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Processione del Corpus Domini da una Miniatura dei codici liturgici di S. Maria del Fiore, XV sec., Biblioteca Laurenziana, Firenze

Processione cittadina di Reggio Calabria

Arrivo in Piazza Duomo

La Mensa all'ingresso della Cattedrale

Ostensione del Santissimo Sacramento da parte di S. E. l'Arcivescovo Mons. Vittorio Mondello

26 giugno 2011: Solennità del Corpus Domini

News del 25/06/2011 Torna all'elenco delle news

La festa tuttora più nota con l'antico nome di "Corpus Domini" punta l'attenzione su un aspetto centrale della fede e della vita cristiana, il sacramento dell'Eucaristia, istituito da Gesù nel corso dell'Ultima Cena e da allora, su suo comando, celebrato di continuo con la Messa.
Sacramento vitale, perché attraverso di esso il Salvatore rinnova l'efficacia del suo sacrificio: è il modo da lui ideato per far giungere i benefici della sua morte e risurrezione a quanti li vogliono accogliere, in ogni tempo e luogo. Sacramento confortante, perché adempie la promessa di Gesù che abbiamo sentito nel vangelo di qualche domenica fa: "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo".
Sacramento basilare, perché realizza nel concreto la sua Chiesa (lo ricorda oggi la lettera di Paolo ai Romani: "Noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane").

Il vangelo odierno (Giovanni 6,51-58) è parte del discorso sull'Eucaristia, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno". Parlando a persone che conoscevano bene la storia del proprio popolo, in quell'occasione Gesù ha poi confrontato il dono di sé con un altro dono divino: "Colui che mangia me, vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono". Il riferimento è alla manna, di cui si nutrirono nel deserto gli ebrei fuggiti dalla schiavitù dell'Egitto: un provvidenziale intervento di Dio, ma un cibo materiale, destinato semplicemente alla sopravvivenza del corpo; Gesù ne fa un segno premonitore di quanto egli avrebbe poi istituito.
Di segni prefiguranti l'Eucaristia se ne riscontrano altri, nell'Antico Testamento. Un singolare ciclo figurativo, che si può ammirare nella cattedrale di Mantova entro la cappella del Santissimo Sacramento, ne individua sette.
Il primo presenta la cena pasquale degli ebrei in Egitto (Esodo 12,1-11): prima di lasciare la terra di schiavitù, in ogni famiglia essi hanno mangiato in fretta l'agnello, il cui sangue li ha preservati dalla morte. Da allora gli ebrei celebrano la Pasqua, cioè ricordano quei lontani eventi, con una cena familiare; l'ha fatto anche Gesù alla vigilia della sua passione, introducendo però in quell'Ultima Cena la variante che è poi l'Eucaristia. "Prese il pane e lo diede ai discepoli, dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo sacrificato per voi… Fate questo in memoria di me".
La seconda scena del duomo illustra il ricordato episodio della manna (Esodo 16,4-15). La terza presenta l'Arca dell'alleanza (Esodo 25,10-21), considerata dagli ebrei il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: preannuncio della divina Presenza che si realizza appunto con l'Eucaristia. La quarta scena raffigura l'altare dei sacrifici che si offrivano a Dio nel tempio di Gerusalemme (Esodo 30,38-41), ora non più necessari dopo che Gesù ha offerto se stesso come unico perfetto sacrificio. La quinta presenta il tavolo su cui nell'antico tempio si ponevano dodici pani, segno delle dodici tribù componenti il popolo d'Israele (Levitico 24,5-8): è facile vedervi il Pane eucaristico, che unifica il nuovo popolo di Dio. La sesta richiama il profeta Elia quando, nel suo cammino verso il monte di Dio, è stato sostentato dal pane mandato dal cielo (1Re 19,1-8): i cristiani trovano nel Pane eucaristico il sostegno nel cammino della vita che li porta a Dio. Analogo significato ha la settima scena, con l'episodio di Davide che non esita a nutrirsi dei pani del tempio (1Samuele 21,1-7).
Sette scene, sette preannunci: l'Eucaristia non è frutto di improvvisazione, e la sua lunga preparazione ne dice l'importanza. 
 
