Infelice chi guarda solo a se stesso

News del 23/10/2010 Torna all'elenco delle news

Due uomini salirono al tempio a pregare

La pagina del Vangelo di Luca che leggiamo nella XXX  Domenica del Tempo Ordinario (Lc.18,9-14), la Parabola del fariseo e del pubblicano, è una di quelle più note a tutti e allo stesso tempo di quelle che ci introducono nel cuore dell'esperienza cristiana con una profondità sempre nuova, come se fosse la prima volta che la ascoltiamo.
Anche in questa pagina, come in quella immediatamente precedente, Gesù parla della preghiera, ma per farci capire che la preghiera è l'espressione più intensa e più vera dell'esperienza interiore che l'uomo ha di se stesso, è la relazione più personale dell'uomo con Dio percepito come il Tu con il quale l'io dell'uomo trova pienamente se stesso, ed è la fonte da cui nasce la possibilità per l'uomo di entrare in relazione con gli altri.

La preghiera è l'esperienza della liberazione da ogni ipocrisia, è la deposizione di ogni maschera, è il momento della verità interiore.

 La preghiera è l'esperienza più intensa dell'amore: il bisogno di amore che ogni uomo sente nel profondo di se, trova risposta nella gratuità dell'amore di Dio, Amore puro, fedele e misericordioso, e diventa relazione sincera di amore con gli altri. Certo, la preghiera è all'interno del cammino della fede, cammino mai concluso, che richiede il coraggio della spogliazione di sé per abbandonarsi nell'infinito e sempre misterioso amore di Dio. Ed è cammino personale, che si sviluppa all'interno della concretezza degli eventi della vita quotidiana.

Il brano del Vangelo che oggi leggiamo, è una mirabile pagina di pedagogia della fede e di educazione alla preghiera, che illumina la situazione attuale, nella quale noi siamo chiamati a vivere.
"Disse per alcuni che hanno fiducia solo di se stessi perché sono giusti e non considerano gli altri, questa parabola": la traduzione letterale della frase ci invita ad una particolare attenzione. La parabola pronunciata da Gesù è rivolta a persone caratterizzate dal loro atteggiamento umano interiore e non da loro circostanze storiche. Sono persone sempre presenti nella storia: in qualche modo ciascuno di noi può ritrovarsi in esse. "Sono giusti": non dice il Vangelo che questo sia falso, ma sottolinea che proprio questo è la radice di tutto il problema. "Sono giusti": ma quando gli uomini sono giusti? Quali sono i criteri per ritenersi giusti? La coscienza di aver osservato le leggi? Qui, il Vangelo, dice che quando l'uomo si convince della propria autosufficienza, autostima, autoreferenzialità si crea la convinzione di essere giusto e produce la disistima degli altri. E' interessante questa osservazione, che l' "essere giusti" genera la presunzione di sé e il disprezzo degli altri, genera la distruzione di ogni relazione corretta: è, forse, questa, la caratteristica più specifica dell'uomo contemporaneo che, ritenendosi autosufficiente, si ritiene giusto e non è più capace di relazioni positive, belle, costruttive perché ritiene di non aver nulla da accogliere dagli altri ma di dovere soltanto difendersi, guardando agli altri con uno sguardo solo di disprezzo.

L'esito di questo modo di "essere giusti" che nasce dall'autosufficienza, diventa l'autodistruzione perché l'incapacità di relazione non può non essere distruttivo alla radice della persona. Per questo Gesù presenta la preghiera come via per la realizzazione dell'autenticità della esperienza umana. Ma certo, la proposta di Gesù non è così ingenua dal ritenere la preghiera come soluzione taumaturgica del problema del senso della vita dell'uomo: anche questo è un rischio per l'uomo contemporaneo che si dibatte tra l'autosufficienza che fa a meno di Dio e diventa autodistruttiva e il buttarsi irrazionale in un religioso emozionale che deresponsabilizza l'uomo e alla fine di nuovo lo distrugge.
La proposta di Gesù è la preghiera, ma come via che l'uomo percorre nella verità, che nasce dal profondo del cuore, diventa esperienza di Dio e si apre all'amore per gli altri.
E' questo il ruolo svolto dalla parabola: "due uomini salirono al Tempio per pregare, uno fariseo e l'altro pubblicano". Anche qui Luca usa lo strumento delle figure contrapposte, il fariseo e il pubblicano: in realtà, attraverso gli estremi, ciò che interessa, è il cammino interiore che viene proposto a chi ascolta la parabola perché la sua preghiera diventi autentica.

