È la salvezza la vera guarigione

News del 09/10/2010 Torna all'elenco delle news

Dieci lebbrosi fermi a distanza; solo occhi e voce; mani neppu­re più capaci di accarezzare un figlio: Gesù, abbi pietà .
E appena li vede (subito, sen­za aspettare un secondo di più, perché prova dolore per il dolore del mondo) dice: An­date dai sacerdoti. È finita la distanza.
 

Andate. Siete già guariti, an­che se ancora non lo vedete. Il futuro entra in noi molto prima che accada, entra con il primo passo, come un se­me, come una profezia, entra in chi si alza e cammina per un anticipo di fiducia con­cesso a Dio e al proprio do­mani. Solo per questo antici­po di fiducia dato a ogni uo­mo, perfino al nemico, la no­stra terra avrà un futuro.
Si mettono in cammino, e la speranza è più forte dell'evi­denza. Ma chi vuol stare con l'evidenza si rassegni ad es­sere solo il custode del pas­sato.
Si mettono in cammino e la strada è già guarigione. E mentre andavano furono guariti.

Il cuore di questo racconto ri­siede però nell'ultima paro­la: la tua fede ti ha salvato. Il Vangelo è pieno di guariti, un lungo corteo gioioso che ac­compagna l'annuncio. Ep­pure quanti di questi guariti sono anche salvati?
Nove dei lebbrosi guariti non tornano: si smarriscono nel turbine della loro felicità, dentro la salute, la famiglia, gli abbracci ritrovati. E Dio prova gioia per la loro gioia come all'inizio aveva prova­to dolore per il loro dolore.
Non tornano anche perché ubbidiscono all'ordine di Ge­sù: andate dai sacerdoti. Ma Gesù voleva essere disubbi­dito, alle volte l'ubbidienza formale è un tradimento più profondo. «Talvolta bisogna andare contro la legge, per es­serle fedeli in profondità» (Bonhoffer). Come fa Gesù con la legge del sabato.
Uno solo torna, e passa da guarito a salvato. Ha intuito che il segreto non sta nella guarigione, ma nel Guarito­re. È il Donatore che vuole raggiungere non i suoi doni, e poter sfiorare il suo oceano di pace e di fuoco, di vita che non viene meno.
Nel lebbroso che torna im­portante non è l'atto di rin­graziare, quasi che Dio fosse in cerca del nostro grazie, bi­sognoso di contraccambio; è salvo non perché paga il pe­daggio della gratitudine, ma perché entra in comunione: con il proprio corpo, con i suoi, con il cielo, con Cristo: gli abbraccia i piedi e canta alla vita. I nove guariti trova­no la salute; l'unico salvato trova la salute e un Dio che fa fiorire la vita in tutte le sue forme, che dona pelle di pri­mavera ai lebbrosi, un Dio la cui gloria non sono i riti ma l'uomo vivente. Ritornare uo­mini, ritornare a Dio: sono queste le due tavole della leg­ge ultima, i due movimenti essenziali d'ogni salvezza. 

Testo di padre Ermes Ronchi 


I guariti e il salvato

Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio all'infuori di questo straniero

Dalla fede all'azione di grazie: si può riassumere in questo modo il tema della Parola nella liturgia odierna. La fede genera gratitudine, che non è semplice riconoscenza umana, ma essa stessa atto di fede e azione di lode a Colui che ne sta all'origine. La consapevolezza del dono accolto apre al ringraziamento. In questo sta l'eucaristia, memoria della Pasqua e rendimento di grazie.
La seconda colletta ci aiuta nell'esprimere questi sentimenti:
"... ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio".

