13 novembre 2011 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario: Entra nella gioia del tuo Signore! - Nessuno è senza talenti

News del 12/11/2011 Torna all'elenco delle news

La pagina del Vangelo che la Liturgia ci presenta nella penultima domenica dell'anno liturgico, Matt.25,14-30, contiene la "parabola dei talenti". Il fatto che si tratti della più lunga delle parabole evangeliche, molto ben costruita, ci orienta a non fermarci alla prima interpretazione, ovvia e immediata, secondo la quale essa si limita ad essere un forte invito ad usare e a non sprecare le doti naturali (i talenti) che ciascuno di noi possiede, col rischio di non arrivare a percepire la bellezza del messaggio evangelico che invece essa vuole trasmetterci. La lunga storia dell'esegesi mette in evidenza che l'apparente semplicità della parabola solo ad una lettura attenta e a uno studio accurato rivela gradualmente la sua ricca densità.
Il fatto che questa parabola sia collocata alla fine del Vangelo, significa che il suo messaggio ne è il punto di arrivo. "Bene, servo buono e fedele: nelle cose piccole sei stato fedele, nelle cose grandi ti farò stare. Entra nella gioia del tuo Signore": in questa frase, al positivo, come nell'altra al negativo: "Servo cattivo e pigro: tu conosci...Gettate questo servo inutile nelle tenebre.", troviamo la visione sintetica del discepolo di Gesù secondo Matteo.
Il discepolo di Gesù vive di fede: l'attributo "fedele" è ripetuto quattro volte nel giudizio del padrone. E'sulla loro fedeltà, non sul rendimento che sono giudicati i due servitori e non sono i talenti che contano, ma la loro fede.
La fede ha reso possibile il raddoppiamento del capitale, spingendo "subito" i servi a farsene carico nel momento della separazione causata dall' "assenza" del padrone e nello stesso tempo provocando la loro maturazione personale: mentre è fiducia nell'"Altro", la fede genera pure la fiducia in se stessi. Il discepolo di Gesù è il servo "buono" e "fedele" perché realizza radicalmente se stesso ascoltando la Parola del suo Signore ed incarnandola fedelmente nella concretezza della vita.
Questa parabola, a differenza delle altre, non inizia con: "il regno dei cieli è simile.", ci immerge immediatamente nella concretezza della realtà della vita quotidiana: più di tutte le altre, è preoccupata di inserirci nella trama dei rapporti orizzontali che caratterizzano la vita degli uomini mentre ci annuncia che in essi irrompe una novità, che è la relazione verticale, tra gli uomini e Dio. "Come un uomo, partendo per un viaggio chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni": che cosa caratterizza questa storia così normale? In questa pagina ritorna continuamente il verbo "consegnare" ,"affidare" (che si trova pure nei testi eucaristici e nei racconti della passione) che esprime la "fiducia" che quest'uomo (che poi diventa il "signore") pone nei suoi servi, dei quali conosce personalmente le capacità e ai quali affida i "suoi" beni. Questa nostra parabola è essenzialmente "la storia della fiducia del Signore" e il suo senso fondamentale è quello di rivelarci l'esperienza di Dio di Gesù: Dio è Colui che ha fiducia nell'uomo unicamente perché lo ama e l'uomo è chiamato a credere in Colui che ripone la sua fiducia in lui.
La fede è questa relazione di fiducia che lega Dio con l'uomo: quanto più si dilatano gli spazi della fede e tanto più si dilatano gli spazi dell'esistenza dell'uomo, la sua capacità di relazione con gli altri e con il mondo, e tanto più l'uomo diventa capace di vedere e di gustare la bellezza dei doni della vita. Tutto inizia da un atto di fiducia accolto, e tutto diventa un dono che si dilata, quanto più la logica della gratuità si diffonde.
E la parabola continua a descrivere il discepolo di Gesù, il servo buono perché fedele: "sei stato fedele nelle piccole cose, ti farò stare in quelle grandi". E' la logica del Vangelo: il piccolo seme diventa un grande albero, il lievito nascosto fermenta la pasta, e la fede nell'amore che Dio ha per noi, cambia il mondo. E' una relazione di Amore che si instaura tra Dio e l'uomo, meravigliosa, affascinante, ma anche piena di responsabilità verso il mondo. Ma proprio questa è la novità: l'uomo nel quale Dio ha fiducia, riceve da Lui pure la forza per sostenere la responsabilità che lo rende capace di fare nuovo il mondo.
"Entra nella gioia del tuo Signore". Sono parole splendide, queste, che sentiamo risuonare spesso nei Salmi: il discepolo di Gesù è la persona chiamata alla esperienza della gioia più intensa, che non sta nel possesso delle cose o nelle realizzazioni ottenute ma nell'entrare nell'intimità con il suo Signore. Il cammino della fede è il farsi della storia generata dal piccolo gesto di accoglienza dell'immensa fiducia di Dio verso l'uomo: il punto di arrivo e il suo significato è la relazione d'Amore più intima tra l'uomo e il suo Signore.
Il problema sta proprio in questo: la fede pura fa in modo che l'uomo si apra alla fiducia in Dio che gli dona tutto, è la fede che rende l'uomo capace "di spostare le montagne".
L'ultima parte della parabola che si ferma a lungo sul servo che ha ricevuto "un" talento, ha questo scopo preciso: sottolineare ciò che è essenziale per il Vangelo. Alla sua comunità, fatta di persone che provengono dall'ebraismo, Matteo ricorda quanti doni Dio abbia fatto al popolo che ha chiamato per essere segno del suo amore fedele per tutto il mondo. Alla fine il dono è "uno": c'è del mistero in questo "uno" che vuole esprimere il "tutto" di Dio. Questo "uno" è Gesù, il piccolo seme, il lievito nella pasta, il "dono di Dio" totalmente offerto, messo nelle mani dell'umanità: è la rivelazione di un Dio che ha fiducia nell'uomo tanto da consegnarsi a lui. Chiede soltanto di essere creduto, chiede solo amore: chi entra nella sua intimità, trova il senso della vita, la gioia, e sperimenta l'unica forza che può trasformare il mondo.
Matteo, guardando alla sua comunità vede quante resistenze l'uomo opponga a questa fede: certo, Dio continua ad offrirsi, continua ad operare con chi almeno comincia ad aprirsi a Lui, ma l' "Uno" è lì, fragile pane offerto alla fame dell'uomo. Quanto è difficile per l'uomo abbandonare l'idea di un Dio, padrone duro, esigente, che incute paura, alla quale corrisponde l'immagine di un uomo che per renderselo amico diventa altrettanto duro e in nome di Dio combatte battaglie, diventa violento!
Matteo, oggi, parla a noi. L'uomo moderno fa come il servo del Vangelo: non riuscendo a staccarsi dall'idea di un Dio violento che impedisce all'uomo di vivere, sotterra Dio e vive senza di lui, ma poi si smarrisce nella sua solitudine. Matteo ci annuncia: Gesù è qui, ci mostra che Dio è solo Amore fedele. Se crediamo l'Amore che Dio ha per noi, sperimentiamo che Lui è la pienezza della nostra vita. 

