Non si sono trovati altri che tornassero per rendere gloria a Dio, se non questo straniero?

News del 09/10/2010 Torna all'elenco delle news

Il brano del Vangelo di Luca che leggiamo nella XXVIII domenica del tempo ordinario (Lc.17,11-19) segna l'inizio della terza tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme: si tratta di una nuova tappa del cammino che l'evangelista fa percorrere alla sua comunità perché maturi nella fede e di conseguenza possa annunciarla al mondo.
Questa tappa che comincia sottolineando che Gesù continua il suo viaggio verso Gerusalemme (17,11) e si chiude con la notizia del suo ingresso nel Tempio (19,45-48), ha una forte unità tematica: il Regno di Dio come esperienza di salvezza, con una particolare insistenza sulla identità di coloro che ne godono.

Il brano che oggi leggiamo è l'introduzione a questa nuova tappa: in sintesi, evoca tutto il senso della missione di Gesù. Dobbiamo sempre ricordare che il Vangelo è fortemente incarnato nella concretezza della vita della comunità e per questo esercita una forte provocazione sulla comunità cristiana di ogni tempo, oggi sulla nostra.
"E avvenne, mentre andava verso Gerusalemme, che egli passò tra Samaria e Galilea". Il racconto comincia con una indicazione apparentemente solo geografica: Luca, che aveva già parlato della cattiva accoglienza di un villaggio della Samaria (9,52-56), vuole preparare il lettore all'incontro con il lebbroso samaritano, sottolineando la dimensione universale della missione di Gesù.
Ma in che cosa consiste questa missione? L'evento che qui viene narrato ci apre alla comprensione della missione di Gesù e riassume le modalità richieste per la sua accoglienza, secondo quanto è già stato presentato nei capitoli precedenti e poi ci fa compiere un passo oltre, per la comprensione e l'accoglienza della novità della missione.

L'evento inizia con un incontro: "mentre egli entrava in un villaggio, gli si fecero incontro dieci uomini lebbrosi". Gesù cammina verso gli uomini e gli uomini verso di Lui: la fede comincia proprio da questo cercarsi vicendevole di Dio e degli uomini.
Sono dieci uomini lebbrosi: sono uomini con tutto il loro desiderio di vita, ma sono lebbrosi che "si accostano a Gesù pur restando a distanza". Sta in questo il motivo più profondo della loro sofferenza: sono degli esclusi, devono rimanere lontano. La Legge impedisce a loro di avvicinarsi agli altri perché sono contagiosi sotto tutti gli aspetti: la lebbra è una malattia molto contagiosa ed è, inoltre, considerata come il segno del peccato e quindi della maledizione divina. Non rimane che la voce per farsi ascoltare: "Alzarono la voce e dissero: Gesù, maestro, abbi pietà di noi".
Dal cuore di questi uomini a cui è tolta la possibilità di relazioni normali e quindi di realizzare la propria vita, sgorga la preghiera: "Gesù" è l'uomo che essi percepiscono come capace di condividere la loro sofferenza; "maestro": è l'unica volta che Gesù viene chiamato così da qualcuno che non è suo discepolo, con un termine che non ha però riferimento all'insegnamento, quanto alla guida autorevole; "abbi pietà di noi" è l'invocazione che esprime tutta la impotente povertà dell'uomo che non trova soccorso se non nella gratuita e totale misericordia di Dio. "Gesù, vedendoli, disse loro: andate, mostratevi ai sacerdoti".
L'incontro tra Gesù e i dieci uomini lebbrosi avviene a distanza: la loro voce ha gridato; Gesù li ha visti e ha parlato a loro chiedendo: "Andate, mostratevi ai sacerdoti". Questo ordine è una promessa di guarigione: mostrarsi ai sacerdoti era il cammino che i lebbrosi dovevano compiere secondo la Legge che Gesù stesso osserva, perché la loro guarigione fosse ufficialmente riconosciuta. "E avvenne che mentre essi andavano, furono purificati": la loro fiducia li ha esauditi.

La malattia aveva avvicinato questi dieci uomini: adesso non sono più dieci lebbrosi, uomini esclusi. La guarigione mette in evidenza il fondo del loro cuore: adesso sono nove buoni Giudei e un Samaritano, una specie di eretico. "Andate, mostratevi ai sacerdoti": hanno avuto fiducia in Gesù, hanno osservato la Legge. Per i nove Giudei il cammino è concluso: forse a loro interessava proprio solo questo, che la Legge li dichiarasse "purificati".

