Il credere e le sue ragioni: "... se aveste fede come questo granellino di senapa..."

News del 01/10/2010 Torna all'elenco delle news

"Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: "Violenza!" e non soccorri? Perché mi fai vedere l'iniquità e resti spettatore dell'oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese".
Sono le parole iniziali del dialogo tra il profeta Abacuc e Dio. Non sappiamo nulla di lui, si presenta lui stesso come il freddo scettico che, nel suo abituale dialogo con Dio nel tempio, ha l'ardire di chiedergli certi conti, di farsi spiegare il suo comportamento quando castiga un malvagio con uno peggiore di lui (il malvagio per lui è l'impero assiro, il peggiore sarebbe l'impero neobabilonese).

La situazione che sta davanti agli occhi del profeta è segnata da disgrazie, dolori, violenze, lotte, contese; e Dio sembra non rendersene conto, come se fosse impotente o distratto. Eppure si tratta del suo popolo che sta vivendo un'amara schiavitù! Il profeta si domanda "fino a quando" durerà questa situazione. E se Dio risponde che castigherà il malvagio attraverso un altro ancora peggiore di lui, il profeta chiede "perché"; non si instaurerebbe in tal modo una catena cruenta che pone un popolo contro un altro popolo?

Il profeta sembra sfidare Dio perché gli dia una risposta; egli starà come vedetta e sentinella al suo posto sino a che Dio non risponderà. La risposta venne. Dio parlò al profeta e, attraverso di lui, a tutti gli uomini: "Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. E' una visione che attesta un termine... se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà". E "soccomberà – continua il testo – colui che non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la fede", ossia salverà la sua vita mediante la fiducia in Dio. Negli interrogativi del profeta Abacuc si addensano i tanti interrogativi di questi tempi, in particolare quelli relativi alla situazione di paesi vicino al nostro e degli altri numerosi paesi del grande mondo dei poveri. Il profeta dice che soccomberà chi non ha l'animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.

Di fronte a quanto sta accadendo, ogni credente è chiamato a riscoprire con urgenza la radicalità della propria fede. Non siamo qui nel campo delle scelte particolari e parziali, soggette al vaglio del giudizio storico del momento. E' in gioco il senso profondo della vita e delle scelte personali, sociali e anche politiche. Se si vuole è in gioco la ragione che presiede le singole scelte concrete, strettamente legato al dono della fede.

L'Apostolo Paolo ricorda a Timoteo (è la seconda lettura) di "ravvivare il dono" che gli è stato dato; e aggiunge che il dono non è "uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza". Paolo delinea così il dover essere dell'uomo di fede, la scelta di colui che vuol vivere guardando anzitutto il Signore. L'uomo di fede non è timido o vergognoso; è saldo e coraggioso nella testimonianza, come lo stesso Paolo scrive a Timoteo. Il Vangelo di Luca (17, 5-10) si apre con la preghiera degli apostoli a Gesù: "Aumenta la nostra fede!".

E' forse la preghiera che tutti dovremmo fare in questi tempi. Ci sentiremo rispondere da Gesù: "Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe".

Non c'è bisogno di una grande fede sembra dire Gesù. Basta una fede piccola, ma che sia fede, ossia fiducia in Dio più che in qualsiasi altra cosa (carriera, denaro, partito, clan, se stessi).Di questa fede ne basta "un granellino"; essa è capace di spostare anche le montagne. La verifica è indicata nella frase finale del brano evangelico: "Quando avete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare". Il discepolo è chiamato a fare il proprio dovere sino in fondo e al termine dire: siamo servi inutili. Per noi abituati a rivendicare meriti e riconoscimenti, queste parole suonano davvero strane. Eppure anche da esse può fondarsi la fiducia in un nuovo futuro. 