Omelia di mons. Gianfranco Poma


L'invito a non avere paura della vita

Dai protagonisti della parabola emergono due visioni opposte della vita: l'esistenza, e i ta­lenti ricevuti, come una op­portunità; oppure l'esisten­za come un lungo tribunale, pieno di rischi e di paure. I primi due servi entrano nel­la vita come in una possibi­lità gioiosa; l'ultimo non en­tra neppure, paralizzato dal­la paura di uscirne sconfitto.
La parabola dei talenti è il poema della creatività, sen­za voli retorici, perché nes­suno dei tre servi crede di poter salvare il mondo. Tut­to invece odora di casa, di vi­ti e di olivi o, come nella pri­ma lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa. Di sem­plicità e concretezza. Ciò che io posso fare è solo una goc­cia nell'oceano, ma è questa goccia che dà senso alla mia vita (A. Schweitzer).
Il Vangelo è pieno di una teo­logia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi toc­ca il lavoro paziente e intel­ligente di chi ha cura dei ger­mogli. Dio è la primavera del cosmo, a noi il compito di esserne l'estate feconda di frutti.
Leggiamo bene il seguito della parabola: Dio non è un padrone che rivuole indie­tro i suoi talenti, con in ag­giunta quelli che i servi han­no guadagnato. Ciò che i servi hanno realizzato non solo rimane a loro, ma è moltiplicato un'altra volta: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto». Il padrone non ha bisogno di quei dieci o quattro talenti. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: e questo accre­scimento, questo incremen­to di vita, questa spirale d'a­more crescente è l'energia segreta di tutto ciò che vive. Noi non viviamo semplice­mente per restituire a Dio i suoi doni. Ci sono dati per­ché diventino a loro volta se­me di altri doni, lievito che solleva, addizione di vita per noi e per tutti coloro che ci sono affidati.
Non c'è neppure una tiran­nia, nessun capitalismo del­la quantità. Infatti chi con­segna dieci talenti non è più bravo di chi che ne conse­gna quattro. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative.
Non ci sono dieci talenti i­deali da raggiungere: c'è da camminare con fedeltà a ciò che hai ricevuto, a ciò che sai fare, là dove la vita ti ha mes­so, fedele alla tua verità, sen­za maschere e paure.
La parabola dei talenti è un invito a non avere paura del­la vita, perché la paura pa­ralizza, perché tutto ciò che scegli di fare sotto la spinta della paura, anziché sotto quella della speranza, im­poverisce la tua storia. La pedagogia del Vangelo offre tre grandi regole di maturità: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. Soprattutto da quella che è la paura delle paure, la pau­ra di Dio. 

Omelia di padre Ermes Ronchi 
 

Liturgia della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A): 13 novembre 2011