Ma non è così per l'unico straniero, l'eretico, il Samaritano: per lui il cammino non è finito, a lui non basta e non interessa essere dichiarato "purificato" dalla Legge. L'esperienza che egli sta vivendo è così grande che la sua vita rinasce. Gesù non è riconducibile al maestro che richiama la Legge: è la gratuità dell'amore, colui che ha pietà verso l'uomo povero, è colui che guarendolo, lo fa nuovo. "Uno di loro, vedendo che era guarito, ritornò glorificando Dio a gran voce". L'esperienza della fede è personale, è l'esperienza interiore del sentirsi interiormente sanato, è il ritorno dentro di sé, è l'esplosione di gioia per il riconoscimento dell'azione che Dio solo può compiere per l'uomo. Ed è l'esperienza dell'incontro con Gesù, Dio che si è fatto vicino: "e cadde faccia a terra ai suoi piedi, ringraziandolo".
La fede è l'esperienza personale di ciò che Gesù fa per noi: è Lui che ci ama di un amore senza limiti. La fede non può non diventare ringraziamento, "eucaristia": nell'esperienza di questo uomo solo, samaritano, straniero eretico, possiamo ricomprendere il senso della nostra "eucaristia". Solo chi ha il coraggio di sentirsi fino in fondo "lebbroso", di gridare dall'abisso della propria povertà: "abbi pietà di me", di sperimentare l'infinito del dono di Gesù per noi che arriva fino a dare la sua carne e il suo sangue per diventare nostra carne e nostro sangue, può gridare di gioia, rendere gloria a Dio e "ringraziare" (eucaristia) Gesù che ci fa vivere questa esperienza.
Ma molte volte ci accontentiamo come i nove Giudei, dell'osservanza della Legge e non varchiamo la porta della Grazia: i nove Giudei hanno continuato il cammino verso il Tempio, solo il Samaritano ha cambiato rotta, è tornato, ha ringraziato Gesù. E Gesù gli ha detto: "Alzati (ed è il verbo della risurrezione), cammina: la tua fede ti ha salvato".

La fede è l'esperienza che va oltre la purificazione, la guarigione: è salvezza, libertà, pienezza di vita. 

Testo di mons. Gianfranco Poma 


Nesso tra le letture

"L'obbedienza della fede" ci aiuta a leggere unitariamente i testi di questa domenica. I dieci lebbrosi si fidano della parola di Gesù e si mettono in cammino per presentarsi ai sacerdoti, affinché questi ultimi riconoscano che essi sono stati guariti dalla lebbra (vangelo). Naaman il siro obbedisce alle parole di Eliseo, alle istanze dei suoi servi, immergendosi sette volte nel Giordano, per cui viene guarito (prima lettura). L'obbedienza della fede fa sì che Paolo finisca in catene e debba soffrire non pochi patimenti (seconda lettura).

Il potere dell'obbedienza. I due miracoli di cui ci parlano i testi mettono in risalto il potere dell'obbedienza. Non ci sono gesti di guarigione né di Eliseo né di Gesù. Non si pronunciano formule terapeutiche, dirette all'infermo, come accade in altri racconti di miracoli. C'è solamente un comando. Quello di Eliseo a Naaman suona così: "Va' e bagnati sette volte nel Giordano". Al lebbrosi Gesù dice: "Andate e presentatevi ai sacerdoti". Sia Naaman che i dieci lebbrosi ancora non sono stati guariti, e neppure sanno se lo saranno. Ma si fidano, ed obbediscono. E la forza della loro fiducia e della loro obbedienza fece il miracolo. L'obbedienza implica già, almeno, un grado minimo di fede nella persona a cui si obbedisce. Una fede che non è esente da inciampi e difficoltà.

Ciò è evidente nella storia di Naaman. Aveva un altro concetto ed altre aspettative sul miracolo e sul modo di realizzarsi: "Mi verrà sicuramente incontro, si fermerà, invocherà il nome di Dio, passerà la sua mano sulla mia parte malata, ed io guarirò dalla lebbra!". Nulla di ciò accadde. Egli non vide nemmeno Eliseo, poiché il messaggio del profeta gli giunse tramite un intermediario. Naaman era furioso, e se ne stava tornando a casa, perduta ogni speranza di guarire. Sul cammino, persuaso dai suoi servi, obbedì, si bagnò nel Giordano e "la sua carne tornò ad essere come quella di un bambino piccolo, e fu guarito". Naaman infine, si rese conto che non sono le acque quelle che guariscono la lebbra, ma lo Spirito di Dio, che si serve del Giordano, come di molti altri mezzi, per fare il bene e salvare l'uomo.

I dieci lebbrosi, al comando di Gesù, si misero in cammino verso il tempio di Gerusalemme. Dovevano camminare per alcuni chilometri. Continuavano ad essere lebbrosi e... come salire così fino a Gerusalemme, e presentarsi ai sacerdoti? Non sarebbe stato meglio aspettare fino a constatare che erano realmente guariti? Vinsero queste difficoltà, e nel cammino sentirono che la loro carne si rinnovava e si sanava. L'obbedienza della fede possiede la potenza del miracolo. Non è forse l'obbedienza della fede a far sì che Paolo sia incarcerato per il Vangelo? A permettere a Paolo di sopportare qualsiasi sofferenza perché la salvezza giunga a tutti?

