12 Dicembre 2010: III Domenica d'Avvento o della gioia (Gaudete!)
News del 12/12/2010 Torna all'elenco delle news
Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?
Desiderare Dio, aspettarlo, incontrarlo, è il senso dell'Avvento ed è l'esperienza che la Liturgia ci invita a vivere in queste settimane, in attesa del Natale.
Il nostro tempo sembra fare a meno di Dio: cerca tante cose, è insoddisfatto, deluso, ma da quando i maestri del sospetto hanno aperto gli occhi agli uomini, essi cercano altrove ciò che in tempi più ingenui cercavano in Dio. Eppure noi celebriamo l'Avvento, perché, al di là di ogni risposta che ci viene dalle scienze che indagano l'uomo, sentiamo rinascere in noi il desiderio insopprimibile di qualcuno che sazi il nostro desiderio di pace, di felicità, di amore.
Desiderare, aspettare, incontrare Dio è un'esperienza infinitamente grande, che ci coinvolge completamente: oggi ci chiede il coraggio di quella verità che raggiungiamo soltanto rientrando nel profondo di noi stessi per lasciare emergere le domande radicali alle quali non possiamo sfuggire.
Il Vangelo ci fa percorrere questo cammino proponendoci la figura di Giovanni il Battista che la liturgia della domenica terza di Avvento ci ripresenta con il brano di Matteo 11, 2-11. Si tratta di una pagina centrale del Vangelo di Matteo nella quale si intrecciano i temi maggiori che interessano la comunità cristiana nascente e la Chiesa di ogni tempo: l'incontro con il Cristo, la sua identità, la missione, la testimonianza.
Nella figura di Giovanni è rappresentato l'uomo in tensione verso la propria realizzazione: non per nulla Gesù sottolinea lo stupore suscitato dalla sua personalità di uomo forte, libero, profetico, "il più grande tra i nati da donna".
Giovanni ha il coraggio dell'onestà nella denuncia delle ipocrisie, delle manipolazioni della Legge e dell'abuso del potere. Ma la grandezza di Giovanni e la sua libertà interiore si manifesta soprattutto quando, con un atto di autenticità e di verità, confessa di non essere lui migliore degli altri: ha il coraggio della denuncia ma non ha la possibilità di migliorare il cuore dell'uomo per fargli superare quel limite di fragilità che lo condiziona radicalmente.
A questo punto l'uomo Giovanni si apre alla fede: non può non venire "Colui che è più forte di me". Giovanni diventa l'uomo dell'attesa, del desiderio di Dio che è la certezza che l'uomo non è abbandonato alla sua disperante fragilità, è l'esperienza di un Amore che irrompe dove l'uomo è schiacciato dalla sua solitudine.
Adesso, dice Matteo, Giovanni è in carcere: la sua percezione del male che schiaccia l'uomo diventa drammatica. E proprio all'interno del carcere "ha sentito le opere del Cristo": Giovanni ha un sussulto, nella sua situazione drammatica irrompe l'opera del Cristo.
Dunque Dio risponde alla sua attesa con "le opere del Cristo": ma proprio a questo punto avviene la grande crisi dell' "uomo" Giovanni. Aspettava uno più forte di lui che vincesse il male: sente "le opere del Cristo" e sono opere di misericordia e di perdono.
Attraverso i suoi discepoli rivolge a Gesù la domanda drammatica, stupendamente significativa che non può non sgorgare dal cuore di ogni uomo che incontra Gesù, il Cristo, nella sua sconvolgente e inattesa novità: "Tu sei Colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?"
Nella tenebra del suo carcere Giovanni ha cominciato a vedere una luce, ma il carcere rimane: nella sua fragilità umana che rimane ha cominciato a sentire un calore nuovo che gli fa superare la durezza con cui guardava agli uomini peccatori e li condannava.
Giovanni aspettava un "Altro", forte, potente, terribile: aspettava Dio. Adesso sente le opere di uno, che è anche suo cugino, con il quale può parlare come a un amico. Aspettava un "Altro" che facesse un mondo migliore: c'è uno che ama questo mondo. Aspettava un Dio che innalzasse il mondo alla sua altezza: c'è uno invece che discende dentro il mondo e ne fa la sua tenda.
Dobbiamo aspettare l' "Altro" come sempre noi facciamo, vivendo da alienati, insoddisfatti di ciò che abbiamo oppure aprire i nostri orecchi, i nostri occhi, il nostro cuore per accogliere "Colui che viene con noi"? Ma certo, non può non essere la nostra domanda questa, quando sentiamo il peso della nostra vita quotidiana, la angoscia dei nostri drammi, perché solo nella verità della nostra esperienza possiamo accogliere la verità della sua venuta. Desiderare "Dio" significa allora imparare a non aspettare sempre l' "altro" ma accogliere questo "Tu" che in ogni attimo ci dona il senso della vita.
