Chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo

News del 04/09/2010 Torna all'elenco delle news

L'evangelista presenta il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, e possiamo immaginare le strade polverose e assolate, talora in mezzo ad un deserto sassoso come quello di Giuda, che salgono verso il monte Sion, agognata meta per ogni pio ebreo. Gesù era appena uscito dalla casa di uno dei capi dei farisei, ove aveva partecipato ad un banchetto durante il quale non erano mancate parole decise e taglienti. Riprendeva il cammino seguito da molta folla. Accorgendosi che tanti lo seguivano Gesù "si voltò" per guardarli. Non è una semplice notazione di cronaca. In quel "voltarsi" c'è tutta la passione di Gesù per la gente. Quante volte ha ripetuto a coloro che lo seguivano che non era venuto per se stesso ma per loro! Da allora Gesù non cessa di "voltarsi" verso le folle stanche e sfinite di questo mondo. Le folle di ieri e quelle di oggi. E tra esse, anche noi.

Ogni volta, infatti, che ci viene annunciato il Vangelo, particolarmente nella liturgia eucaristica domenicale, si attua nuovamente questo "voltarsi" di Gesù. La sua parola è detta per noi; è proclamata per raggiungere e commuovere il nostro cuore. Il "voltarsi" di Gesù è un voltarsi serio, come serio è il suo amore. Egli ha preso sul serio ognuno di noi, sino a dare la sua stessa vita. E pretende altrettanta serietà nel seguirlo: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo" (v. 26). Sono le condizioni per seguire Gesù. In nessun altro punto del Vangelo si parla con tanta serietà della sequela. A differenza del brano analogo di Matteo (10, 37), Luca enumera dettagliatamente i vari rapporti di parentela, sembra non volerne escludere nessuno; e tutti sottostanno all'urtante verbo "odiare". Per essere miei discepoli, dice Gesù, non basta andare dietro fisicamente e affrontare anche qualche sacrificio; è necessario troncare con un taglio netto tutti i legami col passato, sino ad "odiare" padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e persino se stessi! Non c'è dubbio che si tratta di parole a prima vista durissime, tanto da sembrare impossibile che siano uscite dalla bocca di Gesù. Eppure sono lì, chiare e inequivocabili.

E' certamente vero che si tratta di espressioni da collocare nel contesto linguistico semitico che manca del comparativo relativo, per cui l'essenza della frase "amare meno" diventa, quasi automaticamente, "odiare". Questa è l'interpretazione comune di questo brano. Tuttavia, l'espressione "odiare" non va neutralizzata con troppa facilità. La pretesa di Gesù è e resta estremamente dura in se stessa. Una interpretazione semplicemente etica della parola (rifiuto del comandamento dell'amore, oppure critica nei confronti del quarto comandamento del decalogo) non coglie l'essenza della richiesta evangelica. Gesù e il Regno di Dio esigono l'annullamento di tutti gli ordinamenti di vita valevoli fino a quel momento, per crearne dei nuovi. E' a partire dalla scelta radicale per Gesù che debbono rinascere i rapporti, anche quelli familiari. Chi volesse amare Gesù alla pari di altri affetti, non amerà in modo serio nessuno dei due. La radicalità della scelta per il Signore è quindi la sostanza di questo brano evangelico. Il versetto seguente lo chiarisce: "Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo" (v. 27). Gesù pronuncia questa frase mentre cammina verso Gerusalemme, ove lo attenderà, appunto, la croce.

Ebbene, "andare dietro a Gesù" vuol dire partecipare al suo destino, essere una cosa sola con lui. Non è cosa facile e a poco prezzo. Nell'intraprendere questa strada è necessario riflettere con cura e valutare le proprie scelte. Gesù chiarisce questo concetto con due esempi tratti dalla vita quotidiana. L'uomo che vuole costruire un fabbricato calcola con cura se le sue disponibilità finanziarie sono sufficienti per realizzare l'impresa; così pure un re, prima di fare una guerra valuta se con le sue forze potrà sconfiggere il nemico, altrimenti negozia le condizioni di pace prima che sia troppo tardi. Non si tratta qui di calcoli da fare quasi ci fosse un'alternativa nel seguire il Signore. Tutt'altro. Gesù chiude affermando: "Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo" (v. 33). Sembra che l'unico calcolo da fare sia, appunto, rinunciare a tutto per scegliere Gesù ed essere suoi discepoli. E questo non è un fatto banale; è la cosa più tremendamente seria della nostra vita. 

Testo di  mons. Vincenzo Paglia
 

Di più

Provo ad immaginarmi la scena.
Gesù, la folla, i discepoli. Le parole esigenti del Rabbì mettono a nudo, scavano nel cuore un solco profondo nel quale ciascuno dei discepoli può provare a leggere la sua verità.
Chi sto seguendo? Quali sono le parole che nutrono la mia vita? Quali sono i criteri in base ai quali scelgo, rinuncio, dico dei sì oppure dei no? Quali sono i miei sogni?
Le parole di Gesù sono per la folla, non solo per alcuni. Le condizioni per essere discepoli che troviamo in questa pagina di Luca sono per tutti. Non è solo roba da preti, frati o suore…
Per tutti Gesù lancia un invito, una possibilità. Già diverse volte siamo passati da questa proposta che il Signore lancia a coloro che intrecciano il suo cammino. In queste righe, però, si tocca quello che gli studiosi chiamano il radicalismo di Luca. Tutta la forza paradossale delle parole di Gesù è conservata in questi versetti. Il verbo greco che traduciamo con "odiare" non vuole contraddire il comandamento dell'amore verso i propri genitori, i famigliari e nemmeno proporre una forma di masochismo nell'odiare la propria vita. Gesù fa una proposta forte, radicale, che lascia senza fiato: è l'esigenza di un amore che supera quello dei legami famigliare e affettivi.
Al discepolo è chiesto un "di più".

Allora mi viene spontaneo chiedermi dove si vede, nella nostra vita di cristiani, questo "di più".
Amo mio marito o mia moglie con questo "di più", ributtandomi con fiducia nella volontà di Dio anche nei momenti di incomprensione e di fatica?
Amo mio figlio non legandolo a me, ai miei progetti o desideri e sono pronto a metterlo nelle mani di Dio, al "di più" promesso da Gesù?
Amo la mia comunità senza legarla a me, ai miei gusti, ai miei pallini, senza creare partiti e divisioni, senza escludere nessuno, accetto che il "di più" del Vangelo mi chieda di cercare il mare aperto e di smetterla di stare a sgambettare a riva?

Forse proprio questo è portare la croce. Non solo sopportare una malattia o un evento imprevisto e doloroso, non solo gestire con fede una situazione inaspettata che arriva tra capo e collo.
La croce non è solo ciò che accade senza preavviso, ma è la conseguenza di una libera scelta che il discepolo compie in nome del Vangelo e che lo espone alla fatica, alla derisione, all'incomprensione.
La croce la porto perché l'ho scelta e sapevo bene quello che stavo per fare.
Come Gesù.
Come il mio Signore.

Testo di don Roberto Seregni