11 settembre 2011 - XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Signore, quante volte dovrò perdonare mio fratello?

News del 10/09/2011 Torna all'elenco delle news

Concludiamo la lettura del cap. 18 del Vangelo di Matteo che contiene il "discorso sulla vita della Chiesa".
La lettura liturgica ci fa accostare, ogni domenica, a brani dell'Antico e del Nuovo Testamento, guidandoci in un percorso ordinato per la crescita della nostra vita cristiana: la riforma postconciliare ha certamente reso più ricco il nostro accostamento ai testi biblici. Rimane tuttavia il pericolo che, se la nostra conoscenza è limitata alla lettura liturgica, dei testi biblici abbiamo una comprensione frammentata che può diventare solamente morale.
Questo vale in modo particolare per alcuni testi, come è il cap.18 di Matteo a cui potremmo accostarci come se si trattasse di una serie di precetti etici giustapposti, mentre il discorso intende proporre un itinerario di vita, nella comunità, perché il discepolo che segue Gesù ed affida a Lui la sua vita, lo percorra con impegno, abbandonando il proprio orgoglio per vivere come fratello di quanti condividono con lui l'esperienza di figli del Padre. Il Vangelo non impone una legge ma offre l'esperienza vissuta da Gesù perché coloro che lo seguono la accolgano e affidandosi a Lui, la rivivano nella propria esistenza personale. E l'esperienza di Gesù è la condivisione dell'umanità, condivisione piena che diventa concretamente solidarietà, fraternità, possibile perché è la conseguenza del suo essere totalmente affidato al Padre: l'esperienza di Gesù è il distendersi nella storia del suo mistero di Figlio di Dio, fratello degli uomini. Ma per essere veramente fratello di tutti gli uomini, occorre che il Figlio di Dio si faccia l'ultimo di tutti. "Egli, dice S.Paolo, pur essendo nella condizione di Dio., svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò." (Fil.1,5-11) Per questo Gesù, nella sua vita, dal battesimo alla croce, "discende", per poter identificarsi con chi è "piccolo" e "ultimo" e poter affermare: "Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me" (Matt.18,5), e ancora "Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matt.25,38), per poter condividere la fragilità e la debolezza umana: per poter amare nella verità. Quando, dunque, all'inizio del cap.18 di Matteo, alla domanda dei discepoli: "Chi, dunque è più grande nel regno dei cieli?", Gesù risponde chiamando a sé un bambino, ponendolo in mezzo a loro e dicendo: "In verità vi dico. chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli", Gesù parla di sé e chiede di "sconvolgere" la nostra mentalità per assumere la sua (a Pietro ha già chiesto di "pensare secondo Dio e non secondo gli uomini"). Il "regno dei cieli" è la presenza di Dio nel mondo, che Gesù manifesta facendosi "piccolo": adesso il Vangelo ci sta dicendo che si entra nel regno dei cieli seguendo Gesù, condividendo la sua "piccolezza" per lasciare spazio alla forza di Dio e Gesù ci sta rivelando che la comunità dei discepoli di Gesù, la comunità dei "piccoli", è sulla terra la manifestazione della forza di Dio. Si tratta certamente di una rivelazione meravigliosa: ricordiamo ancora S. Paolo quando confessa che Gesù gli ha detto: "Ti basta la mia grazia, perché la mia forza sta nella debolezza". Ma quanto è difficile per noi condividere con Gesù il cammino della "piccolezza" che rischiamo di interpretare in modo sentimentale e romantico: quando Gesù parla di "piccoli" non intende i bambini piacevoli, teneri, innocenti, ma parla di chi non conta niente, di chi non si impossessa del potere, di chi non si impone agli altri, di chi non guarda agli altri dall'alto in basso, di chi non si ritiene migliore degli altri, di chi non pensa di non aver bisogno del perdono fraterno. Quando Gesù prende un bambino e lo mette al centro, intende capovolgere il modo normalmente umano di concepire le relazioni, la società: le parole di Gesù, meravigliose, nel cap.18 di Matteo si fanno esigenti: si tratta di entrare veramente nel regno dei cieli, si tratta di vivere veramente l'esperienza meravigliosa dell'amore del Padre. Nel corso di tutto il capitolo, si precisa che cosa intenda Gesù parlando dei "piccoli" ai quali è aperto l'accesso al regno dei cieli, e con quanta sollecitudine avverta di tutti gli equivoci nei quali si può cadere. Per questo, la conclusione introduce di nuovo Pietro con la sua domanda: "Quante volte dovrò perdonare il mio fratello, se pecca contro di me?" Pietro non ha ancora capito che essere discepoli di Gesù, non è questione di quantità, ma di "novità", ma soprattutto non ha ancora capito che "il piccolo" che entra nel regno dei cieli, "l'ultimo", colui che non ha nessun diritto, non ha nulla da calcolare, ha solo la forza di Dio, l'amore, la gratuità del perdono, è ogni uomo, sono io, è Pietro, quando abbiamo il coraggio di essere noi stessi, fragili e deboli, ma amati dal Padre: Pietro è di nuovo chiamato da Gesù a seguirlo nel dono totale di sé. Per questo Gesù dice la parabola del "re e del servo spietato" che è un fortissimo richiamo per la comunità cristiana nascente e per la Chiesa di ogni tempo: parla di un re che di fronte al servo che lo implorava, "ebbe compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito". Ma poi, questo servo, di fronte ad un "con-servo" che lo implorava per molto meno, "gli voltò le spalle e lo gettò in carcere".

