Il Discorso delle Antitesi nel Vangelo di Matteo della VI Domenica (5, 17-37): il compimento della Legge e dei Profeti

News del 13/02/2014 Torna all'elenco delle news

La nuova giustizia (vv. 17-20)

Il discorso delle antitesi si apre con una piccola raccolta di detti, dei quali almeno i primi due sono antichi, in quanto hanno un’equivalente in Luca (Q). L’evangelista, unificando questi detti originariamente isolati, li ha riformulati in modo tale da far loro esprimere quello che secondo lui era l’atteggiamento di Gesù nei confronti della legge.

Il primo detto è così formulato: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (v. 17). A prima vista si ha l’impressione che con questa frase Gesù voglia imporre ai discepoli una rigida osservanza della legge mosaica. Il detto parallelo attribuito da Luca a Gesù risorto orienta però in un altro senso, in quanto parla non dell’osservanza della legge, ma del compimento delle Scritture in Cristo (Lc 24,44: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi»). Matteo usa ben 12 volte il verbo «dare compimento» (pleroô) per indicare l’adempimento di singoli brani dell’AT. Anche in questo caso perciò si può supporre che esso indichi non tanto l’osservanza letterale della legge, quanto piuttosto quel nuovo modo di intendere e di praticare la legge che è conforme alla buona novella proclamata da Gesù. Ciò è confermato dall’uso dell’espressione «legge e profeti», che ritorna altre tre volte in Matteo e solo due in Luca, mentre è sconosciuta a Marco: con essa l’evangelista indica sia l’AT in quanto annunzio profetico di Cristo (Mt 11,13; cfr. Lc 16,16), sia la legge mosaica, in quanto però, in sintonia con il messaggio profetico, si riassume nella regola d’oro (Mt 7,12) e nel doppio precetto dell’amore (Mt 22,40). In questo senso è chiaro che Gesù non ha «abolito» (katalyô, lett. distruggere, annullare) la legge, ma piuttosto le ha dato nuova forza con il suo insegnamento e soprattutto con la sua morte in croce (cfr. Rm 3,31; 8,4).

Nel secondo detto riportato da Matteo Gesù dice: «In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,18). Questo testo riflette l’idea giudaica secondo cui la legge, in quanto parola e rivelazione di Dio, è indefettibile anche in ciò che essa contiene di più piccolo o marginale (lo iota e il segno indicano due caratteri molto secondari dell’alfabeto ebraico). Matteo ha ripreso questo detto dalla fonte Q, come risulta dal parallelo di Luca (Lc 16,17: «È più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della legge»). Un detto analogo è stato conservato anche dalla tradizione di Marco, dove però si parla non della legge, ma delle parole di Gesù (Mc 13,31: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno»). È difficile dire se sia più antica la versione di Q o quella di Marco. Non si può escludere che Gesù abbia affermato che la legge ha sì una validità perpetua, solo però nella prospettiva del regno di Dio da lui annunziato (le sue parole). Matteo ha dato forse alle parole di Gesù una sfumatura più marcatamente legalista, ma l’ha subito attenuata aggiungendo l’espressione «senza che tutto sia compiuto»: la legge resta dunque valida anche per i cristiani, ma solo nella misura in cui trova il suo compimento in Cristo. 

Il terzo detto è il seguente: «Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli» (v. 19). In questo versetto si affronta più direttamente il problema riguardante l’osservanza dei precetti contenuti nella legge: alcuni di essi, si pensi al duplice precetto dell’amore (cfr. Mt 22,36), sono considerati «grandi», mentre altri, come le varie prescrizioni rituali e alimentari, sono chiaramente secondari («minimi»). Per Matteo sono anzitutto i primi a dover essere osservati (cfr. Mt 23,23), ma la vera grandezza nel regno dei cieli esige anche la pratica dei precetti «minimi»: tuttavia chi li trasgredisce o insegna a trasgredirli (per esempio i gentili diventati cristiani) non pregiudica la propria salvezza.