Alla domanda di Giovanni posta attraverso i discepoli, Gesù risponde invitandoli a portare la testimonianza di ciò che vedono e sentono. La risposta di Gesù alla crisi di Giovanni non è una dottrina, una teologia astratta, ma una testimonianza.
Giovanni aspetta l'intervento di Dio, desidera la sua venuta: i suoi discepoli hanno visto e hanno udito le opere di Gesù, il Cristo: sono opere che realizzano ciò che l'uomo desidera. E' in atto ormai una umanità nuova, capace di relazioni piene, libera da ogni discriminazione di qualsiasi tipo, una umanità fatta da uomini poveri ma ai quali è arrivato il lieto annuncio dell'amore del Padre. ù
L'uomo che cerca Dio deve solo aprire i suoi occhi per vedere che Dio è dentro la sua vita, la sua storia, il suo mondo. Dunque Giovanni può credere: è proprio Gesù "Colui che viene"; è Lui l' "Altro" che si è fatto vicino, che entrando nella nostra vita vince la nostra solitudine, illumina i nostri occhi, apre i nostri orecchi, elimina le distanze create da leggi e da poteri che discriminano.
E' Lui che manifesta la sua onnipotenza nella misericordia e nel perdono, nella compassione, nella condivisione della nostra fragilità.
E'Lui che ama chi è povero, chi non indossa maschere di falsa potenza, di ipocrisia: è lui che rende felice chi si lascia amare e crede l'amore.
E' Lui che ci stupisce non con lo splendore della sua gloria ma con l'infinito del suo amore che si fa piccolo per essere uno di noi, con noi, per noi, per farci sentire la bellezza della esperienza umana.
Dovremo seguire tutto il Vangelo di Matteo per entrare in questa esperienza. Ma già da adesso lo sappiamo: è la comunità di coloro che credendo nella presenza operante di Gesù mostrano una vita bella e felice che lo testimoniano e dicono che il nostro desiderio di Dio è ormai una realtà.
Testo di mons. Gianfranco Poma
Giovanni e Gesù
Due figure importantissime per celebrare degnamente in Natale ci vengono presentate oggi nella liturgia della Parola: il Precursore Giovanni Battista e il Messia, Gesù.
Il Vangelo di Matteo ci riporta al dialogo a distanza tra Gesù e Giovanni Battista, finalizzato a precisare il ruolo e la missione di ciascuno dei due. Gesù manda a dire a Giovanni attraverso i discepoli del Precursore che a parlare di Lui, della sua missione e della sua identità di Messia, atteso dal popolo di Israele, sono i miracoli, le guarigioni di ogni tipo e di ogni consistenza. Il Messia è Lui. Non si devono attendere altri messia. I dubbi sulla legittimità della identità e della missione di Gesù sono superati in modo esemplare.
Nessuno si può scandalizzare del Cristo, nel Cristo si trova la ragione della speranza e della beatitudine. Gesù, poi da parte sua, indica in Giovanni il profeta coraggioso e coerente, testimone visibile, uomo di penitenza e di essenzialità della vita. Anche la condizione in cui si trova Giovanni, quella di una persona limitata nella sua libertà, essendo in carcere, lo colloca in quella situazione di privilegiato, fino al punto da parlare, a ragion veduta, come il portavoce della speranza e della verità, in poche parole a trasmettere il messaggero che prepara la via al Messia.
Su questa stessa lunghezza d'onda della figura del Precursore si colloca il messaggio della seconda lettura odierna tratta dalla Lettera di San Giacomo Apostolo, nella quale troviamo l'invito ad essere costanti nell'impegno di preparare la strada al Signore che viene.
E sull'esempio del buon agricoltore coltiviamo il campo del nostro cuore e della nostra vita perché faccia frutti di vita eterna e di bontà. Da qui la necessità di non lamentarsi mai, né della propria vita, né di quella degli altri, ma sopportare tutto per amore di Dio, perché il Signore, quale giudice supremo, non tarderà a valutare la nostra vita, come effettivamente l'abbiamo vissuta o la stiamo vivendo. Una vita che deve colorarsi, nonostante la croce, il dolore e il pianto, della gioia e del gaudio che solo Dio può apportare nel cuore dell'uomo.