Noi leggiamo il Vangelo, celebriamo l'eucaristia, parliamo della gratuità dell'amore del Padre, ma poi. Il servo ha sfruttato la disponibilità del re, ma non ha sperimentato la sua compassione, non si è lasciato cambiare il cuore. Paolo VI parlava della separazione della fede dalla vita come dramma del nostro tempo: noi facciamo qualcosa per gli altri, per i "piccoli", ma continuiamo a sentirci "più grandi". Gesù si è fatto piccolo, ha assunto la nostra carne, ha condiviso: la novità cristiana sta proprio in questo sentire che noi siamo piccoli come tutti, condividiamo, non condanniamo ma, con Cristo, amiamo. Se dal mondo noi pretendiamo ciò che deve a Dio, se guardiamo agli altri giudicando, se tra noi dimentichiamo di essere "debitori solo di amore", se non "perdoniamo di cuore", vuol dire che abbiamo ancora il cuore duro, che non abbiamo gustato la "compassione" del Padre, che ci siamo chiusi nella nostra ipocrisia. Ai servi incapaci di amare Gesù preannuncia una sorte terribile, e noi pensiamo all'inferno e a un Padre che non ama più. Gesù in realtà parla sempre del presente e annuncia la sorte a cui si autocondanna un mondo incapace di sperimentare compassione e gratuità: forse è il rischio della nostra attuale condizione. Perché ci siamo così incattiviti? Perché le relazioni sono tutt'altro che fraterne? La Parola di Gesù è per noi: "Se non vi convertite e non diventate come i bambini." La Chiesa è la comunità dei "piccoli" che lasciano che la loro fragilità sia abitata dalla compassione di Dio, è la presenza nel mondo del regno dei cieli: è la comunità che non vuole vincere battaglie in nome di Dio, ma che lascia trasparire dalla sua inerme fragilità, dalle relazioni fraterne di persone bisognose di perdono, che nel mondo è presente una forza nuova, invincibile, che è l'amore che Dio ha per noi.

Testo di mons. Gianfranco Poma

 

 

Quante volte dovremo perdonare ai nostri fratelli?

 

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre. L'unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché vivere il vangelo di Gesù non è spostare un po' più avanti i paletti della morale, del bene e del male, ma è la lieta notizia che l'amore di Dio non ha misura.

Perché devo perdonare? Perché devo rimettere il debito? Perché cancellare l'offesa di mio fratello? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio; perché il Regno è acquisire per me il cuore di Dio e poi immetterlo nelle mie relazioni.

Gesù lo dice con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come il bilancio di uno stato: un debito insolvibile. «Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava...» e il re provò compassione.

Il re non è il campione del diritto, ma il modello della compassione: sente come suo il dolore del servo, lo fa contare più dei suoi diritti. Il dolore pesa più dell'oro.

Il servo perdonato, «appena uscito», trovò un servo come lui che gli doveva qualche denaro. «Appena uscito»: non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un'ora dopo. «Appena uscito», ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia. Appena dopo aver fatto l'esperienza di come sia grande un cuore di re, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: 'Ridammi i miei centesimi'», lui perdonato di miliardi! In fondo, era suo diritto, è giusto e spietato.

