Una parabola per ogni tempo: il ricco e il povero

News del 25/09/2010 Torna all'elenco delle news

Domenica scorsa Gesù indicava la via sicura per giungere al Regno di Dio: servirsi della "ricchezza ingiusta" per farsi "amici" i poveri. In questa XXVI Domenica del Tempo Ordinario con un'altra parabola Gesù rivela il rischio terribile che corrono coloro che si godono tranquillamente i propri beni pensando soltanto a se stessi.

Il racconto si articola in due scene. La prima descrive la situazione di un ricco e quella di un povero sulla terra.
Il ricco è il tipico gaudente che non si cura d'altro che di assaporare le gioie della vita senza pensare né a Dio né agli altri né alla vita futura. Ogni giorno si gode senza pensieri la propria ricchezza banchettando allegramente con i suoi amici. Nemmeno si accorge che alla porta della sua casa giace un povero ammalato, coperto di piaghe, tormentato dalla fame. Il ricco esclude l'altro, lo rimuove dall'orizzonte delle sue attenzioni e preoccupazioni. Il povero viene visto come disturbo, fastidio, minaccia alla qualità della propria vita. La ricchezza, quando diventa idolo, chiude il cuore del'uomo a Dio e al prossimo. Quale trappola! È facile il richiamo alla denuncia rovente di Amos (6, 1.4-7: I lettura). Il profeta si scaglia contro il lusso sfacciato di coloro che si erano arricchiti in tempi di facili guadagni: si adagiano nella falsa sicurezza, pensando solo a divertirsi, mentre non si preoccupano della rovina in cui sta cadendo la città. "Guai agli spensierati!": persone che hanno perduto l'abitudine di pensare, di riflettere...Il "nababbo" che Gesù descrive impietosamente nella parabola è uno di questi. Siamo sicuri che, almeno in parte, non ci rappresenti, magari a livello di tentazione?
In netto contrasto con la condizione e l'atteggiamento del ricco Gesù presenta il povero: è un uomo giusto che, nell'estrema miseria, non perde la fiducia, ma è convinto che "Dio lo aiuta". È il significato del nome "Lazzaro": Dio ha un debole per i poveri, li difende. Gesù descrive la sua condizione con affettuosa simpatia. Gli dà un nome, mentre al ricco non lo dà (la ricchezza...spersonalizza).
La distanza che separa i due è abissale, nonostante la prossimità spaziale. L'uno è fortunato, beato; l'altro è disgraziato. Nella realtà le cose stanno proprio così? È questa almeno l'opinione comune. Ma anche Dio la pensa così?

Inaspettatamente si apre una seconda scena. Si svolge nell'aldilà ed è inaugurata dalla morte, per la quale il ricco e il povero sono uguali. Essa li colpisce entrambi. La separazione e il contrasto fra i due rimane, anzi si fa drammaticamente grave e definitivo. Ma i loro destini si invertono, sono capovolti.
Il povero viene portato "nel seno di Abramo" (espressione giudaica per indicare la felicità eterna, raffigurata come un banchetto, in cui finalmente il povero può saziare la sua fame).
Il ricco anche lui "morì e fu sepolto" (un funerale splendido). Ma precipita "nell'inferno tra i tormenti".
La descrizione della vita successiva alla morte che Gesù fa nella parabola è immaginaria. Egli non intende tracciare una geografia dell'aldilà. Semplicemente si adatta alla mentalità giudaica. Questa si raffigurava il mondo futuro come diviso in due scomparti, di gioia l'uno, di sofferenza l'altro, da cui ci si poteva anche vedere e parlare. Gesù, però, utilizzando immagini tradizionali, vuole dirci che la giustizia di Dio riequilibrerà gli scompensi e le ingiustizie della vita. Chi ha fiducia in Lui non perde mai, anche se molti possono pensarlo, visto che Egli non sempre sembra intervenire durante lo svolgersi delle vicende umane. Il ricco, che nella vita terrena aveva a disposizione cibi e bevande in abbondanza e si era preoccupato solo del piacere, delle comodità, del lusso, negando al povero i resti della sua tavola, ora chiede una goccia d'acqua dalla punta del dito di Lazzaro e non può riceverla.
Su quest'opera della giustizia divina insiste Abramo nella risposta che dà al ricco. Un'espressione che va intesa correttamente. Altrimenti può diventare un alibi per l'inerzia rassegnata dei cristiani: non vale la pena darsi da fare, perché ci penserà Dio a ristabilire gli equilibri alterati dagli uomini. Questo è vero e fonda la nostra speranza.

