L'abisso tra noi e gli altri

News del 25/09/2010 Torna all'elenco delle news

Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi

La liturgia di questa domenica si apre con una pagina veemente di Amos, un contadino dell'VIII secolo a.C., divenuto profeta che denunzia le alte classi della Samaria, capitale del regno settentrionale d'Israele: "Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Essi su letti d'avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell'arpa, bevono vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l'orgia dei bontemponi" (Am 6, 1. 4-7). Queste parole dovevano risuonare anche alle orecchie degli ascoltatori della parabola evangelica del ricco epulone che viene annunciata in questa domenica.

L'inizio del testo lo conosciamo bene: "C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente". Quest'uomo, senza nome, non è descritto come uno sprecone, e neppure come uno sfruttatore dei suoi servi. E' uno come tutti e si comporta nello stesso modo di quelli della sua condizione: vive spensieratamente la sua ricchezza. Il problema sta nel prosieguo della narrazione: "un mendicante di nome Lazzaro giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco". L'evangelista in questo caso, riporta il nome, Lazzaro, e marca la differenza tra la sua situazione e quella del ricco. Questo quadro, che contrappone senza mezzi termini la vita consumista da una parte e la miseria più nera dall'altra, non era affatto considerato un'ingiustizia dalla teologia degli scribi. E non ritenendola tale, con facilità si tranquillizzava la coscienza con la dottrina dell'elemosina. Insomma, allora come oggi, si trovano le ragioni per far restare le cose come sono, per non cambiare neppure una palese ingiustizia come quella descritta dal Vangelo. Dopo la morte dei due protagonisti, si apre una scena completamente diversa. Ma questa volta appare chiaro quale sia il pensiero di Dio e il suo giudizio. Il ricco e Lazzaro sono ambedue "figli di Abramo". Ma Lazzaro siede con questi alla mensa celeste; il ricco, non accolto nei tabernacoli eterni, è caduto nel luogo dei tormenti.Del resto Gesù aveva appena detto (è il Vangelo di domenica scorsa): "fatevi amici con la disonesta ricchezza, perché quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Luca 16, 10); è come dire che se il ricco avesse aiutato Lazzaro, costui l'avrebbe accolto nel cielo. Ma solo ora comprende la verità della vita; ed è troppo tardi. Implicitamente, il ricco ammette l'inevitabilità della sua attuale triste condizione, come prima accettava tranquillamente la sua spensieratezza e le sue vesti di porpora e bisso; non chiede infatti di cambiare luogo ma solo di poter essere sollevato un poco; gli basterebbe toccare con la lingua un dito bagnato nell'acqua.
Ma anche questo è impossibile; neppure Dio può superare l'abisso che l'uomo si costruisce attorno. Eppure, in questo mondo si continua la creazione di abissi tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, tra etnia ed etnia e, infine, sul piano planetario, tra paesi ricchi e paesi poveri. Lazzaro è il barbone accanto a noi, è lo straniero, è una etnia oppressa, è un popolo violentato e sfruttato. Dalla parabola, tuttavia, appare con estrema evidenza la predilezione di Dio per Lazzaro e per chi è, in ogni tempo della storia e in ogni parte del mondo, nelle sue stesse condizioni."Tu, Signore, vedi l'affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell'orfano tu sei il sostegno" canta il salmo 10.

A noi, simili all'uomo ricco, ci vien chiesto di non creare abissi e, se tali abissi ci sono, di lavorare per colmarli. E' lo stesso uomo ricco, dal suo luogo di tormenti, a implorare per i suoi fratelli perché qualcuno apra loro gli occhi finché c'è tempo, prima che sia troppo tardi. Chiede perciò ad Abramo di mandare Lazzaro perché li ammonisca. Ma si sente rispondere: "Hanno Mosè ed i Profeti; ascoltino loro". Il ricco, forse conoscendo la durezza del cuore degli uomini che si lasciano dominare dai beni, insiste perché si mandi qualcuno, risorto dai morti. Abramo ribatte: "Se non ascoltano Mosè ed i Profeti, neanche se uno resuscitasse dai morti sarebbero persuasi".

E' l'ultimo insegnamento di questa parabola: non abbiamo bisogno di fatti miracolosi per convertire il cuore e per colmare gli abissi. Ci basta il Vangelo: è una parola forte e potente che può salvare l'uomo. Questo piccolo libro salva tutta la vita, quella presente e quella futura, se sappiamo accoglierlo come chiede Abramo, nostro padre nella fede. 
 
Testo di mons. Vincenzo Paglia 
 


L'abisso tra noi e gli altri

Il ricco epulone, che non ha un nome affinché ognuno di noi ci si possa identificare, chiede ad Abramo di mandare Lazzaro a casa di suo padre per ammonire i suoi fratelli. Immaginate cosa succederebbe se veramente Lazzaro si presentasse a bussare a casa di questi ricchi che sanno che è morto? Pensate che lo ascolterebbero? Io penso che si spaventerebbero e chiamerebbero un sacerdote per benedire la casa e cacciare il fantasma. Poi ricomincerebbero a bere e a scherzare più di prima per dimenticare il fattaccio. Abramo ha ragione, ma non del tutto; di fatto Gesù risorto ha convinto tutti quelli che lo hanno visto, ma è anche vero che si è fatto vedere solo da quelli che desideravano vederlo.

