Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per Lui

News del 05/11/2010 Torna all'elenco delle news

Ci avviciniamo ormai al termine dell'anno liturgico e alla conclusione della lunga serie delle domeniche del tempo ordinario nelle quali abbiamo letto il Vangelo di Luca che, nella parte che lo distingue dai Vangeli di Marco e di Matteo, ci guida, al seguito di Gesù, nel viaggio verso Gerusalemme, dove avviene il suo "esodo", la sua partenza verso il Padre.
Nella domenica XXXII ci è proposto il brano di Lc.20, 27-38: ormai siamo giunti a Gerusalemme, nel Tempio dove si concentra la attività di Gesù, il suo messaggio finale, il "discorso escatologico". Luca descrive i capi dei sacerdoti e gli scribi che cercano di eliminare Gesù perché sono perplessi e diffidenti del suo insegnamento, ma ne sono impediti per l'entusiasmo del popolo per lui: così Luca prepara il suo lettore all'immagine positiva che darà del popolo nel racconto della Passione.
Il brano che oggi leggiamo (Lc.20,27-38), si presenta come una disputa scolastica tra le diverse tendenze del pensiero ebraico e forse ancora vive all'interno della comunità a cui Luca si rivolge, ma contiene un pensiero e un messaggio forte di Gesù per i suoi discepoli di ogni tempo. Si tratta di una disputa sulla risurrezione generata da una domanda di alcuni Sadducei: certamente la risposta di Gesù come è riportata da Luca, suppone la fede nella risurrezione di Gesù che è alla base della fede cristiana. Leggere questo brano del Vangelo, che, è bene sottolinearlo, presenta alcune difficoltà di interpretazione, in questa domenica, è occasione per ciascuno di noi per fermarci e chiederci che cosa pensiamo noi della risurrezione.
Dunque, dice il Vangelo, "gli si avvicinarono alcuni Sadducei i quali dicono che non c'è la risurrezione". Questa è l'unica volta che Luca nomina i Sadducei nel Vangelo, che poi ritornano negli Atti degli Apostoli: si tratta, secondo Giuseppe Flavio, di una delle "scuole filosofiche" esistenti in seno al giudaismo, che riconosce autorità alla sola Scrittura e rifiuta la tradizione orale. Mentre i Farisei, se pure in modalità diverse, credono nella risurrezione, i Sadducei ritengono che l'al di là della morte di ogni persona umana sia assicurata dalla continuità e dalla sopravvivenza delle generazioni, unicamente attraverso il succedersi della procreazione per mezzo del matrimonio. Per questo per i Sadducei è strettamente necessario il matrimonio, perché solo attraverso questa via è assicurata la continua sopravvivenza dell'umanità, ed è in questa luce che essi spiegano la legge del levirato che essi attribuiscono a Mosè. I Sadducei quindi rivolgendosi a Gesù intendono, proprio fondandosi sull'autorità di Mosè, negare la risurrezione, deridendo coloro che la sostengono. Essi lo chiamano "Maestro": avra' il coraggio Gesù di contraddire Mosè? E con quale motivazione il "Maestro" potrà non schierarsi con gli "anti-dicenti" che c'è la risurrezione? La risposta di Gesù si svolge in due momenti: anzitutto dice il suo pensiero sulla risurrezione e poi fa riferimento all'autorità mosaica.
Dunque dice Gesù: "I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni di quel mondo e della risurrezione dei morti, non prendono né moglie né marito; infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio". Gesù non rimane sul piano polemico dei suoi interlocutori ma espone il suo insegnamento con un colpo d'ala che lo libera dai condizionamenti con cui vorrebbero legarlo: e Gesù apre orizzonti nuovi per una vita che non è la continuazione della vita di "questo mondo", ma è la novità di cui egli solo può parlare perché è la manifestazione della propria esperienza di Figlio di Dio. Per comprendere adeguatamente il senso della Parola rivelatrice di Gesù, occorrerebbe confrontarla con testi corrispondenti di S. Paolo e di S. Giovanni: la risurrezione non è la riproduzione al di là della morte della stessa vita generata "in questo mondo" mediante il matrimonio.
Gesù parla di "quel mondo" che è per quelli che "ne sono giudicati degni": il participio passivo indica una azione di Dio che giudica coloro che ne sono degni, e tutto il Vangelo ci ha detto che il modo di Dio di valutare capovolge quello della razionalità umana ("innalza i poveri e abbassa i potenti").
Gesù parla del mondo "della risurrezione dai morti": è il mondo di una vita che non è quella assicurata dalla continuità della procreazione mediate il matrimonio, ma che nasce dalla "risurrezione dai morti", cioè che oltrepassa la vita di "questo mondo" perché non è generata "da carne e da sangue" Chi la vive non può più morire, perché è come-angelo (cioè vive con Dio), è generato da una azione generante nuova: è figlio di Dio.
Gesù parla della risurrezione come vita nuova, vita altra, vita dei figli di Dio: ci impressiona la molteplicità dei termini usati da Gesù per esprimere questa realtà nuova, segno della difficoltà di trovare un linguaggio adeguato per dire una realtà che va oltre quella normale di "questo mondo". Ciò che va sottolineato, la rivelazione che viene da Gesù, è la chiara affermazione della risurrezione, come vita nuova, la vita dei figli di Dio.
Ma Gesù non ne parla per togliere il velo del mistero di un al di là che deve rimanere tale: ne parla perché è un'esperienza che egli vive già nel presente e che propone a chi crede in lui.
La parola di Gesù conduce dentro il mistero che ogni uomo vive dentro di sè: l'uomo nasce in "questo mondo", ma non si esaurisce in esso. Seguendo Gesù, credendo in lui, l'uomo entra in "quel mondo" che è il mondo di Dio, e vi entra già adesso: la parola di Gesù ci introduce nella novità della vita che egli propone, una vita in continua tensione, tra "questo" e "quel" mondo, tra ciò che nasce "dalla carne" e ciò che nasce "dall'alto", tra il "già" e il "non ancora", tra "il segno" e "la realtà", tra il "matrimonio" e la "verginità", in attesa che "passi la figura di questo mondo" e appaia la realtà di "quel mondo" che rimane per sempre. La proposta di Gesù è di vivere intensamente "questo mondo" come il terreno nel quale è deposto il seme di "quel mondo" che è bellezza, gioia, luce, amore: Dio.
Ai Sadducei e a noi, Gesù ricorda l'esperienza di Mosè perché noi la riviviamo: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, è il mio Dio. Dio è l' "amante della vita", Colui che ci ama: entrare in relazione con Lui, significa iniziare una vita che diventa sempre più intensa, quanto più si abbandona a lui e che diventa eterna quando è totalmente afferrata da lui. 


Testo di
mons. Gianfranco Poma