Due stranieri occupano la scena odierna della liturgia della parola: Naaman il Siro e il lebbroso samaritano del vangelo. Entrambi accomunati nell'esperienza della malattia della lebbra, entrambi attori di un itinerario che non è soltanto quello di una guarigione, bensì l'itinerario di una conversione e di una salvezza.
In una delle ultime tappe del suo pellegrinare verso Gerusalemme, Luca pone il primo miracolo di guarigione compiuto da Gesù. Esso avviene mentre Gesù si muove tra la Samaria e la Galilea o dalla Samaria verso la Galilea. In ogni caso si tratta di una località geograficamente improbabile, ma per l'evangelista narrativamente significativa. Infatti chiude il racconto di guarigione con la medesima parola con cui aveva aperto il brano che abbiamo proclamato la scorsa domenica: il termine ‘fede' aggancia tra loro i due brani evangelici, che svolgono così un'efficace catechesi su questa determinante realtà per la vita cristiana.
Il brano di oggi si compone di due quadri: dopo l'abituale cornice narrativa iniziale, nel primo si ha l'incontro di Gesù con i dieci lebbrosi; il secondo racchiude la reazione del samaritano guarito e di Gesù nei suoi confronti. Già la costruzione narrativa evidenzia come per l'evangelista non sia tanto importante il miracolo quanto la diversa reazione che esso provoca nei lebbrosi guariti. La tradizione ebraica condannava all'isolamento e alla vergogna i lebbrosi. Alla sofferenza fisica si aggiungeva anche l'estraneazione e la solitudine. Non solo malati, dunque, ma anche abbandonati a se stessi, lontani da luoghi abitati, e per di più considerati come gente che subiva un castigo da parte di Dio per qualche colpa oscura. Possiamo ben comprendere allora il grido: "Gesù maestro, abbi pietà di noi!", che esce dalla loro bocca. È anche un grido di fede? È con certezza il riconoscimento di Gesù come il Messia, il Figlio di Dio? Forse è troppo presto per giungere a tali conclusioni. La storia merita di essere percorsa fino in fondo...
La risposta di Gesù non è una liberazione immediata dal male, come in altre occasioni (cfr. Lc 5,12-16), ma è un invito a presentarsi ai sacerdoti. In un certo senso questi uomini sono messi alla prova, non assistono subito a un prodigio, ma devono credere nella promessa di Cristo, devono ubbidire dimostrando di avere fede nella sua parola: solo così essa diventa radice di liberazione. Partono per un viaggio che era loro vietato: la lebbra è ancora evidente, ma più evidente è la speranza; la promessa di Gesù è più forte di piaghe e di paure. Si mettono in cammino tutti e dieci, tutti hanno fede nella parola di Gesù, partono e la strada è già guarigione. Ma uno solo passa da semplice guarito a salvato: l'unico che ritorna, a cui Gesù dice: "La tua fede ti ha salvato!".
Uno solo, tra i dieci, e per di più si tratta di uno straniero. Di un eretico. Di uno che i veri ebrei consideravano lontano da Dio, estraneo al suo popolo, all'autentico Israele.

Ai nove lebbrosi guariti che non tornano è sufficiente la guarigione. Non tornano perché forse smarriti nel vortice della loro felicità, negli abbracci ritrovati. Non tornano forse perché sentono la salute come un diritto e non come un dono; come un diritto e non come un miracolo. I loro corpi, è vero, venivano liberati dalla lebbra. Ma i loro animi non avevano incontrato veramente il Signore. Si era trattato solo di un "tocco", di una "grazia" che non aveva cambiato la loro esistenza. Semplicemente perché quello che interessava loro era solo tornare a casa, veder finita la malattia. Ogni miracolo - e il vangelo di Luca lo ricorda spesso - è una storia incompiuta, una storia che è solo all'inizio, che domanda altro: l'uomo non è il proprio corpo, la pienezza consiste nel passare da semplice guarito a salvato, nel trovare la vita piena entrando in comunione con il Donatore e non soltanto con i suoi doni.

Nell'unico che è tornato, importante non è tanto l'atto del ringraziamento, quasi che Dio fosse in ricerca del nostro grazie, bisognoso di contraccambio. Il lebbroso è salvo non perché paga il pedaggio della gratitudine, ma perché entra in comunione. Con il proprio corpo, con i propri sentimenti, con il Signore.

Accade anche a noi - cui la formazione cristiana ha insegnato a dire "grazie a Dio" o addirittura a ringraziarlo "per averci creato, fatto cristiani, conservati in questo giorno e questa notte..." - che il nostro grazie abbia il sapore della convenzione, dell'abitudine, della doverosità senza conoscere calore e sincera gratitudine. Senza la gioiosa riconoscenza che vede e celebra l'agire di Dio nella nostra vita, perché - in realtà - nelle nostre giornate Dio non l'abbiamo visto e doni adeguati da lui giudichiamo di non averne ricevuti.
E invece il Dio di Gesù è là, nei sapori e negli odori della nostra vita feriale, appunto dove una porta ci è aperta, una ferita si rimargina, un'opportunità di crescita si affaccia, dove un amore resiste saldo nelle bufere dei giorni, dove un figlio cresce, dove troviamo non si sa come e perché il coraggio di andare avanti, di resistere al male, di affrontare e superare pericoli per una vita di qualità migliore, dove asciughiamo una lacrima nascosta per donare ancora un pezzetto di noi a coloro che fanno lo stesso cammino lì dove Dio ci ha seminati. Dio è nel perdono che riceviamo dal sacramento e ci consente di gettare alle spalle il male che abbiamo fatto, nel pane del cammino che ci nutre e ci dà forza, nella Parola che ci autorizza a credere che l'esito della nostra storia e della storia di tutti non sarà una catastrofe perché in esso cresce il seme fecondo del regno.
La finezza che sa dire gioiosamente grazie ricevendo un dono e sa permanere nella gratitudine senza farne un debito da saldare non è quindi un tratto ovvio o spontaneo della natura umana. È frutto di una scelta e di uno stile di vita, di una vita di fede che non misura Dio e non lo processa, ma sa scorgerne le tracce dove egli passa fino a guardare tutte le giornate con occhi nuovi per concludere con l'apostolo Paolo: "Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio" (Rm 8,28). Il dono dell'essere amati dal Padre l'abbiamo comunque e sempre già ricevuto, lo riceviamo e da nessuno ci verrà tolto.
La gratitudine è il nome della fede che risponde a questo amore, sapendo bene che ciò che ci è stato dato è immensamente più grande di ciò che noi avremmo potuto produrre e conquistare.

