IV Domenica di Pasqua del Buon Pastore: Io sono venuto perché abbiano la vita

News del 14/05/2011 Torna all'elenco delle news

Dopo aver rinnovato l'annuncio: "Non cercate tra i morti Colui che è vivo. Non è qui: è risorto", la Liturgia del tempo pasquale continua a farci rivivere l'incontro personale con il Cristo vivo e a presentarci l'esistenza cristiana come l'esperienza di relazione con Lui, all'interno di una comunione di persone che vivono di Lui.
Il Vangelo di Giovanni termina dicendo: "Queste cose sono state scritte perché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Giov.20,31).
Dunque l'autore si rivolge ai suoi lettori, oggi a noi, perché "crediamo": la fede a cui Giovanni invita non è tanto il primo atto di fede, la decisione di credere, quanto piuttosto "l'esperienza della fede", è la percezione di una comprensione nuova della realtà.
Credere significa vedere, ascoltare, toccare la carne di Gesù e sperimentare il Figlio di Dio, vedere la croce e percepire la Gloria, vedere il pane e sentire l'Amore della sua vita che si dona.
Credere per Giovanni significa sperimentare la Parola di Dio che si è fatta carne perché noi sperimentiamo la Gloria: così tutta la realtà è "simbolica" nel senso che essa ha un senso che si autotrascende.
La fede è la percezione divina della realtà: Gesù è la via che ci guida alla esperienza vera della vita. Per questo il Vangelo conclude: "perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome". La fede è la esperienza dell'incontro con Gesù, il Figlio di Dio che ci conduce a percorrere con Lui il cammino della vita e a sperimentare che, pur dentro la fragilità della storia, essa ha una intensità inesauribile tanto da essere già vita "eterna".
Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo di Cristo risorto: Lui risorto ci incontra e ci introduce nella sua vita divina. La vita del credente è la vita del discepolo che "Gesù ama", ne gusta l'amore, ne percepisce i segni e risponde con il proprio amore all'amore di Gesù. La vita del credente è in realtà la vita dell' "amante": il discepolo è colui che "crede l'amore".
Il Vangelo di Giovanni, rivelazione di un Dio che ama fino al dono del proprio Figlio, è allo stesso tempo un Vangelo soffuso di una profonda amarezza: Gesù per tutta la sua vita ha sperimentato l'avversione da parte di coloro che preferiscono la tenebra alla luce, che non credono l'Amore e che lo hanno crocifisso. Ma Gesù è risorto: l'Amore vince l'odio, la fede vince il mondo. E questa è la storia che continua: la fede si fa strada dentro l'incredulità che rimane nel mondo e pure nella comunità dei discepoli che è pur sempre immersa nel mondo e nella storia.
In questo contesto possiamo comprendere il brano del Vangelo di Giovanni (10,1-10) che leggiamo nella Liturgia della domenica IV di Pasqua. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive i primi passi della vita della comunità cristiana: una comunità composita ha bisogno di darsi una struttura, la persecuzione spinge gli ellenisti a fuggire da Gerusalemme e a cominciare una missione presso i samaritani. Nella Chiesa primitiva si sono sviluppate progressivamente strutture di autorità: i cristiani ellenisti scelgono amministratori locali mentre Giacomo e gli anziani sono descritti come capi della comunità cristiana degli Ebrei; Paolo per le sue comunità indica diversi tipi di autorità. Leggere Giovanni in questo contesto significa comprendere l'urgenza di porre attenzione ai pericoli inerenti a queste strutture: coloro ai quali viene attribuita l'autorità nella Chiesa, tendono a prendere importanza eccessiva agli occhi di coloro per i quali dovrebbero essere i "servi". E questo avviene perché la loro presenza è senza mediazioni e spesso si pensa che attraverso ciò che essi fanno si raggiunge Gesù. Il cap.10 di Giovanni è una splendida e forte meditazione sul senso dell'autorità nella comunità ecclesiale. Per Giovanni è di assoluta importanza non dimenticare lapresenza nella Chiesa di Gesù, il risorto, che solo può donare la vita di Dio. Verso la fine del sec.I, quando l'appellativo di "pastori" era largamente diffuso per i responsabili delle Chiese, l'insistenza di Giovanni sul fatto che Gesù è il solo pastore buono e che tutti gli altri sono ladri e mentitori, rappresenta una precisa sfida: le pecore devono ascoltare solo il pastore divino. Certo nel contesto storico di Giovanni queste parole sono rivolte anzitutto ai capi delle sinagoghe, ma inevitabilmente hanno nella comunità cristiana una ricaduta che qualifica il ruolo dell'autorità ecclesiale. E per Giovanni, non si tratta di una questione astratta: la passione che traspare dalle sue parole, rivela quanto sia forte il rischio di dimenticare la insostituibile presenza di Gesù, vivo, a favore di autorità che invece farebbero scadere la comunità cristiana a livello di qualsiasi altra organizzazione umana.
Comincia dunque a parlare dell' "ingresso" nell'autorità ecclesiale: non si entra attraverso la via di interessi personali ma attraverso "la porta" tipicamente ecclesiale che è la "comunione". L'autorità ecclesiale è esercizio di comunione: proprio la comunione è la fonte che la genera ed è il servizio reso alla comunione di persone che si conoscono, si stimano, si promuovono, che la mantiene nella sua reale efficienza.
Il Vangelo sottolinea che coloro ai quali Gesù parlava "non capirono di che cosa stava parlando", proclamando così, con estrema chiarezza, la radicale novità dell'autorità ecclesiale generata dall'Amore, in rapporto all'autorità normalmente interpretata come "potere" a vantaggio di interessi particolari.
Il Vangelo continua quindi chiarendo la natura dell'autorità ecclesiale: "In verità, in verità io vi dico: Io sono la porta…" Attraverso queste parole solenni, Gesù comincia a rivelare il mistero della sua presenza nella Chiesa: è la presenza inaugurata dalla sua risurrezione, dal suo passaggio da questo mondo al Padre attraverso un Amore che ha raggiunto il suo compimento nella Croce. E' il suo Amore che apre la via per una relazione nuova con il Padre, fatta di libertà filiale, fatta di una impensabile ricchezza di doni: la pace, la gioia, il perdono…L'autorità nella Chiesa ha senso, di conseguenza solo come autorità "sacramentale", trasparenza di Lui e segno della sua prsenza, autorità che nasce dalla gratuità di una grazia che vuole solo essere accolta e continuamente ridonata.
L'ultima frase è ancora una parola appassionata: "Il ladro viene per rubare, uccidere e distruggere: io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza". L'autorità ecclesiale è la continua visibilità della presenza di Cristo risorto nella storia: è tale solo se è libera da ogni pretesa di possesso, se è servizio alla libertà di ogni persona che appassionatamente ama la vita.
Testo di mons. Gianfranco Poma (Io sono venuto perché abbiano la vita)
 

