Come agnelli in mezzo ai lupi per portare Cristo

News del 03/07/2010 Torna all'elenco delle news

La Parola di Dio di questa XIV domenica del tempo ordinario dell'anno liturgico ci fa riflettere nuovamente sul tema della missione e dell'evangelizzazione. La scelta di altri 72 missionari per evangelizzare la Palestina al tempo di Gesù ci fa capire che, allora come oggi, c'è bisogno di persone disponibili, capaci di sacrificio, preparate a qualsiasi rischio di fallimento, ma anche positivamente predisposte ad incassare il successo. Certo il tutto in un'ottica di fede e di quella che è la missione fondamentale della Chiesa di portare la salvezza e la salute a tutti gli uomini della terra.

Il testo del Vangelo di Luca ci aiuta a capire meglio il senso di tale missione soprattutto nel contesto della cultura di oggi. Una missione che è prima di tutto testimonianza e poi annuncio.

La crisi delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa ci dice quanto sia oggi difficile accogliere l'invito e le speciali vocazioni al servizio missionario. La messe oggi è davvero grande e gli operai stanno diventando sempre di meno e per lo più non sempre all'altezza del compito, quando la fragilità umana prende il sopravvento rispetto alla stessa grazia sacramentale.
San Paolo Apostolo fa dell'annuncio del Crocifisso il suo impegno missionario fondamentale. Tutto il suo santo orgoglio sta nell'annunciare Cristo Crocifisso e vive esclusivamente per lui. Nel breve brano della lettera ai Galati che ascoltiamo oggi la sua attenzione si focalizza sul Calvario, sulla Croce e sul Redentore.
Davanti al Crocifisso si superano le divisioni, le diatribe ed ogni ragionamento umano, che non porta la felicità, né genera il bene nell'umana società. Immedesimarsi nel mistero della Croce è farsi carico della salvezza dei fratelli e di conseguenza dell'urgenza missionaria che passa attraverso la contemplazione del Crocifisso.

La prospettiva estremamente positiva che il profeta Isaia nella prima lettura di oggi ci fa vedere e toccare quasi per mano per l'Antico Israele è una certezza per il nuovo popolo di Dio, quel popolo sgorgato dal costato squarciato di Cristo.
L'immagine di una Gerusalemme quale città di pace e di serenità è la stessa immagine che vorremo dipingere delle nostre città, troppo spesso insanguinate con le mani degli uomini del sangue di fratelli uccisi per odio o comunque per mancanza d'amore. Fosse anche per noi gente del XXI secolo questo l'augurio che per Gerusalemme faceva il grande profeta. Migliore prospettiva per questa umanità non è ipotizzabile. Un sogno che può diventare realtà, in quanto buona parte perché lo diventi spetta anche a noi cristiani, a noi che il Signore ha chiamato per assegnarci un compito particolare quello della missione sul territorio, ma anche la missione ad gentes. Come i 72 discepoli, bisogna partire e non restare oziosi a lamentarsi delle cose che non vanno.
Bisogna partire senza possedere nulla con la forza della gioia che viene da Dio con il coraggio della speranza, con l'amore che motiva ogni nostra azione, con la povertà dei mezzi e delle strutture, perché non sono queste a rendere efficace la parola di Dio e la nostra testimonianza di lui al mondo intero. E' la parola della Croce che salva il mondo e questo nostro mondo. E parola della Croce è sinonimo in modo particolarmente aderente della parola Amore. 

