Passiamo all'altra riva
News del 20/06/2009 Torna all'elenco delle news
Questo comando di Gesù ai discepoli, che apre la narrazione evangelica (Mc 4, 35-41) della dodicesima domenica del tempo ordinario, mi pare debba essere sentito da ognuno di noi in questo tempo particolare. Si dice spesso che siamo in un momento di transizione. Ed è vero. Non per questo però si allontana il rischio che il passaggio sia solo apparente, per cui dopo tanto girare si torni alla riva di sempre, senza essere approdati realmente all'altra riva.
Il comando del Signore è chiaro: bisogna "passare all'altra riva". E si tratta, secondo la narrazione evangelica, di una traversata niente affatto facile. Sembra, anzitutto, che venga effettuata di sera (lo fa pensare il sonno di Gesù). C'è una analogia ai nostri giorni; qualcuno parla di nebbia, di difficoltà nel vedere la rotta, di caduta di orizzonti ideali. Una cosa però è certa: il comando evangelico di passare all'altra riva.
I discepoli obbediscono: lasciano la folla, si dirigono verso la barca e prendono con loro il Signore. Non è possibile intraprendere il viaggio imbarcando tutti (la folla), ossia la pesantezza del passato, le abitudini di ieri, uno stile ormai obsoleto. La cosa più importante è prendere con sé il Signore, fare spazio per lui, lasciare che si trovi a suo agio tra noi (anche questo può significare il sonno di Gesù). Potrebbe sembrarci riduttivo, poco efficace, inincidente nella concretezza delle cose. È, in fondo, il rimprovero che Gesù stesso farà alla fine del racconto ai discepoli: "non avete ancora fede?". Essi si renderanno conto man mano della indispensabilità di avere con sé il Signore.
Mentre la barca prende il largo si scatena una tempesta; un fenomeno frequente nel lago di Genezaret posto tra due catene montuose. I pescatori, in genere, fanno appena in tempo ad accorgersi della furia del vento che già l'imbarcazione è in balía delle onde. La scena accennata dall'evangelista è emblematica. La barca è sballottata nella tempesta e Gesù dorme; gli apostoli si preoccupano sempre più e la loro paura cresce, mentre Gesù continua a dormire tranquillo. Un atteggiamento che appare quantomeno sconcertante ai discepoli. Sembra che a Gesù non importi nulla di loro, della loro vita, delle loro famiglie. Lo spavento cresce sempre più sino a che i discepoli svegliano Gesù e lo rimproverano: "non t'importa nulla che moriamo?".
È un grido di disperazione, ma possiamo leggerci anche la fiducia in quel maestro; ha un sapore forse un po' rozzo, ma contiene una speranza. Anche la nostra preghiera talvolta è simile ad un grido di disperazione teso a svegliare il Signore.
Quanti di noi sono colti dalla tempesta e non hanno altro a cui aggrapparsi se non il grido di aiuto, mentre sembra che il Signore dorma? Quel grido è vicino a tante situazioni umane, talora a popoli interi provati sino alla morte. Il sonno di Gesù può significare il trovarsi a suo agio tra i discepoli in quella traversata, ma certamente indica la sua piena fiducia nel Padre: sa che non lo abbandonerà. Prendere con noi il Signore vuol dire imbarcare la sua fiducia e il suo potere.
Al nostro grido si sveglia, si alza ritto sulla barca, e minaccia il vento e il mare in tempesta. Subito il vento tace e si fa bonaccia. Dio ha vinto le potenze ostili che non permettevano la traversata (a tale proposito va notato che nell'Antico Testamento. la creazione viene descritta come un combattimento di Dio contro il mare, rappresentato come un mostro).
L'episodio si chiude con una notazione singolare. I discepoli furono presi da una grande paura, e si dicevano l'un l'altro: "chi è dunque costui?". Il testo di Marco parla di paura più che di stupore. Ed è una paura più grande di quella che avevano sentito poco prima per la tempesta: non si identifica con l'angoscia, ma può accompagnarsi ad una completa fiducia nel Signore. Questa seconda paura non solo non è meno forte della precedente, ha dei caratteri incisivi, che giungono fin nel profondo dello spirito. Potremmo dire che qui si tratta del santo timore di stare alla presenza di Dio: il timore di chi si sente piccolo e povero di fronte al salvatore della vita; il timore di chi, debole e peccatore, viene comunque accolto da colui che egli ha offeso e che lo supera nell'amore; il timore di non disperdere l'unico vero tesoro di amore che abbiamo ricevuto; il timore di non saper profittare della vicinanza di Dio nella nostra vita di ogni giorno.