Ma ciò che mi stupisce in questa parabola è l'atteggiamento del ricco nei confronti del povero, quando lo vede in paradiso accanto ad Abramo. Continua a considerare Lazzaro come uno che può usare. Non chiede ad Abramo di dargli dell'acqua o di andare a casa sua, perché per lui è scontato che Abramo non va disturbato; come non doveva essere disturbato lui dal poveri quando era vivo. E' un problema di rispetto della gerarchia. Ho paura di dare noia al ricco come il povero da noia a me; mentre considero scontato che il povero sia a mia disposizione perché posso pagarlo e quindi ha tutto da guadagnarci.

Purtroppo cosi facendo creo un abisso tra me e gli altri; sia quelli che considero diversi da me perché poveri, sia quelli che considero diversi da me perché ricchi .

Ebbene pensate che questa parabola ci annuncia una buona notizia: questo povero Lazzaro, che sta alla mia porta, è Gesù stesso. Lazzaro significa in ebraico: Dio aiuta. Aiuta Lazzaro, ma aiuta anche me, che credo di essere ricco, perché quell'abisso che ho creato fa di me un altro povero Lazzaro, e se riesco a vederlo sono salvo! Se riesco a vedere che siamo tutti poveri e bisognosi gli uni degli altri, posso aprire le mie porte e lasciare entrare il Signore con tutta la sua corte di poveri.

Dio da ricco che era, si è fatto povero in Gesù, per poter venire a stare alla mia porta. Dio si è fatto povero per me, affinché io osi pregarlo senza paura di disturbarlo. Dio si fa piccolo per riuscire ad entrare, magari dalla porta di servizio e mi domanda: "Disturbo? Posso disturbare?"

Signore donami di vedere quanto è grande questo tuo amore per me. Fa' che io mi lasci almeno sfiorare da questo tuo amore, affinché quell'abisso che ho creato venga colmato dalla tua presenza, che è in grado di riconciliarmi con Te, con i miei fratelli e persino con me stesso. 

