Inferno o paradiso: una scelta
News del 25/09/2010 Torna all'elenco delle news
Nell'antico Israele era pensato come "il seno di Abramo". Gesù lo designa come "la casa del Padre". Comunemente oggi è chiamato con una parola di origine persiana che significa "giardino".
E' il paradiso, il luogo (o meglio, lo stato di vita) del mondo venturo, nel quale è dato agli uomini di raggiungere la piena e definitiva felicità.
Ad esso si contrappone l'inferno, abitualmente pensato come luogo di tormenti (in realtà, è la condizione di chi, avendo rifiutato Dio, soffre eternamente della sua mancanza).
Di inferno e paradiso parla, nei termini popolari della tradizione, la parabola che costituisce il vangelo di questa domenica.
"C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe".
Notare la finissima ma sostanziale differenza: il povero ha un nome, il ricco no; davanti a Dio il povero ha dignità di persona: chiamandolo per nome, Dio gli presta quell'attenzione che spesso il mondo gli nega. Quanto poi alle differenze socio-economiche tra i due, la situazione descritta trova un parallelo d'attualità: da una recente statistica risulta che, mentre nel terzo mondo si muore di fame, nel "primo" mondo quasi metà del cibo prodotto va sprecato.
"Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo", cioè accanto al patriarca, nel luogo degli eletti cari a Dio. "Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui". Allora, gridando, chiede al patriarca di mandare Lazzaro ad alleviare le sue sofferenze con almeno una goccia d'acqua. Impossibile, è la risposta, mentre inutile è la richiesta successiva: che Lazzaro vada ad ammonire i fratelli del ricco, dediti a una vita come la sua, perché non finiscano anch'essi all'inferno. Abramo risponde: per non finire come te, ascoltino Mosè e i Profeti, vale a dire seguano gli insegnamenti della Sacra Scrittura, Parola di Dio. Il ricco insiste: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti".
Bella risposta, si direbbe diretta anche a quanti per credere reclamano miracoli, salvo poi, quando i miracoli avvengono, trovare mille pretesti per non riconoscerli. Peraltro, il cristiano crede proprio perché Uno è risorto dai morti, e nutre la speranza di giungere un giorno accanto a lui, dove restare per sempre.
Questa speranza illumina il senso e lo scopo della vita presente: il suo successo, come la riuscita in una gara o in qualunque altra impresa, si misura non sulle difficoltà del percorso ma sul conseguimento della meta. Nella gara della vita, conseguire la meta non dipende dal caso, come un terno al lotto; paradossalmente non dipende neppure dalla volontà di Dio, il quale a tutti indica la strada e alla fine si limita a registrare la volontà dei concorrenti. La strada, suggerisce la parabola, è quella tracciata dalla Parola di Dio, da accogliere e tradurre nel vissuto quotidiano, specie per quanto riguarda l'uso dei propri beni e l'attenzione a chi è in difficoltà. Dunque, si finisce all'inferno o in paradiso non per caso, né per una capricciosa decisione del Giudice. E' una scelta, fatta ora, fatta qui.
Testo di mons. Roberto Brunelli
La ricchezza che conduce alla perdizione
La Parola di Dio di questa XXVI Domenica del tempo ordinario dell'anno liturgico ci fa riflettere sulla ricchezza che porta all'infelicità eterna e alla perdizione. Il brano della Vangelo con la parabola del ricco epulone ci aiuta ad entrare con grande responsabilità nel discorso della salvezza dell'anima e quali sono gli ostacoli della vita terrena perché questo progetto di vita si realizzi davvero per ognuno di noi.
Certo a leggere con attenzione il brano del vangelo di oggi, al di là del linguaggio utilizzato e le immagini impiegate per esprimere ciò che è la realtà futura, c'è da preoccuparsi seriamente se non facciamo qualcosa di buono, soprattutto in ordine alla carità, alla disponibilità, al distacco dai beni della terra, ad uno stile di povertà che deve riguardare tutti e tutto, in questo passaggio terreno.
Passaggio che a volte è così breve che non si ha neppure il tempo di organizzare il domani, in quanto il tramonto della nostra vita bussa prepotentemente alla porta della nostra casa terrena.
Tutto il testo e il contesto del messaggio è davvero un'ulteriore conferma all'insegnamento della Chiesa in ordine al destino eterno dell'uomo: esiste la morte, ed esiste il giudizio di Dio, il quale o è per la felicità eterna dell'uomo o per la sua condanna definitiva e senza appello.