L’ultimo detto della raccolta è il seguente: «Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (v. 20). Nel linguaggio biblico la giustizia, già nominata da Matteo nelle beatitudini, indica la fedeltà a Dio che si esprime nell’obbedienza ai suoi comandamenti. Il tema è dunque ancora quello del significato che riveste la legge nella vita cristiana. Per l’evangelista la giustizia del discepolo deve superare quella degli scribi e dei farisei non perché egli sia tenuto ad osservare precetti più rigidi di quelli insegnati da costoro (cfr. Mt 23,3), ma perché egli deve farlo con una mentalità e uno spirito nuovi, le cui caratteristiche saranno delineate ora proprio in antitesi con il loro insegnamento.

Nell’introduzione alle antitesi Matteo rifonde dunque alcuni antichi detti di Gesù, dai quali fa emergere l’idea secondo cui la legge, vista come un’unica cosa con l’insegnamento dei profeti, mantiene anche nella nuova economia tutta la sua validità, a patto però che essa sia interpretata nell’ottica del compimento portato da Gesù. A lui spetta dunque condurre il discepolo a una comprensione piena della volontà di Dio, affinché possa raggiungere la giustizia a lui gradita e ottenere libero accesso nel suo regno.

L’omicidio (vv. 21-26)

La prima antitesi si apre con la citazione del precetto, contenuto nel decalogo, che vieta di uccidere: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio»  (v. 21; cfr. Es 20,13; Dt 5,17); ad esso è stato aggiunto il riferimento alla prassi giudiziaria in forza della quale l’omicidio era punito con la pena di morte (cfr. Es 21,12): questa implicava la condanna eterna, alla quale non poteva sfuggire neppure chi evitava il giudizio umano (cfr. Tg PsJo Es 21,12). In contrasto con questa prescrizione, intesa naturalmente in senso restrittivo, Gesù afferma: «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (v. 22). In questo detto altri tre comportamenti sono equiparati all’omicidio: l’adirarsi con il proprio fratello, il dirgli «stupido», e il dirgli «pazzo». È chiaro che non si tratta qui semplicemente di reazioni emotive, ma di un odio che porta alla denigrazione e all’emarginazione del fratello. Le sanzioni previste per questi peccati consistono rispettivamente nell’essere sottoposti al giudizio, al sinedrio e al fuoco della geenna: da questo crescendo appare che si tratta di peccati gravissimi, che alla fine portano alla rottura con Dio.

Seguono poi due esempi pratici coi quali si spiega in modo positivo quale deve essere il comportamento abituale del discepolo. Nel primo di essi Gesù afferma che, se uno sta facendo la sua offerta nel tempio e si ricorda di avere uno screzio con un suo fratello, deve interrompere la sua azione e portarla a termine solo dopo essersi riconciliato con lui (vv. 23-24). È questo un chiaro esempio di legge interpretata da Cristo alla luce del messaggio profetico, condensato nel detto «Misericordia io voglio e non sacrificio» (Os 6,6; cfr. Mt 9,13; 12,7). Gesù aggiunge che, se uno è convocato in tribunale, deve riconciliarsi subito con il proprio avversario per evitare il rischio di subire una dura condanna (vv. 25-26). Questo detto è presente anche nel terzo vangelo (cfr. Lc 12,57-59), dove indica l’urgenza della conversione in vista degli ultimi tempi; Matteo invece se ne serve per sottolineare la necessità di una pronta riconciliazione.

Nella prima antitesi dunque, in contrasto con una interpretazione restrittiva del quinto comandamento, si sottolinea come l’obbedienza alla volontà di Dio esiga che si evitino rotture insanabili e, quando i rapporti fossero incrinati, si sia subito pronti a riconciliarsi. È chiaro che queste direttive riguardano direttamente i «fratelli» nei loro rapporti comunitari: con esse però viene additata una nuova mentalità, a cui dovranno ispirarsi in tutti gli ambiti della loro vita sociale.

