Fede, perseveranza e umiltà

News del 01/10/2010 Torna all'elenco delle news

La fede è una virtù teologale che mentre ci ottiene familiarità con Dio ci aiuta a conseguire vantaggi personali e relativi alle relazioni con gli altri e come abbiamo detto più volte consegue anche le dovute ricompense.
Ciò tuttavia non toglie che essa ha anche i suoi risvolti in negativo, perché nel suo ambito comprende oltre ai benefici anche sacrificate vessazioni e dure ed estenuanti visite di prova.
Affidarsi a Dio in ogni situazione vuol dire infatti accettare le garanzie e le ricompense, ma, come del resto anche la Scrittura contempla più volte, anche saper soffrire maltrattamenti, ingiustizie, persecuzioni e cattivi eventi, a volte proprio nel momento in cui ci si mostra fedeli al Signore.

La fede si saggia infatti costantemente, come l'oro è provato con il fuoco (1Pt 4, 12), ma vi sono esperienze nelle quali, in effetti, è proprio difficile accogliere deliberatamente certi tormenti e certi tartassamenti a dir poco assurdi o altre situazioni simili che conducono sempre il credente alla tentazione di conclusioni disastrose, essendo difficile, in questi casi, conciliare la fede in un Dio buono e provvidente con l'esistenza del male sotto tutti gli aspetti.

Il profeta Abacuc, considerando lo stato precario del popolo contemporaneo in occasione dell'incursione di Nabucodonosor, è mosso dallo sconforto e si concede esclamazioni incalzanti del tipo: "Fino a quando Signore?"; si domanda cioè fino a quando sarà costretto a vedere iniquità e contese tutt'intorno e per implicito anche fino a quando debbano subire immeritato castigo i giusti e i retti, e si assisterà al trionfo incontrastato dei malvagi e dei prepotenti, che continueranno a passare inosservati nelle loro malefatte. Sono domande che ricorrono anche nel Quoelet, che interessano parecchi Salmi e che sottendono lo stato di angoscia e di dolore che anche in tempi odierni, poiché l'evidenza degli orrori della fame e delle guerre sanguinose causate da egoistici interessi di pochi danno luogo a situazioni di odio e di violenza, mentre le persone rette e probe sono costrette ad assistere ad una giustizia inesistente nei confronti di chi truffa', specula e raggira molte volte ai danni delle persone più deboli.
Molte volte la giustificazione teorica per la quale Dio dal male trae sempre il bene non è sufficiente a consolare chi è stato appena gravato da un grave lutto immeritato o ha subito un torto o un'ingiustizia esorbitante alla quale mai potrà porre rimedio.

Vivere la fede è quindi molto difficile anche perché le devianze del presente, come afferma Paolo, ci conducono a vedere Dio in modo confuso, come attraverso uno specchio in attesa di una visione chiara e cristallina del suo volto nei tempi ultimi (1Cor 13, 9 e ss.) e viene da domandarsi: quali garanzie offre la fede di fronte a tante ingiustizie e oppressioni? Perché Dio consente determinate cose?

Come osserva Grun, il cristianesimo non propone una teoria né immediatamente una lezione o una strategia di difesa o di prevenzione dal male o da quanto possa distoglierci da Dio, ma semplicemente ci invita a concentrarci su una persona: Gesù Cristo. Egli che era Dio come il padre e lo Spirito Santo, si è fatto obbediente sottomettendosi in tutto alla volontà del Padre e sperimentando anche da parte del Padre l'abbandono, poiché così si esprime pochi attimi prima di spirare: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?" Se lui, che viveva in terra la comunione con Dio Padre nella pienezza della sua divinità, ha sperimentato l'abbandono di Dio come non poteva avvertire la sensazione propria di chi soffre ingiustamente, nonostante tanta fedeltà e fervore devozionale verso il Signore? Come non poteva non provare il disappunto di chi soffre immeritatamente, di chi è costretto ad assurdi destini di sconfitta immeritata? Se lui che era Dio ha fatto esperienza dell'abbandono di Dio, certo avrà compreso l'amarezza delle pene immeritate.
Gesù ha sofferto anche la falsità di chi lo accusava ingiustamente, la persecuzione di chi, come scribi e farisei, non si arrendeva alla sua divinità nonostante l'evidenza dei miracoli e alla concretezza di atti di misericordia che sono propri solo di un Dio Amore, ha sopportato le prevaricazioni e gli insulti, le persecuzioni, il tradimento vile di uno dei suoi e il rinnegamento da parte di colui che egli aveva scelto a pietra angolare della sua Chiesa.
Gesù ha anche previsto per i suoi discepoli persecuzioni, angosce e astute perversità da parte di avversari e nemici menzogneri: "E mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia" e ha annunciato ai suoi che sarebbero stati condotti nei tribunali e avrebbero subito ogni sorta di condanna. Ma aveva anche concluso che chi persevera fino alla fine sarà salvato.