La "guarigione" integrale. Naaman fu guarito dalla lebbra, ma continuava ad essere malato di cecità spirituale. Come uomo bene educato, ritorna a casa di Eliseo e gli offre, in segno di ringraziamento, ricchi regali. Eliseo li rifiuta. Adesso, davanti all'uomo di Dio, cominciano ad aprirglisi gli occhi sul vero Dio, fino al punto di arrivare a dire: "Il tuo servo non offrirà più olocausto né sacrificio ad altri dei che a Javeh". Qualcosa di simile accade a uno dei lebbrosi al momento di essere guarito. Nove di essi proseguono la loro marcia verso Gerusalemme, si presentano al sacerdote e ritornano felici a casa, dimenticandosi di Gesù e rendendo così impossibile il fatto che Gesù gli conceda la salvezza che egli è venuto a portare agli uomini. L'ultimo, un samaritano, vedendosi guarito, sente interiormente l'impulso di tornare da Gesù per ringraziarlo. Si prostra ai suoi piedi in riconoscente adorazione. E Gesù gli concede non solo di vedersi libero dalla lebbra, ma anche dal peccato, da tutto ciò che gli impediva di ottenere la salvezza. "Va', la tua fede ti ha salvato". A Paolo l'incontro con Gesù sulla via di Damasco ha aperto gli occhi alla fede in Cristo, liberandolo dalla sua mentalità strettamente farisaica, dal suo odio verso i cristiani, perfino dalle stesse debolezze umane, fino al punto di sopportare serenamente le catene della prigione e di mantenersi fermo nella sequela e nell'annuncio del messaggio evangelico. Veramente Gesù Cristo è il grande medico di corpi ed anime.

Ragioni per obbedire. Ogni uomo, dalla nascita alla tomba, passa gran parte della vita obbedendo. Come uomini e come cristiani risulta proficuo che abbiamo delle buone ragioni per obbedire.

- L'obbedienza piace a Dio. Dio non è un estraneo, è nostro Padre. Come non cercare di piacergli?

- Gesù, nostro modello, è un testimone supremo di obbedienza. Obbedì a Dio nei lunghi anni passati a Nazareth, sottomettendosi ai suoi genitori. Obbedì a Dio durante la sua vita pubblica, avendo come suo alimento quotidiano la volontà di suo Padre. Gli obbedì fino alla morte, e alla morte di croce.

- Lo Spirito Santo ci accompagna e ci rafforza interiormente, in modo che obbedendo non ci sentiamo soli e deboli.

- Il "fiat" di Maria ci interpella nella nostra obbedienza sollecita, semplice e costante alla vocazione e alla missione che Dio ci ha affidato. Il "fiat" generoso di Maria, che ricordiamo tre volte ogni giorno, è un pungiglione nella coscienza cristiana.

- Il carattere sociale dell'uomo e il carattere comunitario della fede parlano da soli della necessità di una organizzazione, di una autorità, e, di conseguenza, della necessità dell'obbedienza.

- L'obbedienza, quando si fa con fede e con amore, infonde una gran pace in colui che obbedisce. Il lemma episcopale di Papa Giovanni XXIII lo pone in evidenza: "Oboedientia et pax".

- L'obbedienza credente e amorosa contribuisce potentemente alla maturazione della personalità cristiana, che ha come programma, al di sopra di tutto, la volontà di Dio. "Prima di tutte le cose, la tua Volontà, Signore".

- L'esperienza e la prudenza che possiedono i genitori e gli educatori, così come la grazia propria che hanno ricevuto coloro che detengono qualche autorità nella Chiesa.

- L'efficacia che l'obbedienza dà a una istituzione civile o ecclesiastica nel conseguimento dei suoi fini propri. Dalla unione e dalla obbedienza viene la forza.

Dissenso e obbedienza. L'individualismo, così accentuato al giorno d'oggi, è una via ampia che conduce facilmente al dissenso nel seno della famiglia, della società e della comunità ecclesiale. Il dissentire su cose opinabili, senza molta importanza, passi. Ma il dissentire abituale su aspetti fondamentali della vita e della fede, — e il farlo come un diritto inalienabile dell'uomo — costituisce un'audacia al limite di una certa intemperanza intellettuale o di una chiara ignoranza supina. È vero che, in certe occasioni, ci può essere un dissenso legittimo, se sorge dopo una matura riflessione, con un sincero affanno di ricerca della verità, e si manifesta con discrezione per i canali stabiliti. A volte, invece, si ha l'impressione che ci sia gente che è a caccia di una dichiarazione del vescovo o del papa per dissentire da essa quasi automaticamente. La Chiesa non è un agglomerato di individui, né è la ragione l'unico metro della vita ecclesiale. Perché non elevarsi al di sopra di tutto ciò, e mettere a tacere la tentazione del dissenso per mezzo di una fede robusta e di una obbedienza semplice ed ecclesiale? Il Regno di Cristo ne guadagnerebbe in credibilità nel concerto degli uomini! E, soprattutto, noi saremmo dei cristiani migliori! 

Testo di Totustuus 
 

Liturgia della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: 10 ottobre 2010

Liturgia della Parola della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: 10 ottobre 2010