Ma il Vangelo non può essere un "sedativo" né un sonnifero di fronte alle ingiustizie: risveglia le coscienze. Come? Invitando tutti alla conversione del cuore, al distacco dalle cose, all'amore fraterno, alla condivisione dei beni.
È ciò che comprende il ricco.
Riconosce che il genere di vita praticata sulla terra lo ha condotto a tale stato di disperazione. Per questo vorrebbe che i suoi cinque fratelli fossero avvertiti di cambiare vita per evitare così il suo stesso destino pieno di tormenti. Per lui è troppo tardi! Quando si decide a pensare, è troppo tardi! Ormai la sua vita l'ha sprecata nell'inutilità. Lazzaro poteva costituire la sua salvezza, se lo avesse soccorso. Ma, oltre a pensare in ritardo, il ricco pensa anche in maniera sbagliata, quando ritiene che l'invio di Lazzaro, l'apparizione di un morto, indurrebbe i fratelli a mettersi sulla buona strada. La risposta di Abramo è perentoria: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". Come a dire, la Parola di Dio può e deve bastare. Il Vangelo di Gesù, che risuona qui e ora per te, è più che sufficiente. Per convertirsi l'uomo non ha bisogno di cose straordinarie. Deve solamente ascoltare la Parola di Dio, che manifesta la sua volontà e mette espressamente in rilievo la responsabilità sociale nei confronti dei poveri. Per ascoltare, però, la Parola di Dio e quindi la sua volontà, occorre avere un cuore aperto e pronto. Se invece il cuore è indurito dall'egoismo e non si interessa di Dio e del prossimo, allora anche miracoli e messaggeri dall'aldilà sono inutili.

Si tratta di pensare seriamente alla propria vita: non giocare con la vita, ma giocarsela interamente attimo per attimo, cercando di farne un capolavoro agli occhi di Dio. È il richiamo anche di Paolo nell'esortazione al discepolo Timoteo (1Tm 6, 11-16: II lettura): "Cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato". Sarebbe un fallimento tragico e disperato mancare tale obiettivo, non arrivare a tale traguardo. Come fare per evitare la sorte degli "spensierati e...buontemponi" (cfr. Amos 6, 1.7) impersonati dal ricco della parabola? "Combatti la buona battaglia della fede".

La vita presente è decisiva. Dal modo con cui sappiamo gestirla dipende la nostra sorte eterna. Chi la vive nell'attenzione ai fratelli più poveri, condividendo con loro i propri beni (e non solo materiali), eviterà il rischio di quella condanna senza appello che ha colpito il ricco della parabola.
Chi invece non guarda oltre la vita terrena e il piacere egoistico, dopo la morte avrà una brutta sorpresa. Scoprirà – ma troppo tardi! – che mentre pensava a godersi la vita si è dimenticato di vivere.

Questa parabola non può essere interpretata solo in dimensione personale o familiare. "Nella moltitudine di esseri umani senza pane, senza tetto, senza fissa dimora, come non riconoscere Lazzaro, il mendicante affamato della parabola?" (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2463).

Come singoli e come comunità, in che misura ci lasciamo interpellare da questa pagina di Vangelo?
L'appello del Papa a "scommettere sulla carità" (NMI 49) per offrire una risposta concreta ed efficace alle vecchie e nuove forme di povertà lo sentiamo rivolto all'intera comunità cristiana e a ciascuno in particolare?

Siamo capaci di vedere il povero Lazzaro che, in singole persone e in interi gruppi e popoli, si trova davanti alla nostra porta? Cerchiamo di capire le sue necessità? Che cosa facciamo?
L'impegno della carità è un'esperienza che coinvolge l'intera comunità o viene delegato agli "addetti ai lavori"?

Anche la fede è una immensa ricchezza, e la più preziosa, da non consumare tra di noi, ma da offrire e condividere. Il mese di ottobre, mese "missionario", che è ormai alle porte, ce lo richiama.

Ogni persona che incontro ha la sua forma di povertà ed è quindi un Lazzaro alla mia porta, anzi Gesù stesso che nel povero si nasconde. Sarò indifferente come il ricco sazio e gaudente? Gli offrirò qualche briciola di attenzione? O tutta l'attenzione?  