Sentire nel proprio intimo questo santo timore significa, forse, aver iniziato a toccare quell'altra riva a cui il Signore ci vuole condurre.
Testo di Mons. Vincenzo Paglia
Perché siete così paurosi?
La spiegazione della paura, di questo essere sempre all'erta, come sentinelle pronte a contrastare ciò che potrebbe farci sprofondare nel timore, è nella nostra natura debole, nella nostra fragilità.
In altre parole sempre dobbiamo lasciare la certezza, in quelli che avviciniamo, che il nostro 'essere vicini' non è solo 'un modo di dire', ma è vivere la parte del buon samaritano che sa fermarsi e almeno lasciare, in chi è in difficoltà e soffre, la sensazione che non è solo, ma c'è qualcuno che si impegna a condividere il suo sforzo per ritornare alla serenità.
Quanti miracoli si possono compiere in questo senso. Ma è necessario voler 'spendere' la propria serenità. Quelli che sanno di essere in compagnia di Gesù non si fermano nelle difficoltà. Sanno che la natura umana è fragile in tutti i sensi, ma con noi, 'sulla nostra barca, in un lago - la vita - che alterna momenti di calma a furiose tempeste, c'è sempre Dio, che a volte sembra solo 'indifferente' a tutto, 'dormendo a poppa su un cuscino'...
Quello che racconta oggi il Vangelo di Marco, è un brano di vita umana di sempre. Il richiamo di Gesù, a chi è nella bufera o nella paura, è per tutti: Non avete ancora fede?
E’ bello leggere la riflessione che Paolo VI fa su Gesù che affronta la sofferenza, che era il prezzo da pagare per la nostra salvezza:
"Un aspetto di chiara evidenza è la pazienza: Gesù nella sofferenza non si lascia sfuggire alcun lamento; nella sofferenza tace. Gesù interiormente resta invulnerabile: non si lascia schiacciare dalle umiliazioni e dalle sofferenze. É il segreto del silenzio di Gesù. Con il silenzio ha difeso la sua cella interiore proprio colui che è definito la Parola. Si vede la sorgente e l'interiorità del suo dolore. Gesù non lo sciupa. Gesù lo accumula, lo attrae, lo gusta fino alla fine e parla più con se stesso che con gli altri, fino a che un gemito, l'unico, qualcosa di assoluto ed estremo, inconcepibile, viene strappato dalle sue labbra: 'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'.
Devono essere state parole impressionanti se l'evangelista le ha voluto conservare nel linguaggio originario, nel quale Gesù si era espresso sulla croce. Gesù in quel momento sente lo strazio della sua abiezione interiore; sente che le sue due nature, umana e divina, sono lacerate interiormente. Perché Gesù soffre così? Quale lezione viene da questa estrema sofferenza?
La meditazione di questa sofferenza ci insegna la difficile arte del saper soffrire, di rendere meritevole la nostra sofferenza. Che grande cosa!".
Il dolore a volte ci fa diventare egoisti, strappa lamenti, ci rende cattivi. Gesù invece nella sua estrema sofferenza ha avuto cuore, tanto cuore per noi. Ed era il grande prezzo del dolore per conoscere la vera felicità, se si ha fede.
In un mondo di sofferenze come il nostro, forse non sappiamo fare del dolore la strada verso la serenità e la felicità, anzi rischiamo di trasformare le sofferenze, le disgrazie o le tante calamità, in un tempo di tenebre. Ma non è così.
Mi pare giusto fare nostra la preghiera del Salmo 131:
“Signore, il mio cuore non ha pretese,
non è superbo il mio sguardo,
non desidero cose grandi, superiori alle mie forze:
io resto tranquillo e sereno.
Come un bimbo in braccio a sua madre,
è quieto il mio cuore dentro di me”.
Testo di Mons. Antonio Riboldi
Testo di don Roberto Rossi: Non avere paura: Io sono con te!
Testo di padre Antonio Rungi: Con Cristo ogni tempesta è superata
Liturgia e commento a cura di Enzo Petrolino, diacono