Testo di mons. Roberto Brunelli 


La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda

La festa del Corpus Domini esprime l'antico e radicato amore per l'Eucaristia, per il corpo e il sangue del Signore. L'apostolo Paolo scrive ai Corinzi: "Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo che è per voi. Allo stesso modo prese anche un calice e disse: Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo in memoria di me". Il Signore stesso esorta i discepoli di ogni tempo a ripetere in sua memoria quella santa cena. L'apostolo aggiunge: "Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga". Non è un'altra cena che si ripete, magari stancamente come tante volte noi rischiamo di fare. L'Eucaristia che celebriamo è sempre la Pasqua che Gesù ha celebrato. È questa la grazia dell'Eucaristia: essere partecipi dell'unica Pasqua del Signore.
La Chiesa custodisce la concretezza delle parole di Gesù e venera in quel pane e in quel vino il suo corpo e il suo sangue, perché ancora oggi lo si possa incontrare. Potremmo aggiungere che in quel pane e in quel vino non c'è il Signore presente in qualsiasi modo, vi è presente come corpo "spezzato" e come sangue "versato", ossia come colui che passa tra gli uomini non conservando se stesso, ma donando tutta la sua vita, sino alla morte in croce, sino a quando dal suo cuore non uscì "sangue ed acqua". Non risparmiò nulla di se stesso. Nulla trattenne per sé, sino alla fine. Quel corpo spezzato e quel sangue versato sono di scandalo per ognuno di noi e per il mondo, abituati come siamo a vivere per noi stessi e a trattenere il più possibile della nostra vita. Il pane e il vino, che più volte durante la santa liturgia ci vengono mostrati, contrastano con l'amore per noi stessi, con l'attenzione scrupolosa che abbiamo per il nostro corpo, con la meticolosa cura che poniamo per risparmiarci e per evitare impegni e fatica. Tuttavia, essi ci vengono donati e continuano ad essere spezzati e versati per noi, perché siamo liberati dalle nostre schiavitù, perché sia trasformata la nostra durezza, sgretolata la nostra avarizia, intaccato l'amore per noi stessi. Il pane e il vino, mentre ci strappano da un mondo ripiegato in se stesso e condannato alla solitudine, ci raccolgono assieme e ci trasformano nell'unico corpo di Cristo.
L'apostolo Paolo, riconoscendo la ricchezza di questo mistero al quale partecipiamo, con severità ammonisce di accostarsi con timore e tremore perché: "Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice" (1 Cor 11,28). Ma dopo questo esame chi mai di noi può avvicinarsi? Sappiamo bene quanto siamo deboli e peccatori, come cantiamo nel Salmo: "Riconosco la mia colpa e il mio peccato mi sta sempre dinanzi" (Sal 50,5). Ma la liturgia ci viene incontro e mette sulle nostre labbra le parole del centurione: "O Signore, non sono degno di sedere alla tua mensa, ma di' soltanto una parola ed io sarò salvato". Di' soltanto una parola: è la Parola del Signore che invita ad accostarsi e che rende degni, perché è una parola che perdona e guarisce. Alla tavola del Signore si giunge dopo l'ascolto della Parola, dopo che il cuore è stato da essa purificato e riscaldato. C'è allora come una continuità tra il pane della Parola e il pane dell'Eucaristia. È come un'unica mensa in cui il nutrimento è sempre lo stesso: il Signore Gesù, fattosi cibo per tutti. 

Testo di mons. Vincenzo Paglia 


Come può costui darci la sua carne da mangiare?