 
Testo di mons. Ilvo Corniglia


Nesso tra le letture

Tempo ed eternità sono come i due poli che ci possono servire per organizzare i testi di questa domenica. Ciò è evidente nel testo evangelico, che situa il ricco Epulone e Lazzaro prima in questo mondo, e poi nell'eternità. Implicitamente, si trova anche nella prima lettura, secondo la quale i ricchi samaritani vivono in orge e lusso, dimentichi del futuro giudizio di Dio. Per vivere degnamente nel tempo, e raggiungere l'eternità con Dio, la fede viva in Cristo offre una garanzia sicura (seconda lettura).

Giocarsi l'eternità nel tempo. Per noi che abbiamo fede nell'eternità, il tempo è un tesoro, una vera ricchezza, perché in esso si mette in gioco la nostra situazione nell'aldilà del tempo. La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro non sottolinea il problema della differenza tra ricchi e poveri. Accentua, piuttosto, il giudizio di Dio, nell'eternità, sull'atteggiamento verso la ricchezza e la povertà. Il ricco che in questo mondo si dedica a banchettare e a spassarsela, disinteressandosi dei poveri, vedrà tristemente cambiata la sua sorte nell'aldilà. Così accadde al ricco Epulone. Il povero, che in questa vita accetta serenamente la sua condizione, senza lamentele e senza odi, sarà ricompensato nell'eternità con la grande Ricchezza che è Dio stesso. Ciò è quello che accadde al povero Lazzaro. Il primo, per sua disgrazia, vive come se l'eternità non esistesse. Il secondo, per il suo bene, è un povero di Javeh, che ha posto la sua fiducia nella ricompensa che Dio gli darà nella vita avvenire. Al ricco Epulone non si imputa il fatto di essere ricco, ma quello di essere privo di misericordia, il fatto di non avere cuore per chi giace piagato alla sua porta. Lazzaro non lo si ricompensa per la sua condizione di povertà, ma per la sua pazienza e rassegnazione, allo stile di Giobbe. Epulone pone la sua ricchezza al servizio della sua sensualità ed intemperanza, Lazzaro pone la sua povertà al servizio della sua speranza. Gesù Cristo nella parabola ci insegna che nell'eternità - se non già nello stesso tempo della vita - Dio farà giustizia e retribuirà ciascuno secondo le sue opere. Questo insegnamento deve illuminare anche la nostra vita presente, in modo che possiamo parlare anche di giocarci il tempo nell'eternità. Cioè, il pensiero del mondo futuro ci condurrà ad essere giusti e solidali nel mondo presente. Il contrario succede ai ricconi della Samaria, che, disinteressandosi del futuro e dimentichi della sorte della loro patria, vivono "sdraiati sui loro letti d'avorio, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli della stalla, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati" (prima lettura).

Fede - tempo - eternità. Paolo esorta Timoteo, uomo di Dio, credente e cristiano autentico, a fuggire da queste cose. Quali sono codeste cose? L'avidità, l'affanno delle ricchezze, l'appetito di denaro. Deve fuggire perché "noi non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via" (cf 1Tim 6,7 e ss). Lo esorta poi a "combattere la buona battaglia delle fede" in questa vita per poter raggiungere la vita eterna, in cui regna Gesù Cristo, il Re dei re e il Signore dei signori. La fede è come la dimora in cui il cristiano vive già l'eternità nel tempo, e il tempo nell'eternità. Poiché vive l'eternità nel tempo, "tende alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza nella sofferenza, alla mitezza" (seconda lettura). Poiché vive il tempo nell'eternità, cerca con sincerità di cuore di onorare Dio e di dargli gloria. Amos, da parte sua, ci insegna che c'è una fede erronea, una falsa fiducia nel culto e nella religione, simboleggiate nel monte Garizin e nel monte Sion, come se il culto, isolatamente, fosse sufficiente per ottenere la salvezza. La sola fede religiosa non produrrà mai automaticamente la salvezza, quando con essa si copre indegnamente ogni sorta di ingiustizie e di disordini della vita. In definitiva, l'eternità è assicurata unicamente per coloro che vivono una vita di fede, che agisce per mezzo della carità.