L'atteggiamento del fariseo più che l'appartenenza ad un gruppo, rispecchia una dimensione "antropologica": egli si ritiene il centro del mondo; esiste lui e "il resto del mondo" (non fa nessun riferimento alla sua appartenenza farisaica), che egli disprezza. Il suo disprezzo cade sul pubblicano presente per caso nel Tempio, dietro e lontano da lui: sarebbe caduto su chiunque altro che in quel momento fosse caduto sotto il suo sguardo.
La sua "preghiera" di ringraziamento non è espressione di gioia per l'intimità sperimentata con Dio, ma di compiacimento per il suo essere diverso dagli altri: elenca ciò di cui si priva (il digiuno) e ciò che dona (le decime), ma non ciò che Dio gli dona. "Il fariseo stando in piedi, rivolto verso se stesso, pregava": è tutto rivolto verso di sé e non verso Dio. Se guarda agli altri è solo per gettare su di loro ciò che egli rifiuta di vedere dentro di sé: "Dio, ti ringrazio perché non sono come il resto degli uomini ladri, disonesti, adulteri, e neppure come questo pubblicano": rattrappito su di sé, chiuso nella sua torre d'avorio, non vede che se stesso e non vive che per se stesso.

Il pubblicano invece, nonostante la sua posizione curva (non "voleva" neppure alzare gli occhi al cielo), è proteso verso la "pietà" di Dio. Non elenca niente, neanche i propri peccati: il suo modo di guardare dentro di sé, lo spinge a qualificarsi come peccatore, senza chiedersi se gli altri lo siano più o meno di lui. L'imperfetto "egli pregava" per il fariseo indica una preghiera che dura come atteggiamento solipsistico di autocontemplazione mentre l'imperfetto "si percuoteva il petto dicendo…", per il pubblicano significa la ripetizione insistente di una supplica che nasce dalla umile percezione della propria insufficienza e diventa implorazione rivolta a Colui che essendo solo Amore, guarda all'uomo non per condannarlo, ma per perdonarlo, non per chiedergli ciò che l'uomo non può dare, ma per donargli ciò di cui sente la necessità.

Solo dall'accettazione sincera della propria povertà, può nascere la preghiera, scambio di amore tra l'uomo e Dio, l'infinita fragilità e l'infinita gratuità, scambio che libera dalla paura radicale che falsifica ogni relazione, per rigenerare l'uomo che ammettendo di non poter essere giusto da sé, ritrova la gioia di essere amato da Dio e di entrare in un reale dialogo di amore e di comunione con gli altri. 

Testo di mons. Gianfranco Poma
 

Infelice chi guarda solo a se stesso

Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, de­nuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, ado­rare Dio e umiliare i suoi fi­gli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, co­me il fariseo, con un pecca­to in più.

Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sba­gliato: ti ringrazio di non es­sere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si con­fronta con Dio, ma con gli al­tri, e gli altri sono tutti diso­nesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mon­do: l'immoralità dilaga, la di­sonestà trionfa... L'unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.
Io digiuno, io pago le decime, io... Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, strega­te, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a nien­te, è solo una muta superfi­cie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbaglia­to di pregare, che può ren­derci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane.

Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui ricono­scersi, amati e amabili, ca­paci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro esse­re.
Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Ab­bi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno ve­ra.

La prima parola è tu: Tu ab­bi pietà. Mentre il fariseo co­struisce la sua religione attorno a quello che lui fa', il pubblicano la edifica attor­no a quello che Dio fa.
La seconda parola è: pecca­tore, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta».

Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si soc­chiude al sole, come una ve­la che si inarca al vento - a un Dio più grande del suo pec­cato, vento che fa ripartire.
Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debo­lezza di Dio che è la sua uni­ca onnipotenza. 

Testo di padre Ermes Ronchi 

Liturgia della XXX Domenica del Tempo Ordinario (anno C): 24 ottobre 2010

Liturgia della Parola della XXX Domenica del Tempo Ordinario (anno C): 24 ottobre 2010