Una vita esuberante

In una piccola parola è sintetizzato ciò che rende inconciliabili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Unica è la vocazione di tutte le creature: avere la vita in pienezza. Unico il progetto di Dio: che l'uomo diventi Figlio, e viva di vita divina. Unica la condizione: avere desiderio di essa. E ascoltare quella voce che chiama le sue pecore una per una, per nome, quel Gesù per cui non esiste la massa, e ciascuno ha volto e nome.

La parola «vita» è un filo che lega insieme tutta la Scrittura; con essa il serpente seduce Eva: non morirete, anzi avrete vita come quella di Dio; è la supplica dei Salmi: fa' che io viva! Salva la mia vita! Fammi camminare sui campi della vita! Giona si adira con Dio perché non è come un ladro che ruba, uccide, distrugge Ninive ma è come un pastore di vita abbondante per i centoventimila della città che non sanno distinguere la destra dalla sinistra. Il primo, il principale di tutti i comandamenti dice: scegli la vita. Tutta la legge di Mosè è introdotta da questo: «Hai davanti a te la vita e la morte. Scegli!» E dice, supplica, ti prega: scegli la vita! Vita è tutto ciò che possiamo pensare per riempire questo suono, tutto ciò che possiamo desiderare. Vita è respiro, forza, salute, amore, relazioni, gioia, libertà, parola che tracima, che cambia il desiderio e le mete, che deborda nelle terre di Dio.