Testo di mons. Vincenzo Paglia 


Il credere e le sue ragioni

Le ansie degli uomimi e le tensioni interiori caratterizzano ogni giorno la nostra società; i problemi del collettivo e le emergenze a cui occorre sempre far fronte impongono interventi massicci e decisivi e soprattutto soluzioni pratiche e immediate. Disoccupazione, criminalità, miseria, smarrimento del senso della giustizia, sfiducia esistenziale e soprattutto il mancato riconoscimento del bene a causa della persistenza del male sotto tutti i suoi aspetti e la molteplicità delle sfaccettature ci inducono all'istintività nel procciare la soluzione adeguata ai nostri problemi e non di rado ci si distoglie dal trascendente e conduce alla mancanza di qualsiasi riferimento al divino e al sacro.

La presenza delle precarietà appena descritte conduce cioè molto spesso a trovare soluzioni tangibili, immediate e risolutrici che prescindano da ogni riferimento a Dio e da ogni prospettiva inente il fatto religioso. Tale lacuna viene poi aggravata dal fenomeno corrente che caratterizza la nostra epoca, definito dai teologi come "secolarizzazione" o "ateismo di massa" per il quale Dio non interessa a nessuno. Mi ricordo una scena del film Jan Lui di Adriano Celentano nella quale il protagonista, che vuole rappresentare (credo) Gesù Cristo calato nella modernità, senza rivelare in pienezza se stesso, si presenta ad una invidiosa direttrice di azienda con parole poetiche di espressione biblica ma viene subito interrotto da costei, che lo taccia di essere un uomo fuori tempo, illogico e lontano dalla realtà e dalle attuali esigenze compendiate dalle manifestazioni dei disoccupati; e probabilmente l'episodio rispecchia la nostra epoca tormentanta, inquieta e allo stesso tempo lontana dal considerare il colmarsi di ogni lacuna nella prospettiva della fede in Dio nella quale si pretende di raggiungere ogni cosa con la sola capacità del raziocinio o con il solo concorso delle forze umane, mentre il divino e il trascendnetale viene del tutto accantonato e considerato come avulso e ridicolo, idea tipica dei razionalisti e dei prammatisti.
 

Eppure non si può pretendere di trovare la consolazione né la soluzione delle difficoltà, specialmente esistenziali, nei soli approdi della concretezza e nell'assolutismo della prassi. Si resterebbe sempre in preda all'ansia, al panico e all'inquietitudine come pure alla sconsolatezza nel non trovare più appiglio alcuno; il mondo soddisfa tanto quanto, le ideologie e le mode durano quanto durano e si contrastano a vicenda, le capacità e le riserve dell'uomo non sempre si rivelarno sufficienti e dalle illusioni si passa spesso alle delusioni.

Occorre allora una risorsa che non esuli dalla realtà della lotta quotidiana, ma che sia di sprone ad affrontare questa con maggiore motivazione e risolutezza e che pur non elargendoci la panacea o il toccasana per ogni situaizione ci sproni ad affrontare i problemi con determinazione trovando le soluzioni più appropriate. Essa non può che consistere che nella rivealzione divina e nel fatto stesso che il Trascendente, che in realtà è sempre stato una meta ambita dall'uomo di tutti i tempi, ci si sia rivelato e abbia apportato a noi la motivazione della speranza: in altre parole occorre contare nella rivelazione di Dio, alla quale ci si apre con "l'obbedienza della fede" (Fides et Ratio).
 

La fede è l'accoglienza spontanea e fiduciosa di Dio mentre si rivela prendendo parte della nostra vita nella persona di Gesù Cristo nonché l'immedesimarsi indiscusso nella realtà di tale dono che non si svolgono nella ricerca intellettuale o nella sottigliezza dei raziocini bensì nella riverenza che si addice solo al cuore e alla sensibilità quindi nella libera e consapevole sottomissione al Mistero che non sarebbe più tale se ci fosse svelato; nella fede vi è l'accettazione di Cristo (per noi) come referente immediato nella vicissitudine di tutti i giorni e la consapevolezza che soltanto lui diventa il nostro modello di vita per noi.
Nella Lettera agli Ebrei la si definisce come "fondamento delle cose che si sperano, prova di quelle che non si vedono" perché da ragione di coltivare la fiducia e la speranza, fornendo anche la risposta agli interrogativi di cui sopra nonché l'arma per la riscoperta dell'uomo stesso che tuttavia va sempre ravvivata e coltivata soprattutto perché messa continuamente al vaglio dalle stesse difficoltà della vita.