La ricchezza, oggetto di servizio. Nel catechismo leggiamo: "I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano". Questa affermazione è "assoluta" e non è sottomessa al cambiamento di epoche o di mentalità, al progresso tecnico o alla globalizzazione economica. D'altra parte, ci sono sempre state nella storia umana delle differenze nel possesso dei beni e delle risorse, sono sempre esistiti e continueranno ad esistere "ricchi e poveri". E, infine, in non poche occasioni queste differenze provengono da grandi ingiustizie che hanno attraversato tutta la geografia del nostro pianeta. Davanti a questi fattori, noi cristiani abbiamo una grande opera e missione da realizzare tra i nostri fratelli, gli uomini. Il primo compito, senza dubbio, è quello di relativizzare la ricchezza. Non è un Dio, al quale dobbiamo rendere un culto a spese del povero e del bisognoso. È un bene, ma non è l'unico né il supremo. Un bene che sta nelle nostre mani, che è stato dato da Dio a ciascuno di noi, ma che non è interamente nostro, cioè, non possiamo farne ciò che vogliamo, perché il suo destino è universale. E con questo già appare il secondo compito: "La ricchezza ci è stata data per servire, non per dominare" e in questo modo fare più liberi coloro che ne mancano. L'inclinazione dell'uomo a dominare sugli altri è ancestrale e potentissima. Per questo, la ricchezza - tra molte altre cose - può essere pericolosa, perché è come una sirena, che possiede l'incanto del dominio e del potere. Come cristiani, saremo i primi a vivere il vangelo della povertà. Saremo per tutti un esempio e un richiamo al fatto che il denaro o serve l'uomo o non serve a nulla, almeno agli occhi della fede, agli occhi di Dio.

L'avidità, peccato contro l'eternità. L'avido ha soltanto occhi per il tempo presente, che immagina lungo come i secoli. Vorrebbe mettere l'eternità nel tempo, ma si rende conto che è impossibile. Reagisce, allora, prescindendo da essa, afferrandosi sempre più saldamente alla roccia sabbiosa del presente. L'avidità, si può affermare senza ombra di dubbio, è una passione che si annida in ogni cuore umano. L'accumulare, il possedere di più, l'aver fame di beni e di mezzi, il vivere con maggiori comodità, non è estraneo a nessun mortale: cristiani o non cristiani, credenti o atei, sacerdoti, religiosi o laici. Non che tutto ciò in se stesso sia peccato, ma quando la tendenza si trasforma in passione e la vita intera si calcola solo nell'accumulare, nell'avere, nel vivere comodamente, allora il peccato dell'avidità ti ha già schiavizzato. In effetti, per l'avidità l'uomo pecca contro la povertà, perché il suo cuore, invece di essere posto in Dio, suo Bene supremo, si è prostrato davanti al Dio insaziabile ed effimero del denaro. Pecca contro la povertà, perché le sue ricchezze non gli servono per servire, ma per soddisfare una passione. Pecca contro il disegno di Dio, che ha dato a tutti i beni di questo mondo un destino universale. E ha lasciato agli uomini di ogni epoca e generazione il compito di portarlo a compimento. Non dovranno, molti di noi cristiani, realizzare una vera "conversione" alla povertà evangelica? Non dovremo liberarci da molti attaccamenti e catene pecuniarie, che ci tolgono libertà per vivere l'autenticità del Vangelo? Riuscirò a convincermi che la povertà di cuore è il cuore della povertà, ed è sorgente cristallina di pace e di fraternità? Povero di cuore, e di vita, come Madre Teresa di Calcutta, al fine di essere una benedizione di Dio per gli uomini! 

Testo di Totustuus 

Liturgia della XXVI Domenica del Tempo Ordinario: 26 settembre 2010

Liturgia della Parola della XXVI Domenica del Tempo Ordinario: 26 settembre 2010
 

Note sull'immagine abbinata:

Lazzaro ed il ricco Epulone, illustrazione dall'Evangeliario di Echternach. Pannello superiore: Lazzaro alla porta dell'uomo ricco.
Pannello centrale: L'anima di Lazzaro è trasportata in Paradiso da due angeli; Lazzaro nel petto di Abramo.
Pannello inferiore: L'anima del ricco è trasportata da due diavoli all'inferno; il ricco è torturato nell'inferno.
L'Evangeliario di Echternach, è un libro miniato dell'VIII secolo, proveniente dalla biblioteca dell'abazia lussemburghese di Echternach e ora conservato alla Bibliothèque nationale de France (ms. Latin 9389), realizzato da un unico scriba.