa di Simone e Andrea, significa la dilatazione dello spazio della presenza di Dio, non più limitata ai confini del sacro. La casa dove vivono gli uomini è il luogo della presenza di Dio: la casa di Simone e di Andrea, dove ci sono pure Giacomo e Giovanni, diventa la chiesa dove "Lui" è presente, con la sua presenza silenziosa e operante. "La suocera di Simone era a letto con la febbre": anche questa donna, nella sua fragilità è simbolo dell'umanità, una donna anziana, malata, ormai inutile, abbandonata alla sua solitudine. Ma qui, accade una cosa nuova: "e subito, parlano a Lui di lei". Dove c'è Lui, nasce una nuova sensibilità: l'attenzione agli ultimi; nasce una nuova speranza. Non è una intercessione, è una esperienza intensa, esemplare, per i discepoli di ogni tempo, "parlare con Lui della suocera febbricitante di Simone", parlare con Lui delle nostre fragilità, parlare con Lui della nostra chiesa, dire tutto a Lui e fidarci di Lui: anche in questo consiste essere suoi discepoli.
Adesso è Lui che risponde, non con le parole, ma con tutto se stesso: è il suo primo incontro, nel Vangelo di Marco, con la donna. "Andandole incontro, la fece alzare stringendole la mano": è la forza di un incontro d' amore che "fa risorgere" una persona che si sentiva finita, un amore potente, fisico. Lui è lo sposo che incontra la sposa e prendendola per mano, la fa risorgere per una vita nuova. "E la febbre la lasciò ed essa li serviva". Tutto è così normale in quella casa, eppure tutto è straordinario: Gesù l'ha fatta alzare e poi la febbre l'ha lasciata, Gesù fa nuova la persona ed essa è libera, non è più schiava del male. Gesù l'ha innalzata ed essa comincia a servirli: anche questo è sorprendente, la donna innalzata è libera di fare come Lui, di servire e dare la vita.
Se Marco ci ha indicato Gesù come "Colui che parla con autorità", adesso ci mostra la sua totale libertà per amare, per servire l'umanità fragile e sofferente: Gesù non fa "teorie" ma fa in modo che chi lo incontra viva un'esperienza e così cominci ad avere la sua visione del mondo.
Gesù è libero da ogni preoccupazione di potere, da ogni paura per se stesso, da ogni desiderio di apparire e per questo non si lascia strumentalizzare da nessuno, neppure dai suoi discepoli e rifugge da ogni strumentalizzazione degli altri da parte sua. Egli solamente ama, servendo e liberando l'umanità in una autenticità di valori che supera i desideri stessi dell'uomo.
Per questo, Marco ci svela gradualmente il mistero di Cristo e ci educa all'incontro personale con Lui: totalmente immerso nell'umanità, sommerso dai suoi mali, egli libera e guarisce. Gesù non pone il problema teorico del male, condivide l'esistenza dell'uomo malato di ogni tipo di male, aprendola all'esperienza di fede e di amore che libera dalla schiavitù del male.
E Gesù "non permetteva ai demoni di parlare perché lo conoscevano". Marco ripete l'ordine di non parlare che ha già dato nel v.25, e che quindi ritiene di notevole importanza: forse Marco ha presente la situazione della sua comunità, che può certamente essere anche la nostra, tentata di fare della proclamazione dell'identità divina di Gesù un motivo per aspettarci da Lui la miracolosa eliminazione del male dal mondo e poi, per scandalizzarci di fronte a Lui che non usa la sua divinità per scendere dalla croce, per salvare se stesso. Gesù non vuole che i demoni (e noi) dicano di conoscere la sua identità: Gesù ci mette in guardia, con molta serietà, dal rischio di parlare troppo facilmente della sua divinità., mentre vuole che noi lo seguiamo per sperimentare che l'onnipotenza di Dio sta nel discendere, per condividere e per amare anche ciò che noi vorremmo che egli eliminasse.
Per questo, Marco ci fa compiere ancora un passo verso la conoscenza di Lui e verso l'identità del discepolo. "Al mattino presto, quando ancora era buio, si alzò e uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava" Nel suo stile normale, scarno ed essenziale, Marco ci svela la radice dell'identità di Gesù: "pregava". Il tempo all'imperfetto significa l'abitudine alla preghiera: molto presto, prima che il sole sorgesse, egli, staccandosi da tutto e da tutti, nella solitudine, pregava. La preghiera è vissuta come l'esperienza della più totale solitudine, ma proprio per questo come l'esperienza della più piena comunione con Dio e di conseguenza come la più vera comunione con il mondo. Solo con Dio, il Figlio con il Padre, Gesù raggiunge la sua identità, che gli rende possibile essere in relazione fraterna con gli altri uomini, in una relazione piena, autentica e libera.