Il profeta Isaia nella prima lettura della liturgia della parola di oggi ci apre questa prospettiva di gioia e di vita per tutti. La venuta del Signore è per la vita e la felicità vera e non per la tristezza e la sofferenza. Per quanti attendono con speranza e fiducia la venuta del Signore sul loro capo splenderà la felicità perenne e dalla loro vita scapperanno via, come d'incanto, la tristezza e il pianto, espressione di una mancanza di speranza e di prospettiva, per quanti non hanno fiducia in Dio e non si abbandonano alla sua volontà.
Il Natale se ha un senso nella nostra vita di oggi e di sempre sta proprio in questo: ridare a ciascuno di noi la gioia di vivere, la speranza che quello che verrà sarà il meglio e non il peggio.
Solo Dio può riportare in equilibrio la nostra esistenza, spesso squilibrata da tanti fatti ed avvenimenti personali, familiari, nazionali, collettivi, mondiali che mettono preoccupazione ed angoscia.
L'invito al coraggio, all'impegno per la costruzione di un mondo più umano, cioè più a misura d'uomo, riguarda tutti. Non dobbiamo assolutamente temere di nessuno e di nulla, perché la venuta del Signore nella storia di questa umanità ha cambiato radicalmente il senso della vita del mondo e della stessa terra. Tutto possiamo vedere in termini negativi e distruttivi, come la mentalità nichilista di oggi ci induce a vedere, ma mai, in modo assoluto e definitivo, possiamo credere e ritenere per certo che per l'uomo non ci sia speranza. Al contrario la speranza cristiana ci deve aprire ad una visione nuova del mondo che è quella incentrata su Dio e sul Vangelo.
Mi sovviene quanto scrive Papa Benedetto XVI nel suo recente Libro-intervista "Luce del mondo" (pag.78): "Per molti, l'ateismo pratico è regola di vita. Forse, essi dicono, in tempi remotissimi qualcosa o qualcuno ha dato inizio alla terra, ma Lui non ci riguarda. Quando un simile atteggiamento spirituale diviene diffuso stile di vita, la libertà non ha più un termine di misura, e tutto è possibile e permesso. Per questo è tanto urgente che la questione di Dio torni ad essere centrale. E non si tratta di un Dio che in qualche modo esiste, ma di un Dio che ci conosce, ci parla e che poi è anche nostro giudice".
Parole di estremo conforto per quanti, come noi, credono nella prima venuta del Signore e si preparano al suo secondo e definitivo avvento nella coscienza di cercare di essere coerenti con la propria scelta di fede, ben sapendo che il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati e libera i prigionieri (Sal. 145).
Testo di padre Antonio Rungi
Liturgia della Seconda Domenica d'Avvento: 12 Dicembre 2010
Liturgia della Parola della Seconda Domenica d'Avvento: 12 Dicembre 2010
Pala lignea di Giovanni Battista Cima da Conegliano (1460-1418)
Raffigura San Giovanni Battista, l'ultimo dei profeti, e i santi Pietro, Marco, Paolo e Girolamo, sotto un portico rinascimentale in rovina, sui pennacchi del quale campeggiano dei medaglioni raffiguranti i vizi pagani a significare la caduta del mondo pagano dopo l'annunzio evangelico del Cristo del quale il Battista fu il precursore, Pietro, e Paolo e Marco gli annunciatori e Girolamo il divulgatore con la sua traduzione della Bibbia in lingua latina, la lingua dell'impero romano.
Il fico che mina la pietra è l'immagine della fertilità e della vita rigogliosa del regno messianico, della fecondità e della dolcezza della Parola di Dio; l'edera, pianta sempre verde rappresenta, fin dall'antichità, la fedeltà e la vita eterna; la civetta appollaiata, animale notturno, esprime lo stupore e l'oscurità spirituale, la rinuncia alla luce della Verità di coloro che hanno ascoltato l'annuncio evangelico senza comprenderlo (è associata agli Ebrei che non riconobbero nel Cristo il Messia atteso); infine, l'albero povero e spoglio di foglie dietro al Battista, richiama la frase evangelica: "Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco" (Mt 3,10).
La figura magra con i capelli arruffati, l'aspetto da eremita e le povere vesti indicano la natura ascetica del Battista la cui missione d'annunciatore e messaggero è sottolineata dal dito alzato: "Ecco io manderò un angelo a preparare la via davanti a me" (Mal 3,1).
Sullo sfondo collinare si intravede una città fortificata dalla quale emergono le cupole della Basilica di S.Antonio da Padova e lungo il declivio il castello di Conegliano. L'uno forse a ricordo dei committenti, l'altro della città natia.