Non è importante avere dei beni, ma fare del bene

News del 31/07/2010 Torna all'elenco delle news

Il Vangelo di questa domenica fa luce su un problema fondamentale per l'uomo, quello del senso del agire e operare nel mondo, che il Qoelet nella prima lettura esprime in termini sconsolati: "Vanità delle vanità, tutto è vanità...Quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?".

Un tale chiede a Gesù di intervenire in una lite tra lui e suo fratello per questioni di eredità. Come spesso quando presentano a Gesù casi particolari (se pagare o no il tributo a Cesare; se lapidare o meno la donna adultera), egli non risponde direttamente, ma affronta il problema alla radice; si colloca su un piano più alto, mostrando l'errore che è alla base della stessa domanda. Tutti e due i fratelli hanno torto perché la loro lite non deriva da ricerca di giustizia ed equità, ma da cupidigia. Tra loro due non esiste più che l'eredità da spartire. L'interesse mette a tacere ogni sentimento, disumanizza.

Per mostrare quanto questo atteggiamento sia sbagliato, Gesù aggiunge, come è suo solito, una parabola, quella del ricco stolto che crede di essere al sicuro per molti anni, avendo accumulato molti beni e a cui la notte stessa viene chiesto conto della vita.

Gesù conclude la parabola con le parole: "Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio".

C'è dunque una via d'uscita al "tutto è vanità": arricchirsi davanti a Dio.

In che consiste questo diverso modo di arricchire, Gesù lo spiega poco dopo, nello stesso Vangelo di Luca: "Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore" (Lc 12, 33-34).

C'è qualcosa che possiamo portare con noi, che ci segue dovunque, anche oltre la morte: non sono i beni, ma le opere; non ciò che abbiamo avuto, ma ciò che abbiamo fatto. La cosa più importante nella vita non è dunque avere dei beni, ma fare del bene. Il bene avuto resta quaggiù, il bene fatto lo portiamo con noi.

Smarrita qualsiasi fede in Dio, molti si ritrovano spesso oggi nelle condizioni del Qoelet, che non conosceva ancora l'idea di una vita oltre la morte. L'esistenza terrena appare in questo caso un controsenso. Non si usa più il termine "vanità", che è di sapore religioso, ma quello di assurdo. "Tutto è assurdo!". Il teatro dell'assurdo (Beckett, Ionesco), fiorito nei decenni dopo la guerra, era lo specchio di tutta una cultura. Quelli che sfuggono alla tentazione dell'accumulo delle cose, come certi filosofi e scrittori, cadono in qualcosa che è forse ancora peggiore: la "nausea" di fronte alle cose. Le cose, si legge nel romanzo La nausea di Sartre, sono "di troppo", sono opprimenti. In arte, vediamo le cose deformate, oggetti che si afflosciano, orologi penzolanti come salami. Lo si chiama "surrealismo", ma più che un superamento, è un rifiuto della realtà. Tutto spira putridume, decomposizione. L'abbandono dell'idea del cielo non ha certo reso più libera e gioiosa la vita sulla terra!

Il Vangelo di oggi ci suggerisce come rimontare questa china pericolosa. Le creature torneranno ad apparirci belle e sante il giorno che smetteremo di volerle solo possedere, o solo "consumare", e le restituiremo allo scopo per cui ci furono date che è di allietare la nostra vita quaggiù e facilitarci il raggiungimento del nostro destino eterno. Facciamo nostra una preghiera della liturgia: "Insegnaci, Signore, a usare saggiamente i beni della terra, sempre orientati ai beni eterni".

Testo di padre Raniero Cantalamessa 
 

Accumulo o condivisione?

Come spesso accade nel Vangelo (e nella vita), Gesù non risponde alle domande che gli vengono offerte. Non lo fa per scortesia o per mal'educazione, ovvio. Il suo intento è diverso: vuole mettere in discussione la domanda stessa, vuole farci fare un passo indietro, stimolarci a guardare la realtà da un altro punto di vista. Il Suo.

Nella sezione del Vangelo che iniziamo a leggere in questa domenica, Luca ci propone una serie di testi che hanno come filo conduttore il tema dell'attenzione, della vigilanza. Sono brani molto diversi tra di loro, ma che forniscono al discepolo regole di vita per la quotidianità.

La domanda iniziale è proposta a Gesù da un indistinto uomo della folla e riguarda una questione di eredità. Non si dice nulla riguardo l'argomentazione precisa del fatto, ma solo il rifiuto del Rabbì ad entrare nello specifico della risposta. Gesù vuole fare un passo indietro: smascherare i due fratelli dall'illusione di cui sono vittime. Il Rabbì, come sempre, vuole andare all'essenziale, alla radice del problema. I due fratelli litigano per il "desiderio smodato" di possedere, per la fiducia che hanno riposto nell'illusione della ricchezza, perché sono convinti che nei beni troveranno la propria sicurezza.
A questa istruzione già molto chiara, Gesù aggiunge la parabola dell'uomo ricco e stolto. Quest'uomo pensa dimettersi al sicuro, di abbracciare la serenità, accumulando i suoi beni. Fa i conti con le sue ricchezze e i suoi progetti, dimenticandosi di Dio. Ma quello che prepara di chi sarà? Cosa potrà portare con sé?
La parabola di Gesù mira a smascherare le nostre scelte e le nostre logiche di potere.
Quali tesori stiamo accumulando? Quelli davanti a Dio o quelli davanti agli uomini?
Quale logica stiamo vivendo? Quella del Regno o quella del mondo? Quella della condivisione o quella dell'accumulo?