Perseveranza
. Questa è quindi la parola chiave perché la nostra fede possa ravvivarsi e alimentarsi come una fiamma anche nel vortice dei problemi e delle angosce; essa ci sprona a non demordere ma ad osservare la croce di Cristo quando si è costretti a portare la propria; a persistere nella fedeltà assoluta a Dio nella circostanza di eventi tristi e di immeritate cattiverie e a subire gli oltraggi e le pene di quella che noi definiamo la fatalità. Se la fede ci sottopone a prove e a raccapriccianti delusioni, essa, quando si poggia sulla fiducia e sulla speranza, rende facile l'aggravio di tante ostilità. Purché la speranza si fondi in nient'altro che nella croce dello stesso Signore e purché la croce diventi la chiave di interpretazione di tutto il male a cui siamo costretti. Paolo esorta Timoteo (II Lettura) con parole di conforto che servono allo stesso tempo da imput ministeriale e apostolico nel fronteggiare ogni avversità: "Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo."

Gesù indica un espediente sempre valido e attuale perché la fede dei suoi discepoli sia sempre all'altezza di ogni avversità, e questa risorsa è quella dell'umiltà: essa è il presupposto della fede e di ogni altra virtù e suppone sempre disposizione al servizio e all'abnegazione nei confronti di Dio, fiducia disinvolta e indiscussa in Lui soprattutto al momento del dolore e della prova, affidamento alla croce come preambolo della resurrezione. Che un padrone si mostri così burbero e crudele da pretendere che il suo servo, stremato dalla fatica nei campi, non si rifocilli e provveda subito a servirlo a tavola, questo non sempre è possibile che succeda. Quello che fra le righe vuole sottolineare Gesù è appunto l'umiltà e la disposizione paziente che molte volte richiede la nostra fede in lui e la perseveranza nonostante le prove ingenti e massacranti e se la fede si combina con la perseveranza e con l'umiltà essa diventa davvero prerogativa abnorme in grado di smuovere le montagne e sradicare alberi. Forse essa non provocherà questi fenomeni in senso materiale, ma certamente otterrà i dovuti effetti di gratificazione e di ricompensa.

Ma l'intendimento parabolico di Gesù sottende anche un altro significato: sarà Dio stesso, alla fine, il padrone comprensivo che non soltanto non pretenderà sforzi mostruosi dai suoi servi fedeli, ma sarà disposto a passare a servirli egli stesso a tavola, così come Gesù insegna in un altro discorso parabolico sulla vigilanza: Dio non solamente ricompensa la nostra fatica e il nostro sudore, ma si dispone anche a servirci nella misura della nostra fedeltà. Per questo motivo la fede non deve soccombere alla nostra debolezza né gli ostacoli e le prove devono sminuirne la forza e l'efficacia; piuttosto essa va rinvigorita dall'umiltà e dalla penitenza. 

Testo di padre Gian Franco Scarpitta 


Fede e gratuità caratterizzano la vita del cristiano.

Continuiamo sempre la lettura di Luca, mostrando Gesù a cammino di Gerusalemme, e, di riflesso, il cammino della comunità cristiana, con le sue crisi e ricerche di soluzioni alle sfide proposte dalla pratica cristiana. Che tipo di fede avevano i primi cristiani? Forse anche loro si chiedevano: perché non riusciamo a riprodurre nella pratica il progetto di Gesù? Cosa ci manca per affrontare e superare le sfide che incontriamo sul cammino?