Nella prospettiva della fede comprendiamo infatti la verità della promessa di Gesù di un Dio che non abbandona l'uomo al proprio destino ma addirittura si china su di lui per servirlo e riverirlo tutte le volte che egli si disponga alla sua sequela mettendo il pratica la sua parola e il paragone di cui al Vangelo è abbastanza calzante: infatti, non avverrebbe mai in alcun modo, ordinariamente, che un padrone di casa al suo rientro si metta a servire il suo servitore; piuttosto egli esige di essere servito e riverito da lui; Dio invece è talmente atto a ricompensare la fedeltà dell'uomo al punto da "passare egli stesso a tavola" per servirlo prontamente e questo particolare ci ravvisa le garanzie della fede vissuta con assiduità e determinazione.
 

Nella fede forse non sempre si otterrà di poter smuovere materialmente le montagne, ma si incontreranno tutti i moniti, gli sproni e le perseveranze che alla fine ci condurranno a smuoverle e a collocarle al posto che noi preferiamo e ad ottenere anche le nostre ricompense proporzionate.
 

Aderire a Dio e cercare solo di compiere la sua volontà comporta molte più soddisfazioni che non impuntarsi nelle proprie certezze e presunzioni e un semplice atto del credere può dischiudere molte più porte di una lunga serie di ostinazioni mentre lasciarsi amare da Dio e corriospondere al suo amore attraverso un semplice atto spontaneo di fiducia e di risolutezza rinfranca nello spirito e dona fiducia e costanza nella lotta.
Il credere insomma ha le sue ragioni. 

Testo di padre Gian Franco Scarpitta 

 

"Aumenta la nostra fede!".

Perché?
A cosa mi serve la fede?
Come?
Come faccio ad avere o ad aumentare la mia fede?

I discepoli vedono che Gesù, grazie alla sua fede, ha una marcia in più!
La fede gli permette di affrontare i problemi che incontra, e di trasmettere una speranza, che è il Regno di Dio. La fede gli dà la possibilità di sentirsi sostenuto, e diventa tutta la sua vita.

Per me credere o non credere è importante. Se non credo sono solo e devo decidere tutto da solo. Il cammino di fede mi apre progressivamente alla fiducia in Dio, tanto da arrivare a fare un voto di ubbidienza che nasce dall'aver sperimentato che Dio sa meglio di me come rendere la mia vita feconda e benedetta. Più vedo che, fidandomi, mi realizzo riuscendo a fare del bene, più mi fido. Quando non lo vedo, diffido.

Quindi credere conviene; ma come si fa a credere?

Io non posso salire in cielo per verificare se ciò che mi racconta la Chiesa è vero, ma posso confrontarmi con ciò che la Chiesa dice: che Dio è sceso in terra per parlarci di se, tramite i profeti e sopratutto tramite Gesù. Un serio confronto con l'umanità di Gesù può farmi capire tante cose; ma io ritengo che già il farsi queste domande è un dono di Dio, è il frutto dell'opera dello Spirito Santo in noi.

La fede è un dono che nasce da un incontro inconsueto, che mi fa scoprire che c'è un qualche cosa che mi sfugge; un trascendente. Non saprei cosa fare o dove andare per cercare quest' incontro, percui non posso fare altro che rifarmi alla preghiera dei discepoli che chiedono a Gesù: "Aumenta la nostra fede!", rendendomi conto che pregare cosi, è già un dono. 

Testo di padre Paul Devreux