La parabola lo fa intendere chiaramente e noi, nelle sofferenze del ricco epulone che sperimenta le pene dell'inferno, dobbiamo cogliere il messaggio perché tale situazione non si verifichi per noi al termine della nostra vita. Dall'altro lato, è consolante e confortante sapere che, dopo le tante sofferenze della vita presente, per chi ha sperimentato il dolore alla luce del mistero del Cristo crocifisso una prospettiva di serenità e felicità senza fine è legittima attenderla e aspettarla dalla bontà e misericordia di Dio.
Il vero dramma dell'uomo di oggi è quello di convincersi sempre di più che senza Dio si può vivere ugualmente e forse meglio su questa terra. E infatti molti vivono come se Dio non esistesse e come non ci fosse un'eternità. Il Vangelo di Luca ci rivolge un caloroso invito a ripensare tutto il nostro sistema di vita ed improntarlo ad un orientamento generale che ha punto e un termine fisso nell'eternità.
In questa prospettiva si fa particolarmente carico di suggerimenti e inviti al personale rinnovamento quanto leggiamo nel brano della prima lettura di questa domenica, tratto dal libro del profeta Amos, che ci ricorda e ci richiama a più ragionevoli e morali comportamenti nella vita presente.
Il testo termina con una predizione chiara: cesserà l'orgia dei buontemponi. Quante persone oggi, pieni di soldi e di se stessi, con disponibilità economiche di grande respiro, frutto anche dei sacrifici degli altri che hanno messo da parte, si godono la vita, non fanno bene a nessuno e tutta la loro esistenza sta nel soddisfare i vizi e i piaceri di ogni genere. Agli occhi degli stolti di questo mondo essi sono persone felici e beate; ma non è così nella prospettiva di quel vangelo di oggi che ci riporta a più miti consigli, affinché la nostra vita non si trasformi solo un godimento terreno che potrà sì allietare per un momento o un tempo, ma non potrà mai compensare il bisogno di un felicità che sorpassa il tempo ed il materiale. L'insegnamento di un grande padre della Chiesa, Sant'Agostino, ci dice che il cuore dell'uomo non potrà riposare perfettamente in pace, né potrà godere della vera gioia fin quando in esso non alberga Dio e l'uomo riposa nel cuore di Dio.
Una terapia d'urto a questa tendenza materialistica ed edonistica della vita, una vera e propria metodologia della ricerca della felicità senza fine, la troviamo espressa e sintetizzata nel brano della prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo, nella quale sono raccomandate alcune cose fondamentali, che noi consideriamo essenziali per un cammino spirituale verso la salvezza eterna e la nostra santificazione personale.
Lo stile di vita di una persona che ha a cuore la salvezza eterna è quello che noi troviamo espresso nelle parole quanto mai convincenti dell'Apostolo delle Genti: tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combattere la buona battaglia della fede, cercare di raggiungere la vita eterna alla quale siamo stati tutti chiamati di cui dobbiamo dare testimonianza ovunque siamo, in ragione del fatto che il Figlio di Dio è morto sulla croce proprio per questa ragione. Si tratta allora di conservare senza macchia e irreprensibile il dono della fede, di esercitarsi accuratamente nella carità e nelle opere di bene, di alimentare costantemente la speranza di una felicità che avrà il suo pieno compimento nell'eternità.
Sia questa la nostra umile preghiera al Signore: "O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all'orgia degli spensierati, e fa' che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno". Amen.
Testo di padre Antonio Rungi
L'abisso della ricchezza
Ancora una volta, di domenica, una parola di Gesù sulla ricchezza; una parola importante non perché di condanna, ma perché ci aiuta a fare chiarezza.
La ricchezza in sé non è condannata da Gesù in quanto cattiva, ma in quanto ambigua, perché si erge ad idolo, ti toglie il volto, il nome, le caratteristiche... e infatti il ricco del vangelo di oggi non ha nome.
La colletta per l'anno C recita così: O Dio tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone... Il ricco non ha nome perché il denaro si sostituisce all'identità di una persona, domina la sua coscienza, detta la sua legge, ispira i pensieri... in modo particolare, nel caso odierno, il denaro acceca, impedisce di vedere... Proviamo allora a chiederci cosa significhi avere un nome. Avere un nome significa avere un'identità, essere "qualcuno", ma questo è possibile solo se c'è chi ce lo riconosce: nessuno si dà il nome da sé, sono gli altri a dirci chi siamo, a consegnarci la nostra identità. Per questo i genitori scelgono il nostro nome, perché è tutt'uno con il dono della vita.
A questo punto possiamo chiederci come mai il ricco non abbia nome: non possiamo lasciare che le cose riempiano la nostra vita, altrimenti rischiamo di essere nessuno.
Le cose, per quanto grandi, belle, speciali, o tante, non possono darci un'identità.
La nostra vita, solo piena di cose, è come una bellissima casa splendidamente arredata, magari pulita e in ordine, ma disabitata: che tristezza! Noi non siamo fatti per le cose, ma per le relazioni.
