Conversione è: “riconoscere la nostra debolezza - a cura di don Nicola Casuscelli - IV di Quaresima, la domenica della gioia

News del 02/04/2011 Torna all'elenco delle news

“Il periodo quaresimale è momento favorevole
per riconoscere la nostra debolezza, …”

Benedetto XVI

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”.
Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». (Gv 9,1-41)

Quante volte la debolezza è sinonimo di sconfitta! È un discorso difficile da affrontare, soprattutto quando chi è nella sofferenza è totalmente assorbito da essa. Sinceramente mi vengono in mente molte storie diverse tra di loro, ma tutte accomunate dal dolore: in relazione alla salute, alla stima di sé, alle invidie per un giusto operato, ai propri peccati, alle proprie capacità, alle opinioni degli altri, alle persecuzioni di ogni genere, alle fughe per la libertà, alla perdita delle persone care. Tante storie accomunate da un comune denominatore che ha il nome di dolore. È la storia del cieco del vangelo, ma potrebbe essere la storia di ciascuno di noi. Chi fa esperienza della propria debolezza, a volte, vive anche la dimensione della emarginazione, si desidera altre volte stare da soli, qualche altra si cercano parole di conforto, e tante altre, e sono le più frequenti, si desidera (ma il pudore e la delicatezza non lo impongono) che chi è amato stia accanto per percepire il calore dell’amore, ed anche i silenzi diventano parole forti ed incoraggianti.
Nella debolezza si sperimenta la verità della solidarietà umana e cristiana ed il bisogno di essa.
Il concetto che abbiamo di forza implica per lo più lo stato di buona salute, psichica e fisica, l’affermazione nell’ambito sociale e lavorativo (che può essere il semplice lavoro o la cosiddetta carriera), una stima riconosciuta dagli altri, la supremazia. Ma siamo sicuri che la forza sta proprio in questo? Io personalmente credo di no. E non credo affatto che la debolezza o la fragilità siano le sconfitte che rendono amara la vita. Gesù ha “usato l’arma” della croce per vincere la cosa più orribile che esista: l’odio del peccato! Gesù attraverso la sua debolezza ha dimostrato all’umanità che confidare nell’amore puro, tutto rivolto al Padre, è quell’energia che vivifica. Quanti testimoni della fede ce lo dimostrano!
La vita non è tale in base allo stato di salute o alla scalata sociale per l’autoaffermazione, la vita è sempre vita e la sua dignità non diminuisce mai, se non quando la trattiamo barbaramente! Ecco allora che la debolezza umana può diventare una speciale occasione per permettere alla grazia di Dio di agire in me e compiere una vera e propria trasformazione di umanità. Sono fermamente convinto che il riconoscersi deboli è l’inizio dell’umiltà. Infatti, chi sa la sua fragilità chiede aiuto e vince la vergogna. La debolezza unisce e l’unione degli uomini deboli permette la loro forza.

La debolezza, allora, supportata dalla grazia divina diventa il campo di battaglia per la nostra adesione a Cristo.

San Paolo, rivolgendosi ai suoi cari amici di Corinto, scrive: “mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte1 (2Cor 12,10)”. Compiacersi delle proprie difficoltà? Sì, ma solo perché si conosce lo scopo di esse: per Cristo! Con quel “per” potremmo intendere molte cose, principalmente: “a causa “dell’amore per Cristo o anche “al fine” dell’amore per Cristo.
Chi ama conosce la sofferenza e non si lamenta di essa, ma compie un’azione veramente salvifica: la offre! Proprio l’offerta a Dio del proprio dolore è la pienezza dell’amore! Addirittura san Paolo dice: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Le debolezze, dunque, non sono sconfitte, ma la vita presa sul serio e fatta vivere. Addirittura san Paolo sembra un sadico, si vanta delle sue debolezze. Questo gigante della fede è anche tale nell’amore. Tutta la sua vita, dall’istante di quella speciale conversione, diventa un continuo crescere nell’amore di Dio, è un folle d’amore. “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Nella debolezza si fa esperienza della Croce e la Croce è il mezzo della purificazione e della perfezione della fede e dell’amore, della nostra umanità.
L’esperienza della croce può gettare nella disperazione o aprire ad una nuova vita. Quando alla croce è permesso alla grazia di Dio di avvicinarsi, questa la trasforma in strumento di salvezza. L’amore genera amore e diffonde pace e serenità attorno a sé. La croce permette di intuire il significato profondo della vita e diventa la possibilità di renderla più preziosa. Non la croce in sé (questa è morte e disperazione), ma con Cristo, insieme con lui per amore suo.
“Il periodo quaresimale è momento favorevole per riconoscere la nostra debolezza” (Benedetto XVI): “Quando sono debole, è allora che sono forte”. La debolezza favorisce anche l’incontro con la misericordia di Dio, che porta il debole all’appagamento solo nella grazia di Dio (“Ti basta la mia grazia!”).

Inoltre, la debolezza ha in se stessa un’enorme potenzialità di forza: chi si aggrappa a Dio riceve una forza non umana, ma divina che rende capaci di affrontare situazioni umanamente al limite, fino addirittura il martirio. Sempre per amore di Gesù, che ha dato la sua vita per me e posso ripagarlo con l’offerta delle mie paure, perché le trasformi, alla sua luce, in cammini per la speranza, delle mie preoccupazioni per l’avvenire mio e dei miei cari, perché le trasformi in occasioni di fiducia nella divina provvidenza, addirittura dei miei peccati perché, attraverso un fermo e perseverante proposito, permetta all’amore di Dio di compiere in me il miracolo della conversione per un amore sempre più forte e oblativo.
 

Nota
1 2 Cor 12,7-10: Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
 

Testo di don Nicola Casuscelli, Presidente della Commissione Diocesana per la Pastorale Liturgica - meditazione per la quarta domenica di Quaresima