Il Discorso della Montagna nel Vangelo di Matteo (cap. 5, 6, 7)
News del 28/02/2014 Torna all'elenco delle news
Nella storia del cristianesimo, il Vangelo di Matteo, è stato senz’altro il vangelo più popolare, più letto e commentato e, anche se quello di Marco è considerato il primo in origine cronologico, l’opera di Matteo rimane una presenza capitale all’interno della Chiesa, che la propone spesso nella liturgia e nella catechesi.
Nella composizione dei singoli vangeli, ogni evangelista ha una sua prospettiva, segue un suo progetto, disegna un suo ritratto della figura di Cristo, risponde alle esigenze della comunità cui indirizza il suo racconto. Per Matteo si pensa a destinatari di origine ebraica convertiti al cristianesimo, legati alle loro radici, ma spesso in tensione con gli ambienti da cui provenivano.
Si spiega, così, la ricchezza delle citazioni, delle allusioni e dei rimandi all’Antico Testamento nel vangelo di Matteo. In questa linea si può interpretare il rilievo dato ai primi cinque libri biblici - conosciuti come Pentateuco o Torah - che costituiscono la legge per eccellenza. Gli insegnamenti di Gesù sono raccolti in cinque grandi discorsi:
il primo ha come sfondo un monte - ed è perciò chiamato il Discorso della montagna (capitoli 5-7) - e può essere interpretato in riferimento al Sinai: Cristo non è venuto ad abolire la legge di Mosè ma a portarla a pienezza.
Il regno di Dio è il tema centrale della predicazione e dell’azione di Gesù. Nel secondo discorso, detto “missionario” (capitolo 10), il regno è annunziato, accolto e rifiutato. Nel terzo, il discorso in “parabole” (capitolo 13), il regno è descritto nella sua crescita lenta ma inarrestabile nella storia. Nel quarto discorso (capitolo 18) è la Chiesa - un argomento caro a Matteo - che diventa il segno del regno durante il cammino della storia, nell’attesa che esso giunga a pienezza nella salvezza finale (quinto discorso, “escatologico”, capitolo 24).
Questa struttura fondamentale (i 5 discorsi) è preceduta da due blocchi importanti: il vangelo dell’infanzia (cc. 1-2) e la presentazione di Gesù in pubblico: battesimo e tentazioni (cc. 3-4).
Questa è l’opera di Matteo: un grandioso abbozzo della storia di Cristo, della Chiesa e del regno.
Il discorso della Montagna (5, 1-7,29)
· Le beatitudini (5, 1-12)
Le beatitudini sono il cuore del messaggio di Gesù, per capirle bisogna lasciar parlare il testo. Innanzitutto Gesù sale sulla montagna e pronuncia il discorso circondato dai dodici e dalle folle: si tratta di una folla venuta da ogni dove, persino dalla decapoli e da oltre il Giordano. Il discorso, quindi, non è rivolto solo ai dodici o al popolo giudaico, ma a tutti.
Certo le beatitudini rimandano a Gesù. Ma quale significato egli vi attribuì? Pensiamo di riassumere il suo pensiero in tre affermazioni.
- Le beatitudini sono una proclamazione messianica, un annuncio che il Regno di Dio è arrivato. I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza. Per Gesù sono al presente: oggi i poveri sono beati.
- C’è un secondo aspetto: con le beatitudini Gesù non solo proclama che il tempo messianico è arrivato, ma proclama che il Regno è arrivato per tutti, che di fronte all’amore di Dio non ci sono i vicini e i lontani, non ci sono emarginati: anzi, coloro che noi abbiamo emarginato sono i primi.
- Infine va detto che Gesù non solo proclamò le beatitudini, ma le ha vissute. Ecco perché la proclamazione delle beatitudini, è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (4, 23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici. Ha cercato i poveri e li ha amati, preferiti. Egli fu povero, sofferente, affamato: eppure amato da Dio.
Sta qui il paradosso delle beatitudini: la vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del regno e perché – contrariamente alle valutazioni comuni – sono essi, i poveri, i crocifissi, che costituiscono la storia della salvezza.
Esse iniziano una rivoluzione morale che non ha ancora raggiunto la sua pienezza. Esse capovolgono tutti i valori convenzionali del mondo giudaico e romano-ellenistico e dichiarano beati coloro che non partecipano di quei valori. Vengono qui ripudiati non soltanto i valori esterni della ricchezza e della condizione sociale ma anche quei valori personali che sono ottenuti e difesi mediante l’auto-affermazione e la lotta. Le affermazioni generali delle beatitudini sono ampliati con esempi concreti del discorso.
· Il sale della terra e la luce del mondo (5, 13-16)
La funzione dei discepoli è illustrata dalle metafore casalinghe del sale in quanto condimento e dell’unica lampada che illuminava la casa di una sola stanza del contadino palestinese. Nella spiegazione, le due immagini (5,16) vengono riferite alle “opere buone” dei discepoli. Vivendo secondo l’insegnamento di Gesù, gli uomini manifesteranno la bontà del “loro padre che è nei cieli”. Questo probabilmente è il senso originale delle immagini. Nel testo di Mt la metafora è ampliata con la possibilità della perdita del sapore del sale e dell’occultamento della lampada sotto il moggio; chi non attuerà l’ideale di vita dei vangeli sarà ripudiato. La similitudine analoga della città posta sul monte, che non è spiegata, sembra sia un detto sapienziale popolare intrufolatosi nel contesto.