Prima di iniziare la lunga serie delle domeniche del tempo ordinario, la Liturgia ci offre una sosta per celebrare la Solennità del "Ss.mo Corpo e Sangue di Cristo". Nel Medio Evo un vasto movimento di devozione popolare ha preceduto l'istituzione della festa del Ss.mo Sacramento del Corpo e del Sangue del Signore. Ciò che ha condotto il Papa Urbano IV nel 1264 ad istituire ufficialmente una festa che in realtà è una ripetizione del giovedì santo, fu il miracolo di Bolsena che egli stesso era andato a verificare un anno prima. Il sacerdote Pietro, di Praga, pur essendo molto religioso, aveva iniziato ad avere grandi dubbi sulla presenza reale di Cristo nella Eucaristia. Mentre celebrava, cominciarono a cadere dall'ostia delle gocce di sangue che condussero questo sacerdote a ritrovare il senso spirituale dell'Eucaristia, Sacramento del Corpo e del sangue del Signore. L'istituzione di questa festa che solo dopo qualche anno è passata nella vita della Chiesa, nell'intenzione del Papa aveva come scopo di rinnovare la fede del popolo cristiano nell'Eucaristia, arricchendone la comprensione teologica e purificandola da alcuni eccessi devozionali: proprio per questo fu affidata al grande teologo Tommaso d'Aquino la composizione dei testi liturgici. In questo senso la solennità che celebriamo ha un interesse particolare per noi, oggi: anche il nostro tempo è caratterizzato, se osserviamo attentamente, da un groviglio di devozioni, di riflessioni intellettuali molto elevate, di banalizzazioni e di dubbi che riguardano l'Eucaristia. La vita cristiana rischia talvolta di avere un rapporto solo devozionale e anche ambiguo con il Sacramento che crediamo "fonte e vertice della vita della Chiesa".
La Liturgia ci fa leggere in questa festa, un piccolo brano del lungo cap.6 del Vangelo di Giovanni, sul "pane di vita".
"Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". Gli esegeti ritengono che in questo discorso, Gesù, facendo ripercorrere ai suoi discepoli l'esperienza del cammino del deserto stia proponendo a loro il passaggio dall'accoglienza della Torah, la Legge di Dio donata al suo popolo, alla fede in Lui come incarnazione della Parola di Dio. Il profeta Ezechiele, narrando la sua vocazione, parla del comando ricevuto da Dio: "Figlio dell'uomo, ascolta e non essere ribelle. Apri la bocca e mangia ciò che io ti do. mangia e poi va' e parla alla casa di Israele" (Ez.2,10 ss.). Adesso Gesù ai suoi discepoli presenta se stesso come Parola di Dio incarnata, da mangiare, e una volta assimilata da portare al mondo. A modo suo, il Vangelo di Giovanni presenta Gesù come il "compimento", in modo sorprendentemente inatteso, della Legge, come in altro modo fa il Vangelo di Matteo. Non possono non rimanere sconvolti, scandalizzati, i Giudei, ascoltando le parole di Gesù. "Allora i Giudei si misero a discutere aspramente tra loro. Come può costui darci la sua carne da mangiare?" Certamente la reazione dei Giudei, che sanno bene che le parole di Gesù non vanno interpretate in senso materiale, dipende dalla sconvolgente novità con cui Gesù si presenta. La relazione con Dio finora fondata sulla accoglienza e l'osservanza della Legge, se pure secondo l'insegnamento del Deuteronomio (e pure di Ezechiele 3,10) accolta nel cuore, si realizza ora con la relazione personale con Lui, Gesù, il pane vivo: se Gesù è il "pane vivo", l'incontro con Lui che realizza la relazione con Dio, non può non tradursi nel "mangiare di questo pane. "In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita". E così, i versetti 52-59 che la Liturgia ci fa leggere oggi, parlano, nel modo proprio del Vangelo di Giovanni, del sacramento dell'Eucaristia, nel contesto del racconto di un'ultima Cena di Gesù con i discepoli nella quale, a differenza di quanto fanno i sinottici, non è narrata l'istituzione dell'Eucaristia, ma la lavanda dei piedi. Così Giovanni, più che alla memoria rituale dell'Eucaristia, sembra orientare l'attenzione dei discepoli al significato essenziale della dimensione eucaristica della fede.
La novità della relazione con Dio che Gesù offre ai suoi discepoli, non consiste solamente nell'entrare in una comunione intellettuale con Lui, o nell'adesione alle sue idee. Dice Gesù: "Come il Padre che ha la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me, vivrà per me". Solo questo ci fa comprendere a quale comunione Gesù chiama i suoi discepoli: Gesù è l'uomo che vive della vita del Padre, è il Figlio di Dio, è l'uomo nel quale Dio ha preso carne. Ai suoi discepoli Gesù chiede di accettare la vita di Dio che egli vuole donare. Dio comunica la sua vita in una relazione che non è soltanto intellettuale o spirituale, ma in una relazione che implica tutto ciò che costituisce la persona, tutto ciò che costituisce il cuore dell'esistenza, delle relazioni, delle attività più vitali: tutto ciò che è rappresentato dal "mangiare e bere". Quando Giovanni parla della "fede in Gesù" ("credete in me") intende una adesione a Lui con tutto il nostro essere, tutta la nostra esperienza. La fede esprime il desiderio di tutto il nostro corpo, di tutta la nostra esistenza, dei nostri sensi e del nostro spirito. Per questo non sono le nostre parole o le nostre azioni che esprimono la nostra fede in un Dio che dona la vita, la sua vita: è tutto il nostro corpo, il nostro volto, i nostri desideri, la nostra fame e la nostra sete.
"Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Chi mangia me vivrà per me". Questa esperienza di Dio che si dona così intimamente a noi, fa sì che il nostro corpo ne sia colmato e la nostra vita diventi irradiazione della grazia che ha ricevuto: e noi comunichiamo al mondo la vita ricevuta da Dio. Il mistero della fede che nella concretezza dell'esperienza eucaristica viviamo, ci fa entrare in comunione con la Carne e il Sangue di Cristo, il Figlio di Dio, perché per noi si compia la rigenerazione di tutto il nostro essere: cominciamo a vivere la vita di Dio e, insieme con tutto il creato, liberato dalla corruzione del peccato e della morte, cominciamo a gustare la gloria e lo splendore di un Amore che non ha più termine. 