Allora scopriamo come con due parole (anzi una sola: Lazzaro, perché l'altro nome manca) Gesù ci introduca in una storia, con tutte le sfumature e la concretezza delle situazioni che possiamo immaginare: il ricco che "affoga" nelle sue cose e Lazzaro che dipende dalle sue briciole.
L'annotazione che risalta in modo particolare è come due situazioni così opposte possano stare così vicine. Lazzaro non abita in un altro paese, non mendica in una via di quella città, neppure nel cortile della casa a fianco, ma sulla soglia della casa del ricco. Solo che è come se non ci fosse, solo i cani gli tengono compagnia, quasi si prendono cura di lui. Il ricco è condannato non perché è un violento, non perché è un oppressore, un bestemmiatore, uno che fa cattive azioni... è condannato per le sue omissioni, per quello che non fa', per quello che non vede... il ricco riduce a nulla un uomo, è questo il peccato gravissimo. Non è cattivo il ricco, ma la vita nella quale è immerso lo rende insensibile al bisogno del povero. Ad una prima lettura questo ci sembra molto strano, forse ci indigna; magari pensiamo: "se io fossi al posto di quel ricco, agirei diversamente!". Ma proviamo a pensare quante volte capita di avere accanto persone che per noi è come se non esistessero neppure... può capitare anche nella vita di tutti i giorni, soprattutto in comunità piccole come le nostre... quasi vivere insieme a qualcuno con cui alla fine ci rendiamo conto di non avere condiviso niente. E che tristezza per chi attende la briciola di uno sguardo, una parola, un'attenzione che non arriva.
Nell'aldilà, si vedono le cose chiaramente per come sono davvero: Lazzaro è "nel seno di Abramo": il luogo più bello, più santo e più desiderabile per un israelita (noi diremmo in Paradiso); il ricco è lontano nei tormenti dove c'è sempre il fuoco acceso (noi diremmo all'inferno). Ecco allora il dialogo tra il ricco e Abramo in cui questi spiega due cose importanti:
1) tra di loro c'è un abisso, una distanza inattraversabile,
2) quell'abisso l'ha creato lui, il ricco, durante la sua vita.
Questo è la vera definizione de "l'inferno": la distanza che creiamo tra noi e i nostri fratelli. Quando il ricco chiede che Lazzaro possa raggiungerlo con una goccia d'acqua, Abramo gli ricorda che per tutta la vita lo aveva a fianco, sulla soglia di casa sua, ma non ne ha approfittato, anzi ha creato un abisso. Chiedendogli una goccia d'acqua è come se gli chiedesse di essere riconosciuto, chiamato per nome finalmente... una goccia, anche con un soprannome, con un nomignolo, ma chiamami in qualche modo...
Ogni giorno della nostra vita, allora, è l'occasione che ci è offerta per creare relazioni nelle quali chiamarci reciprocamente per nome e così generarci continuamente alla vita. Questo è "il paradiso" ed è a portata di mano, solo che spesso non ce ne accorgiamo.
A questo punto al ricco vengono in mente i suoi cinque fratelli che vivono ancora sulla terra comportandosi come lui. Vorrebbe che andasse Lazzaro da loro, ma Abramo risponde: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". Cosa significa? Semplicemente, che la via alla pienezza della vita sia il fratello, soprattutto il più povero, il più piccolo, l'ultimo è il cuore e la sintesi di tutta la scrittura. Mosè e tutti i profeti lo hanno sempre indicato perché questa è una parola scritta sul cuore dell'uomo, prima ancora che sulle tavole di pietra o sulle pagine di un libro. Solo dobbiamo imparare ad ascoltarla. All'insistenza del ricco Abramo risponde: neppure la risurrezione è un segno abbastanza eloquente se io non so ascoltare.
A questo punto è chiaro l'avvertimento per noi cristiani: "non vi serve a niente dire la vostra fede nella risurrezione di Gesù se poi non sapete amare i vostri fratelli, a cominciare dai più poveri". Oltre che ciechi, la ricchezza rende anche sordi allora... sordi alla Parola che Dio ci rivolge nella Scrittura. Non ti fa ascoltare Dio, non ti fa ascoltare Mosè e i profeti.
Nei giorni di esperienza di missione a Cuba, mi è venuto in mente quanto ascoltavo un po' di tempo fa sui fratelli del ricco epulone: sono cinque, più il ricco epulone fanno sei... per raggiungere la perfezione manca il settimo fratello... ecco il settimo fratello è il povero, il settimo fratello è Lazzaro, tuo fratello è il povero, colui che da sempre abita sulla soglia di casa tua e con tanta difficoltà sei disposto a riconoscere e chiamare così.
Testo di don Maurizio Prandi