Nella cornice del discorso questi detti servono da introduzione al lungo brano successivo, in esso i discepoli vengono istruiti sul modo in cui essi possono diventare il sale della terra e la luce del mondo, e viene loro spiegato quali sono le opere buone attraverso le quali Dio è glorificato.
· La legge e il vangelo (5, 17-48)
Molto probabilmente il Vangelo di Matteo fu scritto verso gli anni 80 in una comunità giudeo-cristiana. E’ il tempo in cui il giudaismo, persa ogni consistenza politica e territoriale a causa della guerra dell’anno 70, serra le fila in un rinnovato attaccamento alla Legge, che godeva di una sacralità e di un valore salvifico nel giudaismo farisaico. La Legge era considerata la somma di ogni saggezza - umana e divina - la rivelazione di Dio stesso, una guida completa e sicura di condotta che garantiva i buoni rapporti con Dio e per la maggior parte dei Giudei la legge era implicitamente la rivelazione definitiva di Dio. La sinagoga espelle gli eretici e fissa i confini della propria ortodossia. Questo pone degli interrogativi alla comunità di Matteo, la quale, come abbiamo detto, è per lo più formata da cristiani provenienti dal giudaismo che vive ai confini della Palestina. Uno degli interrogativi è questo: in che cosa consiste l’originalità cristiana nei confronti della rinnovata ortodossia giudaica? A questo punto comprendiamo bene perché Matteo sviluppa il suo Vangelo attraverso un continuo dibattito-confronto con la giustizia degli scribi e farisei. E’ in questa prospettiva che il discorso della montagna deve essere letto. Esso vuole chiarire, da una parte, l’originalità della giustizia cristiana, cioè la differenza tra il cristiano e il giudeo; dall’altra, vuole mostrare la piena conformità del messaggio di Cristo alle Scritture. La conclusione a cui Matteo giunge può sembrare paradossale: il vero giudeo è colui che si fa cristiano.
Il discorso della montagna è preceduto dalle beatitudini, che noi sappiamo essere non soltanto un ideale da vivere, ma ancor prima una proclamazione che il regno di Dio è arrivato. Ritroviamo così uno schema comune a tutti i discorsi morali del NT: prima il Vangelo e poi la legge, prima il dono di Dio e poi la risposta dell’uomo. Se non tenessimo presente questo aspetto essenziale, rischieremmo di fraintendere il discorso di Matteo: correremmo il rischio di ridurlo a una nuova casistica e a un nuovo elenco di leggi che è necessario osservare per essere giusti di fronte a Dio.
Due elementi possono far da guida alla nostra lettura.
- Primo: scorgiamo all’inizio del discorso due atteggiamenti in apparenza contrastanti; da una parte, la pretesa di essere in continuità con la legge antica: “Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire ma per portare a compimento (5,17). Dall’altra, un chiaro e ripetuto atteggiamento di rottura. “Avete udito ciò che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” (5,21ss.). La nostra lettura non può eludere questo contrasto, deve invece comprenderlo e risolverlo.
- Secondo: il v. 20 (“Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli”) può essere considerato in titolo dell’intero discorso, e offre un comodo criterio per individuarne le parti. Il versetto citato lascia intravedere tre giustizie: la giustizia degli scribi, dei farisei e dei discepoli. Matteo contrappone, in una prima parte, il pensiero di Gesù alla giustizia degli scribi (le cui antitesi sono contenute in 5, 21-48), nella seconda parte, l’opposizione di Gesù alle pratiche dei farisei (elemosina, preghiere e digiuno: 6, 1-18); infine, la terza parte, la giustizia “superiore” del discepolo (6,19-7,27).
Parlando di giustizia superiore Matteo non intende una superiorità nella quantità (più digiuno, più preghiera e più elemosina), ma una superiorità nella qualità. E per giustizia Matteo non intende ciò che noi comunemente intendiamo (e cioè la parità tra il dare e l’avere nei rapporti fra gli uomini), ma, più semplicemente, la volontà di Dio.
Matteo ci pone di fronte a una serie di antitesi (5, 21-48), che toccano diversi punti della legge, scelti evidentemente tra i molti possibili. Non è una scelta fatta a caso: tre riguardano il comportamento verso il prossimo (e tutti e tre mettono in luce la carità); due il comportamento sessuale e il matrimonio; uno il giuramento.
Matteo non vuole indicarci delle leggi precise da mutare, quanto piuttosto un modo diverso di leggere la Scrittura e di scoprirne la volontà di Dio: diciamo un modo diverso di elaborare la morale.