L’adulterio (vv. 27-30)

 La seconda antitesi riguarda il sesto comandamento: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (vv. 27-28; cfr. Es 20,14; Dt 5,18). Anche qui Gesù si contrappone non al precetto in se stesso, ma a una sua interpretazione riduttiva, sottolineando come anche un semplice sguardo di desiderio rivolto a una donna debba già considerarsi come un adulterio: Dio vuole che l’obbedienza non si limiti agli atti esterni, ma parta dal cuore. È chiaro che l’interpretazione di Gesù si ispira al decimo precetto del decalogo («Non desiderare»: Es 20,17b; cfr. Dt 5,21a), che non condanna un desiderio spontaneo e inefficace, ma solo quello che implica la decisione di passare all’azione corrispondente (cfr. Gb 31,7-9). A commento di questa direttiva viene riportato un detto in cui si afferma che, se una delle proprie membra è causa di scandalo, essa deve venir eliminata, affinché non capiti che tutto il corpo finisca nella geenna (vv. 29-39). L’evangelista utilizza questo detto anche successivamente, nel discorso ecclesiale (Mt 18,8-9), per sottolineare la gravità dello scandalo dato ai propri fratelli; Marco invece lo cita nel quadro delle direttive riguardanti radicalità della sequela (Mc 9,43-48). In questo contesto Matteo se ne serve per mettere in luce la gravità degli impegni assunti nei confronti del proprio coniuge, contro il quale, secondo la mentalità giudaica, si può commettere adulterio con ciascun membro del proprio corpo (cfr. Gb 31,7-9).

Alla seconda antitesi fa seguito un brano formulato anch’esso in forma antitetica: «Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di porneia, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (vv. 31-32// Lc 16,18 = Q; cfr. Mt 19,9 // Mc 10,10-11 = triplice tradizione). Nonostante la forma, questo testo non può essere considerato come una nuova antitesi, in quanto contiene una formula introduttiva molto ridotta («Fu pure detto») e, per di più, riprende il tema svolto nell’antitesi precedente (adulterio).

In contrasto con la norma che permette a un uomo di ripudiare la propria moglie a patto che le dia un atto di ripudio (cfr. Dt 24,1), Gesù rifiuta il ripudio in se stesso, in quanto è occasione di adulterio: infatti egli considera come adultera non solo la donna ripudiata che contrae un nuovo matrimonio, ma anche l’uomo che la sposa. Un’idea così radicale deve avere ben presto creato difficoltà notevoli alle coppie cristiane: perciò la tradizione successiva, attestata in tutte le altre formulazioni del detto, sottolinea come, in caso di separazione, ciascuno dei due coniugi commetta adulterio solo se si risposa (cfr. Lc 16,18; Mc 10,10-11; Mt 19,9). In altre parole, il divorzio è tollerato solo nel caso che i coniugi non passino a nuove nozze (cfr. anche 1Cor 7,10-11).

Matteo però ritocca anche la direttiva originaria, in quanto afferma che essa non si applica nei casi di porneìa («clausola matteana»). Il significato di questa clausola, che è ripetuta anche in Mt 19,9, è oscuro, e di conseguenza è stato variamente interpretato (concubinato, adulterio, matrimonio irregolare); oggi si fa sempre più strada la tendenza a pensare che si tratti di una eccezione vera e propria all’indissolubilità del matrimonio, che la chiesa di Matteo adotta in sintonia con il costume giudaico (cfr. Pr[LXX] 18,22; Sir 23,22-26; 25,26), che permetteva o addirittura imponeva il divorzio in caso di adulterio della moglie. È chiaro che, secondo questa interpretazione, la chiesa di Matteo non ha voluto eliminare la radicalità richiesta da Gesù in campo matrimoniale, ma si è limitata a far sì che in un caso specifico essa non danneggiasse altri valori ritenuti ugualmente importanti.

Il giuramento (vv. 33-37)

La terza antitesi riguarda l’uso di chiamare Dio a testimone delle proprie affermazioni: «Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi ; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (vv. 33-37).