L'insegnamento della parabola è chiaro: rivendicare i miei diritti non basta per essere secondo il vangelo. La giustizia non basta per fare l'uomo nuovo. «Occhio per occhio, dente per dente», debito per debito: è la linea della giustizia. Ma mentre l'uomo pensa per equivalenza, Dio pensa per eccedenza. Sull'eterna illusione dell'equilibrio tra dare e avere, fa prevalere il disequilibrio del fare grazia che nasce dalla compassione, dalla pietà.

«Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?» Non dovevi essere anche tu come me? Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa. Acquisire il cuore di Dio, per immettere la divina eccedenza dentro i rapporti ordinati del dare e dell'avere. Perdonare significa - secondo l'etimologia del verbo greco aphíemi - lasciare andare, lasciare libero, troncare i tentacoli e le corde che ci annodano malignamente in una reciprocità di debiti. Assolvere significa sciogliere e dare libertà. La nostra logica ci imprigiona in un labirinto di legami. Occorre qualcosa di illogico: il perdono, fino a settanta volte sette, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica, fino ad agire come agisce Dio.

Testo di padre Ermes Ronchi

 

 

Off-limits

 

Dopo lo spigoloso tema della correzione fraterna, la liturgia ci porta a meditare su un altro nodo fondamentale della vita cristiana: il perdono.

La splendida parabola che Gesù ci regala in questa domenica, prende avvio da una domanda di Pietro. Lui, uomo concreto, ex-pescatore di Cafarnao, vuole una regola precisa sul perdono, un limite oltre il quale il discepolo si possa sentire esentato dal concedere il perdono. Il buon Pietro parte da una misura alta: più del doppio di quanto imponeva la legislazione rabbinica che bloccava a tre il numero massimo del perdono fraterno.

Pietro crede di abbondare, magari si aspetta pure un complimento dal Rabbì e invece?

Settanta volte sette, dice Gesù, cioè un perdono illimitato, senza misura.

Siamo oltre il buon senso.

La regola di Gesù è paradossale, ovviamente non ispirata ad un modello umano o ad una misura terrestre, ma al perdono stesso di Dio. Questo è il centro: dobbiamo perdonare senza calcolo e senza misura perché Dio ci ha perdonato senza calcolo e senza misura. Il perdono di Dio è motivo e modello dello stile di fraternità che deve regnare nella comunità cristiana.

La parabola di Gesù che oggi la liturgia ci regala, vuole mettere in luce proprio questa dinamica di verità sul cuore dell'uomo: il servo è condannato perché tiene il perdono per sé, perché la sua vita non è stata trasformata da quell'amore ricevuto gratuitamente.

Il testo della parabola sottolinea fortemente la sproporzione tra i due debiti. Il primo servo si trova a dover trattare su una cifra pari a diecimila talenti. L'ammontare del debito è volutamente esagerato: il valore di un talento variava tra ventisei e trentasei chilogrammi d'oro, cioè la paga di un operaio per seimila giornate di lavoro, pari a diciassette anni di retribuzione. Quindi diecimila talenti equivalgono a centosessantaquattromilatrecentottantaquattro anni di lavoro! Questa è la somma che il re condona al suo servo, andando ben oltre la richiesta di dilazione del pagamento del debito che gli era stata fatta.

Il contrasto che Matteo sottolinea è in riferimento alla somma che il secondo servo deve al primo: cento denari, più o meno tre mesi di lavoro. Niente a confronto del condono precedente, eppure il primo servo non vuole sentir ragioni e fa rinchiudere in prigione il suo collega.

Qui sta il contrasto che ci deve mettere a nudo. Il condono esagerato del re sembra non aver introdotto nessuna novità nella vita del servo, eppure c'è una sproporzione esagerata tra il dono ricevuto e quello richiesto.

Coraggio, cari amici, lasciamo che la nostra vita sia il luogo della verità del perdono e dell'amore incondizionato ricevuto da Dio. Le nostre relazioni trabocchino di speranza per chi nella vita non ha conosciuto il brivido rovente del perdono. La nostra vita sia l'annuncio profetico di una grazia off-limits che precede e supera ogni umana attesa.

Testo di don Roberto Seregni


 

Liturgia della XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A): 11 settembre 2011

Liturgia della Parola della XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A): 11 settembre 2011)