 Testo di padre Paul Devreux


L'uomo ricco e il povero Lazzaro

Quello di diventare ricchi non è più, oggi, un 'sogno' da bambini, che guardano alla 'favolosa' vita che conduce chi è arrivato alla ricchezza.
Da quanto possiamo capire attraverso i massmedia e l'opinione pubblica è diventato la 'favola' degli adulti, che ha i suoi giornali specializzati, con tanti servizi su 'cosa fanno', 'come e dove vivono i paperoni o i vip', coloro che sono classificati come gli 'idoli' del nostro tempo, con tanta gente che cerca di imitarli o di vivere almeno nella loro ombra, senza minimamente pensare che dietro queste facciate di lusso, spesso vi è una grande povertà di cuore ed un senso di solitudine e di vuoto che a volte li porta alla disperazione, magari con il rimorso (e questa sarebbe una grazia!) di avere depredato tanta gente che, a causa della loro sfrenata ricchezza, è costretta a vivere sul marciapiede delle città.
A costoro e a quanti vorrebbero essere come loro parla oggi il profeta Amos.
Dura la descrizione del ricco: una ricchezza che nulla ha a che fare con la vera ricchezza del cuore, che appartiene a quelli che Gesù chiama beati, voi, poveri in spirito'!
Oggi, nel mondo, per la crisi che attanaglia le grandi potenze, troppi sono costretti a misurare le necessità della vita su quanto ricevono e certamente sono costretti a privazioni che prima non conoscevano. Ormai la povertà, fino alle necessità più semplici, è di tanti. Ed è duro per tanti dovere rinunciare ad una vita da benestanti - almeno così sembrava - ed accontentarsi del poco... se basta. Ma... è vera felicità quella del ricco? O la felicità è del povero Lazzaro di cui parla il Vangelo?
Per costruire una vera felicità, che poi è ricchezza di valori nella e per la famiglia e nella società, occorre la ricchezza materiale o la ricchezza del cuore?
A volte, osservando la voglia di benessere, che cerca di circondarsi di tutti i capricci che il commercio offre, un mercato senza anima, che si chiama moda, ci si rende conto che prende molti, li rende forse per un momento soddisfatti, ma non fa mai felici... è troppo poco!!
Ricordo la dignitosa povertà della mia famiglia, dove si viveva del necessario e non c'era posto per mode o capricci. Ma al loro posto c'era tanta pace, tanto amore, tanta moralità che era il dono della povertà, diremmo oggi della sobrietà. Si era felici del poco.
Altri tempi si dirà, ma anche altra felicità e giustizia e moralità. Davvero 'beati i poveri in spirito, vostro è il regno dei cieli'... ieri, oggi e sempre.
È peccato possedere poco o tanto?
Quando è esibizione sciocca del tanto che si possiede ha del grottesco, come se vivere fosse una `favola', ma è solo una tragica e dolorosa farsa.
Ma possedere più del necessario, ossia essere in qualche modo ricco, diventa un bene quando è frutto di giustizia e fatica e, soprattutto, la ricchezza non è un 'dio' del cuore, ma un mezzo di amore. Il pericolo non è possedere, ma 'farsi possedere', diventando schiavi delle cose che passano.
Possedere da 'distaccati', da 'poveri in spirito', con il cuore libero, diventa occasione di colmare i tanti vuoti dei miseri. Diventa un bene per chi non ha. Ricordiamocelo: la ricchezza, qualunque sia, non è il bene che si deve cercare a tutti i sosti, ma un mezzo per amare.
Nel Vangelo di oggi si ha la sensazione che Gesù si prenda gioco della stoltezza del ricco. Una chiara e dura lezione di quanto sia difficile liberarsi dalla schiavitù dell'avere, del benessere a tutti i costi, per fare strada alla libertà e all'amore.
Affermava il grande Paolo VI, in un discorso alle conferenze dì S. Vincenzo:
"Voi sapete che oggi si parla molto della chiesa dei poveri: è questa una considerazione circa la società religiosa, fondata da Cristo, piena di significato; bene intesa essa ci riporta alle origini evangeliche della Chiesa stessa, al disegno stesso di Dio in ordine alla salute del mondo, all'esempio indimenticabile di Gesù, Lui stesso povero e annunciatore ai poveri della sua buona novella, quando attribuisce a Sé il vaticinio di Isaia: 'Lo Spirito del Signore è su di me e mi ha mandato ad annunciare ai poveri la buona novella', e ancora quando chiamerà per primi beati e destinati al regno dei cieli, 'i poveri in spirito'.
E di più questa apologia della povertà in seno alla Chiesa, questa rivendicazione della povertà come tesoro proprio, ci apre la vena di una spiritualità che sembra destinata a diffondersi nella coscienza cristiana del nostro tempo; essa ci ricorda come il regno di Dio, cioè il dono che Cristo porta al mondo per la sua salvezza, non è nella sfera delle cose appetibili di questa terra, e tantomeno non è una ricchezza temporale... Così il discepolo di Cristo, nella severa scuola, scorge sempre un rapporto meraviglioso tra povertà e carità'. (nov. 1964)
Leggendo la vita di Madre Teresa di Calcutta, l'apostola dei più poveri tra i poveri, si resta scossi da come amasse lasciarsi 'nutrire' da Dio, in totale povertà... anche se la missione scelta era quella di stare tra gli ultimi degli ultimi. E ciò che fa rimanere senza parole è che la Provvidenza non le facesse mai mancare nulla, poiché metteva tutto nella cura diretta di Dio.
Vestiva l'abito degli ultimi - così considerato in India - e viveva tra di loro.
Ma non le mancava mai il necessario per sostenere le tante opere nel mondo.
Davvero questa è povertà, cioè abbandono nelle mani di Dio, che costruisce pace e santità.
Nella mia lunga vita, nel Belice e qui, ho toccato con mano come vi siano davvero persone che hanno possibilità e sanno condividerle per alleggerire il peso delle tante povertà incontrate.
Donne e uomini di una generosità incredibile, che dimostra come a volte il possedere diventa motivo di carità, tanto da dover a volte frenare la generosità. Le ho sempre considerate 'la mano di Dio', che riempie le mie, perché io riempissi le mani vuote di tanti.
C'è ancora tanta generosità che non ha paura di farsi povera per dare speranza a chi non ha, ma la ritrova proprio nella loro carità.
Prego perché nessuno di noi si trovi nei panni del ricco epulone che dall'inferno invoca una goccia di acqua, quando qui ne aveva in abbondanza da dissetare tanti… ma nei panni del povero Lazzaro, che riposa nelle braccia di Dio, qui e dopo.
Così pregava don Tonino Bello:
"Cari cristiani questo digiuno lasciatelo fare a noi. Ci potrà servire come mezzo per ottenere qualcosa di immediato. Voi piuttosto fatene un altro: un digiuno che sia profezia. Astenetevi non tanto da un pasto, ma dall'ingordigia, dal sopruso, dalla smania di accaparrarsi, dalle collusioni disoneste con certe forme di potere. Più che privarvi di un piatto, privatevi del lusso, dello spreco, del superfluo: ci vuole più coraggio. Più che non toccare un pane, dividete il pane: il pane delle situazioni penose dei disoccupati, degli sfruttati, dei disperati che ci stanno attorno. L'altro digiuno lasciatelo fare a noi".

Testo di mons. Antonio Riboldi