Testo di padre Antonio Rungi 

 

Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi

Domenica scorsa, il Vangelo di Luca ci ha come in­seriti nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Ognu­no di noi, mentre segue i suoi ritmi di vita, magari già segnati dalle vacanze, è preso dal Signore e coinvolto nel suo viaggio. Non siamo noi i maestri o coloro che scelgono la meta, eppure è un viaggio estremamente coinvolgente. In questa domenica l'evangelista ci as­socia ai settantadue discepoli inviati da Gesù: «Il Si­gnore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (v. l). Una prima riflessione riguarda il numero settanta­due. Non è una semplice notazione quantitativa. Set­tantadue erano le nazioni della terra, secondo l'antica tradizione ebraica. È come dire che, fin dall'inizio, l'orizzonte evangelico si apre a tutti i popoli, a tutte le nazioni, a tutte le culture. Gesù, sin dai primi passi del suo viaggio, ha di fronte tutti i popoli, e a loro invia i discepoli. Nessuno deve restare fuori dell'annuncio del Vangelo. La Pentecoste, quando tutte le nazioni che sono sotto il cielo «udirono annunziare nelle loro lingue le grandi opere di Dio» (At 2, Il), inizia già qui, proprio mentre Gesù muove i suoi primi passi. Con lo sguardo rivolto ai confini della terra, Gesù di­ce ai discepoli: «La messe è molta». Nessuno è esclu­so dal suo sguardo e dalla sua preoccupazione. Di fronte a questa moltitudine immensa, con un accento di tristezza, aggiunge: «ma gli operai sono pochi» (v. 2).

Sì, c'è una sproporzione tra l'enorme attesa e il pic­colo numero di discepoli. Ma non si tratta di una sem­plice sproporzione numerica. Il problema sta più a fondo: nella qualità dell'annuncio. Sta qui, io credo, la sfida che dobbiamo raccogliere. Per far fermentare la pasta, senza dubbio è importante la quantità di lievito, ma è decisivo che sia davvero lievito. Ebbene, il pro­blema sta tutto qui, sulla qualità del lievito. In altra parte del Vangelo si legge: «Se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?» (Mt 5,13). Settantadue discepoli erano per altrettanti popoli. Noi forse siamo pochi e certamente dobbiamo crescere anche nel numero. Ma il problema cruciale non è nel numero bensì nella qualità. Insomma, non è che siamo pochi; forse siamo poco lievito, poco sale, poca luce. Ecco perché attorno a noi si vive spesso co­me se Dio non ci fosse. La messe resta molta, ma gli operai lavorano poco, sono tutti presi ognuno dai pro­pri problemi, dalle proprie preoccupazioni. Sono per lo più tesi a salvare se stessi, ad arare il proprio piccolo campicello, a ritagliarsi la propria piccola tranquillità. E chi non ha bisogno di tranquillità? Que­sta è la preoccupazione che il Signore vuole comuni­carci. Ma come essere bravi operai?

Il Vangelo ce lo suggerisce. Perché Gesù, di fronte a una messe così grande, manda i discepoli due a due? Non era più logico mandarli uno a uno e raddoppiare così i luoghi di annuncio? Bella la spiegazione che Gregorio Magno dà di questo passo evangelico. Il grande vescovo scrive che Gesù .mandò i discepoli due a due perché la prima predica fosse anzitutto l'amore vicendevole, e comunque le loro parole fossero testimoniate con la loro vita. Questo vuoi dire essere lievi­to, sale e luce. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). La comunione tra i fratelli è la prima gran­de predicazione. Ma dov' è la nostra comunione? Dove la preoccupazione perché noi cre­sciamo come una famiglia? Non siamo, invece, distanti gli uni dagli altri, ognu­no per proprio conto? Ma «due a due» vuol dire aprirsi a tutti. Sì, l'evangelizzazione inizia dall'amore vicen­devole e conduce ad allargare l'amore.