Testo di don Antonio Mastantuono tratto da "Il Pane della Domenica". Meditazione sui vangeli festivi, Ave, Roma 2009 


La fede che salva gli emarginati.

L'episodio dei dieci lebbrosi si trova solo in Luca. Passando tra la Samaria e la Galilea, Gesù incontra questi lebbrosi, obbligati ad abitare fuori dal villaggio e lontani dal convivio sociale (v. 12; cfr. Lv 13,46). Uno di loro è samaritano (cfr. V. 16). Giudei e samaritani coltivavano un odio reciproco. Ma qui stanno insieme e sono "solidari"; la disgrazia, molte volte, unisce le persone, anche se nemiche. Quando qualcuno ha coscienza della esclusione sua e degli altri, l'unica uscita e solidarizzarsi con gli esclusi.
Secondo la Legge i lebbrosi dovevano spaventare e allontanare le persone che tentavano di avvicinarsi (cfr. Lev 13,45). La lebbra era considerata castigo di Dio. In questo racconto, i lebbrosi e, specialmente il samaritano, sono la sintesi dell'esclusione e della povertà al tempo di Gesù. Obbediscono alla Legge (infatti, gridano), ma la trasgrediscono pure, in nome della fede nel Dio che salva gli esclusi: "Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!" (v. 13). Il clamore di quanti vivono ai margini della società è un appello alla vita, più che una denuncia della loro miseria.
Gesù risponde alla fede degli emarginati: "Andate a presentarvi ai sacerdoti" (v. 14a). I sacerdoti erano incaricati di dare il "certificato di guarigione" al lebbroso curato, e dopo, questo e il sacerdote, dovevano fare un rito complicato e misterioso e offrire sacrifici (Cfr. Lev 14,1-32). Il dettaglio è importante, perché solo il samaritano ritorna per dare gloria a Dio. Ciò suscita una domanda: che cosa è importante: restare nell'istituzione incapace di curare o ritornare da Gesù, colui che crea coni poveri ed emarginati, storia e società nuove?
La cura avviene mentre camminavano (v.14b): un altro dettaglio importante, perché inserito nel lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove sarà ucciso e risusciterà. "Alzati, e vai!" (v. 19) è un imperativo ("anastàs", in greco) che ricorda la risurrezione ("anàstasis") di Gesù.
Solamente il samaritano, al percepire che era curato, ritornò dando gloria a Dio a voce alta; si inginocchiò ai piedi di Gesù e lo ringraziò (vv. 15-16). Nel vangelo di Luca, l'espressione "dare gloria a Dio" è caratteristica dei poveri ed oppressi che Gesù incontra sul cammino, liberandoli dall'emarginazione (cfr. 2,20: i pastori; 5,25: il paralitico; 13,13: la donna piegata; 18,43: il cieco di Gerico; 23,47: l'ufficiale romano). Questo ci aiuta a percepire a chi si dirige la buona novella della liberazione; ci mostra che Dio si allea con coloro che furono messi ai margini della società; ci evidenzia che gli emarginati sono gli unici a riconoscere la presenza di Dio nella storia, creando una nuova storia insieme agli impoveriti. Dare gloria a Dio non è offrire sacrifici, bensì riconoscere che in Gesù Dio sta liberando gli emarginati. E mettersi a cammino insieme a Gesù è la migliore forma di impegno dei cristiani.
Il Vangelo parla di dieci lebbrosi, ma uno solo fu salvato: "la tua fede ti ha salvato" (v. 19). É un'altra espressione cara all'evangelista Luca (cfr. 7,50: la peccatrice nella casa di Simone; 8,48: la donna che soffriva di emorragia; 18,42: il cieco di Gerico).

Domenica scorsa, coi discepoli, chiedevamo al Signore di aumentare la nostra fede. Il brano di oggi mette in dubbio la nostra fede: cosa significa vivere la fede, qui in Brasile, in mezzo agli innumerevoli emarginati? Abbiamo i lebbrosi veri e propri, anche qui a Goi'nia, nella colonia Santa Marta. Anni fa', poliziotti e latifondisti, obbligarono vari contadini a mangiare il cervello dei loro compagni morti sotto le fucilate assassine di coloro che dovrebbero difendere il cittadino dai soprusi dei prepotenti. Ci sono tanti tipi di lebbra. É il solito problema: qual è il nostro discernimento cristiano davanti ai fatti della vita? É la lebbra del "non tocca ancora a me". Quando sarà il mio turno, allora ricorrerò a Dio e chiederò il miracolo. Se la disgrazia cade sugli "altri", c'è la legge, le istituzioni; la disgrazia altrui, difficilmente mi "tocca".
Mi viene spesso da pensare alla (im)parzialità dei nostri bei discorsi: siamo buoni, finché gli altri "non ci rompono"; se rompono i nostri schemi, subito li cataloghiamo: emarginati marginali, banditi e..., oggi, terroristi. Secondo il nostro non "voler camminare con gli altri", la lebbra è piaga purulenta di altri; mai ammetteremo che anche noi possiamo esserne infetti e quindi solidali per liberarcene insieme.
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Testo di padre Tino Treccani, dall' Omelia del 14-10-2001