La frase che descrive la reazione dei discepoli è ancora una volta in perfetto stile di Marco, una raffinata rappresentazione della comunità cristiana di sempre: "Simone e quelli che erano con lui si misero a cercarlo". Che c'è di meglio che la comunità cerchi Gesù? Eppure, perché cercano Gesù? Perché pensano che Lui li abbia lasciati: non hanno ancora capito che il suo modo di essere con loro e di essere con il Padre, il suo amore per loro è la concretezza dell'amore fedele di Dio. Il verbo greco "lo cercarono", usato solamente qui in tutto il N.T., esprime un senso di ansia: in modo velato, forse Marco, per la prima volta suggerisce una distanza tra i desideri dei discepoli e il progetto di Gesù. C'è sempre il rischio di cercare Gesù per le nostre paure, perché vogliamo accaparrarcelo, perché vogliamo usarlo per noi. Qui è evidente: Simone e quelli che erano con lui, hanno cercato Gesù perché vogliono che egli accondiscenda ai desideri della folla. "Tutti ti cercano" gli dicono quando lo trovano. Ma Gesù non aderisce, non si lascia catturare da questa ricerca che è piena di equivoci. Gesù è libero e la relazione con Lui è liberante.
"Andiamo", dice ai discepoli, risvegliandoli con un imperativo dal subdolo torpore apostolico in cui sono caduti e pure coinvolgendoli nel suo progetto: "perché io devo annunciare; per questo sono uscito". Ancora in una frase, solo apparentemente semplice Marco sintetizza tutto il mistero di Cristo e della sua missione: Gesù è "uscito" da Cafarnao per entrare nella preghiera, è "uscito" dalla preghiera per "annunciare" al mondo l'esperienza della sua umanità, resa libera perché riempita da Dio, perché ogni uomo, incontrando Lui, viva personalmente l'esperienza affascinante dell'umanità liberata dal male per un bene senza limite.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Mano nella mano con l'Infinito
Marco ci presenta il resoconto della giornata- tipo di Gesù, ritmata sulle tre occupazioni preferite di Gesù: immergersi nella folla e guarire, far stare bene le persone; immergersi nella sorgente segreta della forza, la preghiera; da lì risalire intriso di Dio e annunciarlo. Tutto parte dal dolore del mondo. E Gesù tocca, parla, prende le mani. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, l'inizio della buona notizia, l'annuncio che è possibile vivere meglio, trovare vita in pienezza, vivere una vita bella, buona, gioiosa.
La suocera di Simone era a letto con la febbre, e subito gli parlarono di lei. Miracolo così povero di contorno e di pretese, così poco vistoso, dove Gesù neppure parla. Contano i gesti. Non cerchiamo di fronte al dolore innocente riposte che non ci sono, ma cerchiamo i gesti di Gesù.
Lui ascolta, si avvicina, si accosta, e prende per mano. Mano nella mano, come forza trasmessa a chi è stanco, come padre o madre a dare fiducia al figlio bambino, come un desiderio di affetto. E la rialza. È il verbo della risurrezione. Gesù alza, eleva, fa sorgere la donna, la riconsegna alla sua andatura eretta, alla fierezza del fare, del prendersi cura.
La donna si alzò e si mise a servire. Il Signore ti ha preso per mano, anche tu fa lo stesso, prendi per mano qualcuno. Quante cose contiene una mano. Un gesto così può sollevare una vita!
Quando era ancora buio, uscì in un luogo segreto e là pregava.
Un giorno e una sera per pensare all'uomo, una notte e un'alba per pensare a Dio. Ci sono nella vita sorgenti segrete, da frequentare, perché io vivo delle mie sorgenti. E la prima di esse è Dio. Gesù assediato dal dolore, in un crescendo turbinoso (la sera la porta di Cafarnao scoppia di folla e di dolore e poi di vita ritrovata) sa inventare spazi. Ci insegna a inventare quegli spazi segreti che danno salute all'anima, spazi di preghiera, dove niente sia più importante di Dio, dove dirgli: Sto davanti a te; per un tempo che so breve non voglio mettere niente prima di te; niente per questi pochi minuti viene prima di te. Ed è la nostra dichiarazione d'amore. Infine il terzo momento: Maestro, che fai qui? Tutti ti cercano! E lui: Andiamocene altrove. Si sottrae, non cerca il bagno di folla. Cerca altri villaggi dove essere datore di vita, cerca le frontiere del male per farle arretrare, cerca altri uomini per farli star bene.
Andiamo altrove a sollevare altre vite, a stringere altre mani. Perché di questo Lui ha bisogno, di stringere forte la mia mano, non di ricevere onori.
Uomo e Dio, l'Infinito e il mio nulla così: mano nella mano. E aggrapparmi forte: è questa l'icona mite e possente della buona novella.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Liturgia della V Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 5 febbraio 2012
Liturgia della Parola della V Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 5 febbraio 2012