La Gerusalemme verso cui andiamo con il Signore, infatti, non è forse la città ove tutti gli uomini, tutte le nazioni, tutti i popoli si ritroveranno raccolti come in una sola famiglia? Per questo oggi ci scandalizza più che mai la «corsa» al frazionismo, allo smembramen­to, alla contrapposizione, alla lotta fratricida, alle guerre tra gruppi etnici che si ammantano talora anche della dimensione religiosa. La Chiesa, ogni comunità cristiana, sente ancora più vere le indicazioni di Gesù: «Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (v. 3). Non è un compito age­vole per un «agnello» far cambiare vita al «lupo»; non è facile sconfiggere l'individualismo e l'interesse per se stessi; non è naturale distruggere gli idoli del­l'arroganza, della competizione, della forza, per affer­mare la signoria di Dio. E tutto è ancora più difficile se questi «agnelli» debbono presentarsi senza «borsa, né bisaccia, né sandali». L'unica loro forza è nella pa­ce donata dal Signore e nell'amore vicendevole che la manifesta. È questa l'unica forza che i discepoli han­no. Qualcuno l'ha chiamata la «forza debole» della fede; è debole perché non ha né armi, né arroganza; eppure è a tal punto forte da spostare i cuori degli uo­mini.

Le frasi finali del brano evangelico ce lo conferma­no: «I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: "Signore anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome"» (v. 17). E Gesù: «lo vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare» (v. 18-19). C'è dunque un potere dato ai discepoli: quello di voler bene a Dio e agli uomini a ogni costo e sopra ogni cosa. Questa è l'unica grande e fortissima ricchezza del cristiano

Testo di mons. Vincenzo Paglia 
 


Nesso tra le letture

Cercare in tutto il fine: questa frase può sintetizzare i testi liturgici. Il fine della missione dei settantadue non è il successo, ma che "i loro nomi siano scritti nel cielo" (vangelo). L'Isaia post-esilico vede anticipatamente il fine di tutti i suoi sogni: la città di Gerusalemme che riunisce tutti i suoi figli, come una madre (prima lettura). L'esistenza cristiana non ha altro fine se non appropriarsi della vita di Cristo in tutta la sua realtà storica, specialmente nel mistero della croce. È ciò che ci insegna san Paolo con la sua parola e con la sua vita (seconda lettura).

Inscritti nel libro della vita. I 72 discepoli di Gesù, simbolo dei cristiani sparsi per il mondo, in quanto 72 sono tutti i popoli della terra (cf Gen 10), sono contenti della missione compiuta e si recano da Gesù per raccontargli le loro prodezze missionarie. Gesù li ascolta, ma allo stesso tempo li fa rendere conto di qualcosa di importante: le imprese missionarie non hanno valore in se stesse, ciò che realmente vale e che ci deve rallegrare profondamente è il nostro destino eterno con il Dio della vita. Questa ricerca gioiosa del vero fine dell'esistenza, spiega e dà senso alla gioia, in sé legittima e ragionevole, per i successi apostolici, così come dà senso alle difficoltà e alle avversità connaturali alla missione cristiana. Il discepolo di Gesù, in effetti, non predica la pace messianica, predica in mezzo a un mondo non poche volte ostile e restio ai valori del Regno, predica avvalendosi e ponendo la sua fiducia, più che nei mezzi umani, nella forza misteriosa di Dio. Indubbiamente, il successo non è un elemento essenziale nel bagaglio del missionario.

Madre di consolazione e di pace. Quando l'Isaia post-esilico scrive questo bellissimo testo, la diaspora giudaica è una grandezza estesa per tutto l'impero persiano e per il mediterraneo. Il profeta, sotto l'azione dello Spirito divino, sogna un popolo unito e unificato nella città mistica di Gerusalemme. Con occhio all'erta, guarda verso il futuro e prevede poeticamente il momento gioioso della riunificazione. Lo fa ricorrendo all'immagine di una madre di famiglia che riunisce attorno a sé tutti i suoi figli, tiene teneramente nelle sue braccia il più piccolo e lo alimenta con il proprio petto. Tutti, riunendosi di nuovo con la madre, si riempiono di consolazione e si sentono come inondati da una grande pace. Questa Gerusalemme, madre di consolazione e di pace, simboleggia il Dio della consolazione, simboleggia Cristo, che è la nostra pace, simboleggia la Chiesa, nel cui seno tutti siamo fratelli e dal cui amore sgorga la pace di Cristo, che dura per sempre. La Chiesa, quella di oggi come quella di sempre, è nella sua essenza, sebbene non sempre nei suoi uomini, madre di consolazione e di pace per tutti i popoli.