La storia del mondo altro non è che un pellegrinaggio verso la vita, la vita abbondante che Gesù descrive così, come una porta (io sono la porta) che si apre sulla terra dell'amore leale, più forte della morte (chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni (potrà entrare e uscire), dove si placa tutta la fame e la sete della storia (troverà pascolo). Gesù Cristo è e da' la vita, ma la vita in abbondanza. Definitiva, eterna. Non solo la vita necessaria, non solo l'indispensabile, bella quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva, bella, uno scialo di vita, un centuplo. Manna per quarant'anni nel deserto, pane per cinquemila, anfore riempite fino all'orlo, acqua trasformata nel vino migliore, pelle di primavera per il lebbroso, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli, vaso di nardo prezioso e casa riempita di profumo.

Come ogni amore che se non è eccessivo, non è amore. «Il Regno verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci). Dio non vuole rispondere ai tuoi bisogni essenziali, questo lo faranno altri, ma vuole far fiorire tutte le tue potenzialità. Ti dona molto più di quanto è necessario per sopravvivere, dona eternità a tutto ciò che di più bello porti nel cuore.
 
Dio, pastore di libertà e di futuro

Cristo, venuto dal Pa­dre come intenzione di bene, pastore di vi­ta abbondante, venuto per­ché ciascuno sia nella vita datore di vita, è indicato da Giovanni con le seguenti ca­ratteristiche: conosce le sue pecore e chiama ciascuna per nome. Il Signore pro­nuncia il mio nome, pro­nuncia la mia verità, il mio tutto; egli «entra e conosce», è capace cioè di capire e ac­cogliere le emozioni e i sen­timenti. Sulla sua bocca il mio nome dice intimità, e mi avvolge come un ab­braccio. Mi chiama con il nudo nome, senza evocare nessun ruolo, o autorità, o funzione, o attributo, nel ri­conoscimento della mia u­manità profonda, della mia più pura umanità. Tanto più sarai vicino a Dio quanto più sprofonderai nel tuo essere uomo. Senza aggettivi.
E le conduce fuori: non è il Dio dei recinti, ma degli spa­zi aperti. È pastore di libertà, che non rinchiude per pau­ra, ma ha fiducia in ciò che è fuori, fiducia negli uomi­ni, nei suoi, nel mondo. Fi­ducia è la prima condizione perché vita ci sia.
Cammina davanti a esse. Non è un pastore di retro­guardie, apre cammini e in­venta strade, è davanti e non alle spalle. Non un pastore che pungola, incalza, rim­provera per farsi seguire, ma uno che precede: cammina attratto dal futuro e non dai rimpianti, seduce con il suo andare, affascina con il suo esempio. E le pecore ascol­tano la sua voce. Lo ricono­scono perché sono da lui ri­conosciute. Chi non ascol­ta, chi è sordo, rischia inve­ce di restare nei vecchi re­cinti, nelle vecchie paure, in greggi anonimi, in strade che sono non-strade. La pa­rola «assurdo» ha la stessa radice di «sordo». Entra nel­l'assurdo chi è sordo, chi non sa ascoltare. Esce dalla sor­dità e dall'assurdo chi ascol­ta la voce, che è prima an­cora di ogni parola, che dice con la sua sola vibrazione u­na relazione amorosa tra lui e me, un combaciare più ampio della comprensione. Io sono la porta. Non un mu­ro chiuso, non uno steccato che divide, Cristo è passag­gio, apertura, pasqua, brec­cia di luce, luogo attraverso cui vita entra e vita esce.
Cosa significa varcare quel­la soglia, varcare Cristo? È cambiare rotta, indirizzare la prora del cuore verso le cose che lui amava: futuro, libertà, coraggio; dimenti­carsi, dare tutto, con tutto il cuore; essere pastore di vita del mio piccolo gregge; es­sere soglia aperta, attraver­sata da molte vite.

Testi di
padre Ermes Ronchi

Liturgia della IV Domenica di Pasqua (Anno A): 15 maggio 2011

Liturgia della Parola della IV Domenica di Pasqua (Anno A):  15 maggio 2011