Occorre una corretta visione di Dio e del suo disegno di salvezza, un modo corretto di leggere le Scritture. Sta qui la contrapposizione fra Gesù e gli scribi.[12] Come i profeti che l’hanno preceduto, anche Gesù si è sforzato di recuperare il centro della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso. In questo senso l’affermazione più importante la troviamo al v. 48: “Siate perfetti come il Padre vostro celeste”. Non è una perfezione qualsiasi, ma la perfezione della carità e del perdono: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Ecco una prima ragione per cui si può chiamare “superiore” la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento. Gesù offre agli scribi una lezione di metodo: per cogliere la volontà di Dio occorre essere capaci di una lettura globale della Scrittura: una lettura che sappia distinguere fra la logica di fondo e le sue espressioni parziali e provvisorie. Questa è la seconda ragione per cui la giustizia del discepolo può essere superiore.
Siamo ora in grado di risolvere l’antinomia fra continuità e rottura rilevata all’inizio. Il messaggio di Gesù è in continuità con l’AT, ne recupera il centro e la tensione. Non introduce nella legge novità prese in prestito altrove e non fa correzioni in base a una logica estranea alla Scrittura: ne recupera, invece, l’intenzione di fondo e porta questa a compimento. Continuità, dunque, ma tale continuità è anche novità che esige conversione, perché critica nei confronti degli schemi precedenti nei quali si finisce sempre con l’accomodarsi.
· Giustizia vera e falsa (6, 1-18)
Matteo continua a sviluppare il tema della giustizia del discepolo superiore alla giustizia degli scribi e farisei (5,20). Dopo aver criticato la giustizia degli scribi, l’evangelista critica ora la giustizia dei farisei.[13]
Matteo elenca le tre pratiche classiche dei farisei: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non le rifiuta, ma vuole che siano compiute con spirito diverso. Quanto detto finora non è sufficiente a descrivere l’originalità cristiana. Matteo colloca in questa sezione il “Padre nostro”.
· Detti (6, 19-34)
L’ultima parte del discorso della montagna (6,19-7,29) non è costruita come le due parti precedenti, in contrapposizione alla giustizia di scribi e alle pratiche dei farisei. Qui si limita a radunare, senza un ordine preciso, alcune parole del Signore importanti per la vita cristiana. Non c’è un ordine preciso, però ci sono alcune insistenze, e queste danno unità alla pericope.
Matteo sembra concentrarsi su un interrogativo: come deve comportarsi il discepolo nei confronti dei beni del mondo? La risposta di Gesù è quanto mai lucida e attuale: il discepolo non deve cadere nella tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da sé stesso. Ciò significa, ad esempio, che il benessere che andiamo cercando e nel quale poniamo fiducia deve essere “un benessere globale”: deve comprendere tutte le dimensioni dell’uomo e la ragione ultima del nostro vero benessere è Dio e il suo amore.
· Detti non concatenati (7, 1-27)
Iniziando il Discorso della Montagna, dicevamo che Matteo, di fronte agli scribi e farisei e di fronte al giudaismo che andava delineando la propria ortodossia, si pone un interrogativo: qual è l’originalità cristiana? Il discorso ci ha già offerto molteplici spunti, tutti importanti come risposta all’interrogativo. Ma non dimentichiamo che c’è un filo conduttore, costante, la regola d’oro, che è la carità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa infatti è la Legge e i profeti” (7,12). Quest’affermazione che riassume tutta l’ultima parte del discorso, era già presente, in termini ancor più radicali all’inizio: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (5,44). L’amore è l’unica cosa che non delude, è profonda saggezza: come la saggezza dell’uomo che costruisce la casa sulla roccia. L’amore è l’originalità cristiana.
Il discorso prosegue servendosi di cinque paragoni, uno più interessante dell’altro: la pagliuzza e la trave, le perle ai porci, il pesce e la serpe, la porta stretta, l’albero e i frutti.
Sono paragoni staccati, radunati qui tutti insieme dall’evangelista, perché, in un modo o nell’altro, illustrano il tema del comportamento del vero discepolo.
Avviandosi alla conclusione del discorso, Matteo sviluppa una contrapposizione a diversi livelli.
Non c’è vera fede senza impegno morale. La preghiera e l’azione, l’ascolto e la pratica sono ugualmente importanti.
L’evangelista termina il discorso osservando che le folle restavano stupite di fronte alle parole di Gesù, (7, 28-29) perché egli insegnava con autorità, e non come gli scribi. L’autorità degli scribi era basata sulla tradizione: lo scriba era preoccupato di ripetere fedelmente l’insegnamento tradizionale e di mostrare che il suo stesso commento scaturiva dalla tradizione ed era in armonia con essa. Gesù, invece, non insegnava come uno scriba ma come un profeta: Gesù ha un mandato dal Padre di insegnare, un mandato che gli scribi non hanno. Egli manifesta chiaramente questo mandato, e la gente ne è stupita.
Il discorso della Montagna non è un codice completo di etica cristiana. Ci sono, infatti, nel Nuovo Testamento numerose direttive di morale cristiana che non si trovano in questo discorso. In effetti non esiste alcun brano del NT che contenga un codice completo e sistematico di condotta. La rivoluzione morale cristiana consiste in un ri-orientamento dei valori.
tratto da www.corsobiblico.it - testo integrale delle Riflessioni di don Antonio Schena, Mottola (Ta)