La fede genuina è capace di superare i vicoli ciechi (vv. 5-6)

I discepoli avevano ricevuto da Gesù il "potere di camminare sopra i serpenti, scorpioni e ogni forza del nemico" (10,19). E, tornando dalla missione, riconoscono che "pure i demoni ci ubbidiscono per causa del tuo nome" (10,17). Era questo l'ideale del discepolo.
Col passare del tempo, tuttavia questo potere sembra si sia affievolito. Quale sarà la causa?. Perché la comunità non si caratterizza più con quelle azioni e parole capaci di superare ogni avversità (= demoni, scorpioni, serpenti)?
Gli evangelisti cercano di scoprire il perché di questo affievolimento. Marco condensa la crisi di fede delle comunità nell'episodio dell'epilettico indemoniato (Mc 9,14-19) dove, nell'assenza di Gesù, i discepoli non riescono a mettere in pratica il mandato del Signore. Luca, a sua volta, ne ricerca la causa. In 17,5 gli apostoli chiedono: "Signore, aumenta la nostra fede!" Gesù risponde che non si tratta di "quantità" della fede, ma di "qualità". Deve essere genuina, come il seme che porta in sé tutte le potenzialità dell'albero. Ricordiamo il seme di mostarda (13,18-19). Se così fosse, la fede potrà superare i maggiori ostacoli, simbolizzati qui dal gelso, albero che, per causa delle sue radici profonde, non potrà essere sradicato da nessuno con le sue sole forze.

La gratuità di coloro che annunciano il Vangelo (vv. 7-10)

Il testo è proprio di Luca. Il fatto di non esserci paralleli negli altri vangeli, ci dice che questa parabola deve essere intesa alla luce dei problemi dell'evangelizzazione affrontati da Luca, compagno di Paolo. La parabola riflette la pratica pastorale paolina, ampiamente descritta in 1 Cor 9 e riassunta nei versetti 16-19: Paolo si fa "servo" di tutti. Paolo è servo del Vangelo: l'evangelizzazione non nacque per iniziativa propria, ma è "imposizione". Non ha diritto a stipendio. Meglio ancora: "il suo stipendio è annunciare gratuitamente", facendosi servo di tutti, ad esempio di Gesù (cfr. Lc 22,27: "Io sono in mezzo a voi come colui che serve"). Inoltre, l'immagine del servo che lavora la terra e custodisce gli animali (Lc 17,7, doppia giornata di lavoro, come Paolo in 1Ts 2,9) è la stessa che Paolo usa per caratterizzare il suo lavoro apostolico (cfr. 1Cor 9,7.10). Pur avendo diritto di usufruire di questo lavoro, non fa valere questo diritto (1 Cor 9,18; cfr. 1Ts 2,4-8).
Nonostante Gesù abbia affermato che l'operaio è degno del suo salario (Mt 10,10; Lc 10,7), Luca proietta questo ideale di vita vissuto da Paolo, come valido per tutti coloro che annunciano il Vangelo. Si può quindi interpretare questa parabola in chiave di evangelizzazione. Il discepolo evangelizza per mandato di Dio stesso, non per sua iniziativa. Di conseguenza, non deve esigere niente in cambio. Gesù, che affida ai discepoli il suo progetto, non si sente obbligato a rispetto dei discepoli quando questi compiono il loro dovere.

...É un'altra proposta dura di Gesù, sempre a cammino di Gerusalemme. Servi inutili che non possono reclamare di niente, se non di fare il proprio dovere. Evangelizzare i popoli, dentro le loro culture, senza ostentare meriti alla Geremia o Paolo di Tarso. Annunciatori e testimoni del Vangelo: ecco la nostra vocazione cristiana. Come le prime comunità anche, a noi, oggigiorno, può succedere di esserci intiepiditi e, di conseguenza, di ostacolare il progetto di Dio annunciato da Gesù. Forse la nostra fede è sminuita, in qualità, nonostante la quantità delle devozioni. Forse alla verità come "gratuità", preferiamo qualcosa di più umano, magari "una guerra agli infedeli". Oppure addobbiamo bene la nostra casa, magari presentandola come il modello dei sacri valori della libertà e della democrazia; solo che, fuori casa, ce ne dimentichiamo subito di questi nobili concetti e, per non imbrattare il nome dei nostri governi arlecchini, giustifichiamo la non etica delle multinazionali, come divinità intangibili. Che fare? Noi cristiani ci consegniamo spesso al fato, al destino, senza ammetterlo, perché ci fa comodo. Inoltre avanziamo meriti e allori di riconoscimento, senz'altro conquistati nell'arco di lunghi secoli, ma non sempre, ne calcoliamo i prezzi.
Facciamo pellegrinaggi su pellegrinaggi, ai più santi santuari del mondo (per il momento, i maggiori sono in Europa), chiediamo grazie e preghiamo per la nostra salvezza... Siamo servi inutili, non stiamo facendo altro che il nostro dovere. Paolo si è fatto greco con i greci e giudeo con i giudei: noi invece, vogliamo fare cristiani gli altri. Mi chiedo se, prima di convertire gli altri, riesco a convertire me stesso, chiedendo a Dio di migliorare la qualità della fede.
 