Testo di mons. Gianfranco Poma


Nella fragilità di Dio il segreto della vita

Una parola scorre sotto tutte le parole di Gesù, come una corrente sotterranea, una nervatura delle pagine: «vita». Che hai a che fare con me, o carne e san­gue di Cristo? La risposta è una pre­tesa perfino eccessiva, perfino sconcertante: io faccio vivere! In­calzante certezza da parte di Gesù di possedere qualcosa che inverte il corso della vita, orientandola non più alla morte ma all'eternità.
La sorpresa è che Gesù non dice: «Prendete di me la mia sapienza». Non dice: «Bevete la mia innocen­za, mangiate la santità, la divinità, il sublime che è in me, la giustizia assoluta, la potenza illimitata». Di­ce invece: «Prendete la fragilità, la debolezza, la precarietà, il dolore, l'intensità di questa mia vita». Il mio Dio è così, conosce i senti­menti, sa la paura e il desiderio, ha pianto, ha gridato i suoi perché al cielo, è stato rifiutato dalla terra. Per questa sua fragilità è il Dio per l'uomo, con il suo dolore è il Dio per la vita mia fatta di germogli a­mari.
Quasi un Dio minore, ma è solo così che diventa il «mio» Dio. Non si può giungere alla divinità di Cristo se non passando per la sua umanità, carne e sangue, corpo in cui è detto il cuore, mani che im­pastano polvere e saliva sugli oc­chi del cieco, lacrime per l'amico, passioni e abbracci, i piedi intrisi di nardo, la casa che si riempie di pro­fumo e di amicizia, e la croce di sangue.
I verbi ripetuti quasi in una incan­tatoria monotonia – mangiare, be­re – sono innanzitutto il linguaggio della liturgia del vivere, di una Eu­caristia esistenziale, della comu­nione totale con Cristo. «Nella co­munione il cuore assorbe il Signo­re e il Signore assorbe il cuore, co­sì i due diventano una cosa sola» (Giovanni Crisostomo). E tu sei fat­to vangelo. E se sei fatto vangelo senti la certezza che l'amore è più vero dell'egoismo, la pietà più u­mana del potere, il dono più divi­no dell'accumulo.
Io mangio e bevo il mio Signore, quando assimilo il nocciolo vivo e appassionato della esistenza di Ge­sù e mi innesto sul suo tronco che è il suo modo di vivere. Chi fa pro­prio il segreto di Cristo, costui tro­va il segreto della vita. A questo mi conduce l'Eucaristia domenicale, dove il sublime confina con il quo­tidiano, l'infinito con il perimetro fragile del pane e del vino, là Dio è vicino a me che temo la solitudine e il dolore. Se solo lo accolgo, tro­vo il segreto della vita. 

Testo di padre Ermes Ronchi 
 

Liturgia della Solennità del Corpus Domini (Anno A): 26 giugno 2011

Liturgia della Parola della Solennità del Corpus Domini (Anno A): 26 giugno 2011