 Il precetto che proibisce di giurare il falso è ricavato dal decalogo (Es 20,7; cfr. Lv 19,12), mentre l’obbligo di adempiere i propri giuramenti si ispira ad altri passi dell’AT (cfr. Nm 30,3; Dt 23,22; Sal 50,14). Agli inizi dell’era cristiana vi era nel giudaismo la tendenza a proibire i giuramenti fatti direttamente nel nome di Dio. Gesù invece proibisce qualsiasi forma di giuramento, escludendo tutta una serie di formule di cui ci si serviva per evitare l’uso del nome divino: infatti giurare sul «cielo», sulla «terra», su Gerusalemme, oppure sulla propria testa, significa ancora giurare in nome di Dio, poiché ciascuna di queste realtà appartiene a lui. Gesù ricorda infine che il sì e il no (ripetuti solo a scopo rafforzativo, e non come nuova formula di giuramento) sono più che sufficienti per dar valore alla propria parola. Egli esige dunque una sincerità tale da rendere superfluo nei casi singoli il ricorso al giuramento (cfr. Gc 5,12).

Linee interpretative

Nel contesto dell’alleanza tutta la legge era considerata come espressione della volontà di Dio e Israele era tenuto ad osservarla non solo esternamente, ma con tutto il cuore. Al centro della legge c’erano i dieci comandamenti, che rappresentavano le linee fondamentali del comportamento all’interno della comunità. Non per nulla il decalogo al tempo di Gesù faceva parte della preghiera quotidiana dei giudei. A livello popolare era forte però (allora come oggi) l’inclinazione a interpretare in modo restrittivo i comandamenti, facilmente considerati come proibizioni di certi comportamenti, senza una precisa attenzione ai valori di fondo in essi delineati. Quindi Gesù, nel momento in cui raccomanda l’osservanza della legge interpretata in senso profetico (la legge e i profeti), mette in luce come i comandamenti, che ne rappresentano il centro e il motivo ispiratore, debbano essere interpretati in funzione dell’amore di Dio e dei fratelli.

Il primo comandamento su cui Gesù richiama l’attenzione è quello che proibisce l’omicidio. Su di esso si basa infatti la possibilità stessa della convivenza sociale. Gesù lo richiama per sottolineare come la sua osservanza non deve essere fatta coincidere con la semplice astensione dall’atto formale dell’omicidio. Vi sono infatti diversi comportamenti che, privando l’altro della sua dignità, comportano la sua emarginazione, anche se non direttamente la sua eliminazione fisica. Gesù richiama quindi all’esigenza di un rapporto con l’altro che non sia mai di sopraffazione e di sfruttamento. In questo consiste il significato profondo di una religione che mette il rapporto con il prossimo alla base del rapporto con Dio.

Dopo il precetto che proibisce l’omicidio, Gesù richiama quello riguardante l’adulterio. Per lui è fuori dubbio che, proprio in vista del regno dei cieli, il matrimonio assume un profondo significato unitivo che nulla può demolire. Ma anche qui egli colpisce ciò che rappresenta la premessa dell’adulterio, cioè il desiderio. L’adulterio si consuma nel cuore prima che nel corpo. Il rapporto tra coniugi deve essere una vera comunione di vita, e non una semplice convivenza. Perciò a nessun marito sia consentito ripudiare la propria moglie. Matteo però ammette, in sintonia con il suo contesto culturale, che l’adulterio della moglie possa essere un motivo sufficiente per ripudiarla. Ma si tratta di un’eccezione che oggi rivela la sua debolezza in quanto non tiene conto del fatto che può essere anche il marito a tradire la moglie.

La condanna non solo del giuramento falso ma di ogni tipo di giuramento è in funzione della sincerità che deve prevalere nella vita di una comunità. Se non si tiene nella debita considerazione la parola dell’altro, è impossibile che si verifichi quello scambio che porta a una vera comunione fraterna. La possibilità stessa di comunicare si basa sulla fiducia nell’altro, sul fatto che egli abbia scelto liberamente di mettere a disposizione di tutti la propria esperienza e ricerca religiosa.

tratto da www.nicodemo.net