L'evangelizzazione non è un tema da salotto, né di un simposio: è vita donata, in sacrificio e gioia, come proposta e gratuità; è scambio del meglio che Dio ha messo nel cuore di ogni uomo e cultura; è coscienza che l'unico ovile è la comunione tra le razze e non una tavola rasa di codici; è dono schietto della gioia di vivere, anche con poco o meno di quanto pensiamo ci sia necessario. La qualità della fede, penso sia proprio credere che i poveri ci evangelizzano, non perché più santi di noi, bensì perché più bisognosi di dignità e di rispetto, di condivisione e di fratellanza, perché Dio ha messo la sua dimora tra di loro.
Ed è chiaro che pensare secondo il Vangelo è uno schiaffo alle "soluzioni mediatiche" delle società che si auto-denominano esemplari, è un "non avere i piedi per terra" secondo l'efficientismo del denaro; è "terrore e pericolo" per i detentori del potere. D'altra parte, i primi cristiani, furono tacciati di "ribelli e sobillatori" dal proprio Impero Romano. Il tempo è ironico a sufficienza: l'impero romano non esiste più, i cristiani si sono moltiplicati. Dobbiamo solo verificare se la nostra "quantità", in questi 20 secoli, è andata e va di pari passo con la qualità della fede in Gesù.
Se abbiamo superato i nostri antenati e stiamo dando al mondo il fior fiore del Vangelo, lodiamo il Signore: siamo stati servi e non tanto inutili. Se, purtroppo, abbiamo copiato i loro vizi, continuando ad ostacolare il Regno di Dio, chiediamo perdono al Signore, ammettendo che siamo inutili servi e che non abbiamo fatto il nostro dovere. Il tempo setaccerà le nostre chiacchiere: il grano buono resterà, la pula se ne andrà col vento, nonostante i nostri sforzi di averla spacciata e confusa come vangelo. Quando avremo tolto le cassettine delle elemosine nelle nostre chiese e le avremo sostituite con solidarietà e condivisione vere, avremo segni chiari che il nostro essere "servi inutili" sarà luce e sale per i popoli. Quando il profitto lascerà le nostre comunità e si trasformerà in equità di rapporti, potremo credere che la democrazia non è un sogno di qualche immaginario, ma il cammino che unirà veramente i popoli.
Il problema è che ci siamo imposti una ragione, individuale e collettiva, che ci impedisce di credere a queste utopie. Il problema è che non abbiamo fede, nemmeno piccola come un granello di senape: come spostare le montagne della fame nel mondo, il terrorismo, le fazioni (lasciamo perdere i nomignoli di destra e sinistra), l'individualismo, la prepotenza del mercato, se non so togliere le ragnatele dalla mia chiesetta? Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete. Chiediamo pace, diamola questa pace. Chiediamo giustizia, eliminiamo la vendetta. Chiediamo l'avvento del Regno di Dio, viviamolo. Non giustifichiamo con teorie le nostre omissioni. Il rischio è quello di trasformare il ricchissimo patrimonio della fede cristiana in pagliacciate bugiarde. 

Testo di padre Tino Treccani 


La misura massima: un granellino di senapa


La fede non è questione di quantità perché non si tratta di misurarla... se la misuri corri il rischio di misurare anche quello che fai all'interno della comunità, e la piccola parabola dei servi inutili va proprio nel senso contrario a questo. Se il criterio del mio discepolato è la quantità, allora sarò solo capace di rivendicare diritti e posizioni all'interno della comunità presentando come credenziale tutto quello che ho fatto... di più... se il criterio è quello della quantità sarò capace solo di misurare quello che fanno (o non fanno) gli altri. Mi pare il modo migliore per fare terra bruciata attorno a me e per rimanere solo.

Se aveste fede quanto un granellino di senapa... ci viene consegnata questa immagine, quella del seme più piccolo che c'è... e in altra del vangelo si dice: il regno dei cieli si può paragonare ad un granellino di senapa... Che bello! La nostra fede ha nel granellino di senapa la stessa dimensione del regno di Dio. La dimensione del granellino di senapa non quindi la dimensione minima richiesta, ma la dimensione massima richiesta... più del granellino non si può, perché così è il regno dei cieli... 

Testo di don Maurizio Prandi