La vita cristiana è una scelta. Ci appella al coraggio, alla vigilanza, all'attenzione. Lasciamo che lo Spirito ci purifichi, per trattenere il grano e lasciare che la pula si disperda…

Testo di don Roberto Seregni 


La sapienza che viene da Dio e che ci guida verso il cielo

La Parola di Dio di questa XVIII Domenica del tempo ordinario dell'anno liturgico ci invita a riflettere sulla precarietà dell'esistenza umana ed impegnarci a vivere in questo mondo con il cuore aperto all'eternità. Siamo chiamati a recuperare quella sapienza che viene dal Cielo e da Dio e che spesso dimentichiamo nel nostro agire quotidiano.

E' soprattutto il testo del Vangelo di oggi che ci introduce in una meditazione di carattere ascetico che impegna la nostra mente a valutare attentamente i beni della terra nella continua ricerca dei beni del cielo, considerato che non siamo cittadini definitivi su questo terra, ma siamo pellegrini verso l'eternità. Non possiamo improntare la nostra vita ad accumulare beni e tesori materiali, dimenticandoci di quello che mettiamo da parte, tra l'altro senza mai fare del bene agli altri, non ce lo porteremo all'altro mondo, ma lo lasceremo in eredità a chi avrà diritto di prenderne possesso dopo la nostra morte.

Ciò ci fa capire la necessità di essere più distaccati dal possedere e dall'accumulare e di essere, invece, più generosi ed altruisti nella vita di tutti i giorni, pensando di fare il bene a tutti, specie se siamo nelle condizioni materiali ed economiche di poter dare e dare con una certa abbondanza. Ecco il brano del Vangelo che ascoltiamo e su quale è necessario interrogarsi, al di là di avere o meno beni materiali in giacenza o in accumulo crescente, fino a raggiungere proprietà eccessive e non più gestibili per la mole degli affari che produce e ci rende. Quanti ricchi che sperimentano il gusto del possedere e che piangono per altri e più seri motivi, ben sapendo che la ricchezza non rende felice, né risolve tutti i problemi della vita presente"!

Il monito del vangelo è esplicito: bisogna guardarsi dalla cupidigia, dalla mania del possedere sempre di più, quasi a mettere una garanzia, un'assicurazione sulla vita per i beni che si possiedono. Il vivere ed arrivare al giorno di domani sta solo nelle possibilità e nelle mani di Dio e per quanto ci vogliamo dare da fare, non possiamo prolungare neppure per un attimo ciò che è stabilito dall'eternità per ciascuno di noi e che solo Dio conosce e solo Dio decide per amore.

Il testo del Vangelo di integra perfettamente con la prima lettura della giornata odierna, tratto dal libro del Qoelet, dove si parla della vanità di ogni cosa umana e terrena, ovvero della precarietà dell'esistenza umana e dei beni materiali. Un testo ben conosciuto nella letteratura e nella religiosità popolare sul quale sono stati composti ed elaborati testi musicali, canori, legislativi e comunicativi di diversi generi espressioni. Un antico canto popolare, molto cantato anni fa, soprattutto nel corso delle missioni popolari dei passionisti recitava così: "Vanità di vanità. Tutto il mondo è vanità. Alla morte che sarà? Ogni cosa è vanità", che ricalca il testo originario della parola di Dio.

Ed un invito esplicito a liberarci dalle cose che passano, dagli attaccamenti morbosi a persone e beni di questo mondo ci viene dalla seconda lettura, tratta da San Paolo Apostolo ai Colossesi, nella quale si parla chiaramente del destino eterno dell'uomo ed in ragione di questa meta ultima come agire in questo mondo, liberandoci da tante forme di schiavitù, che blocca l'uomo nell'orizzonte del successo, del piacere, del benessere, delle cose che contano solo su questa terra e per le quali si lotta, si fa guerra, si distruggono gli altri, ci si affanna nell'illusione che siano esse a dare la felicità all'uomo.
E' la fotografia di questo nostro tempo, ove le denunce fatte dall'Apostolo Paolo nel brano che ascoltiamo oggi sono esattamente rispondenti ai tanti modi di pensare, esprimersi e vivere dell'uomo. Il cristiano vola alto, il vero discepolo del Cristo risorto sa discernere il bene dal male, il vizio dalla virtù, la bontà dalla cattiveria, la libertà dalla schiavitù del sesso, del denaro e del potere.
In questo tempo e periodo di vacanze la parola di Dio di oggi, prima domenica di agosto e primo vero giorno di ferie collettive e di massa, richiama l'attenzione su questi temi: potrebbe risultare un controsenso, ma penso che sia opportuno richiamare la precarietà della vita umana e tutto il connesso ad un'esistenza che non finisce con la morte, ma inizia proprio ove apparentemente la vita finisce, perché inizia una nuova vita, quella infinita con Dio nel santo Paradiso. 

Testo di padre Antonio Rungi
 

tratti da www.lachiesa.it