Porto nel mio corpo il tatuaggio di Gesù. Per un cristiano, ci dice san Paolo, non ha valore l'essere circonciso o no, ciò che vale è essere una nuova creatura. Tutto deve essere subordinato al conseguimento di questo fine. San Paolo è cosciente di averlo conseguito, dato che porta nel suo corpo il tatuaggio di Gesù. Cioè, porta in tutto il suo essere un segno dell'appartenere a Gesù, come lo schiavo portava un segno di appartenenza al suo padrone, o, come nelle religioni misteriche, l'iniziato portava in sé un segno di appartenenza ai suoi dèi. Come Paolo, così debbono essere tutti i cristiani, per questo può dire loro: "Siate imitatori miei, come io lo sono di Cristo". Questo è, inoltre, il fine della missione di Gesù Cristo: che l'uomo si appropri della redenzione operata da Gesù e giunga così ad essere e a manifestare agli altri che è appartenenza di Dio. Dopo venti secoli di cristianesimo, quanti portano inciso su se stessi il tatuaggio di Gesù Cristo?

Cristiano, ossia, missionario. L'immagine del cristiano che va a messa, che crede nei dogmi della fede e adempie ai comandamenti, è incompleta e un po' antiquata. Ciò non basta, perché essere cristiani è avere una missione e realizzarla con zelo ed ardore nelle occupazioni della vita e nell'amplissima gamma di compiti ecclesiali oggi esistenti. Ancor di più, il senso di missione è lo stimolo più forte per credere e vivere la fede, per compiere i comandamenti di Dio e della Chiesa. Se qualcuno non è convinto del fatto che essere cristiani equivalga e vivere in chiave di missione, gli raccomando di leggere i documenti del Concilio Vaticano II e il catechismo della Chiesa cattolica. In quest'ultimo si legge: "Tutta la Chiesa è apostolica in quanto essa è 'inviata' in tutto il mondo; tutti i membri della Chiesa, sia pure in modi diversi, partecipano a questa missione. 'La vocazione cristiana, infatti, è per sua natura anche vocazione all'apostolato" (CCC 863). Se amiamo fedelmente la Chiesa, non dubitiamo che la migliore maniera di esprimerle il nostro amore è mediante il nostro spirito missionario. E 'missionario' significa coscienza viva di essere inviato; sebbene questo invio possa essere al vicino di casa, al cliente nel lavoro, all'emigrante che incontro alla fermata dell'autobus o al semaforo, alla giovane coppia che si prepara al matrimonio. Al giorno d'oggi essere missionario non è unicamente partire per un paese lontano a predicare la fede e lo stile di vita di Cristo, è anche un compito che si porta a compimento nel proprio quartiere, nelle piazze della città e perfino tra le pareti di casa propria.

La missione è più forte della paura. Parafrasando Giovanni Paolo II, potremmo dire: "Non abbiate paura di essere missionari". Perché, a dire il vero, alcune volte almeno ci attanaglia il timore, il rispetto umano, il 'che penseranno' e il 'che diranno'. È umano provare paura, ma la missione deve superare e sorpassare i nostri timori. Il calciatore non ha paura di parlare di calcio, né il medico o il maestro di parlare della loro professione. Dobbiamo aver paura, noi cristiani, di parlare di Cristo: della sua persona, della sua vita, della sua verità, del suo amore, del suo mistero? La fede e la missione cominciano nel cuore, ciò è vero, ma debbono terminare nei fatti e sulle labbra. Tutti dobbiamo vincere qualsiasi dimostrazione di paura. Gli adulti, per non chiamare la paura prudenza. I giovani, per non credersi esseri di un altro pianeta tra i loro coetanei. Soprattutto, voi giovani (laici, religiosi e religiose, sacerdoti) che siete inviati da Cristo come apostoli dei giovani. È la vostra ora! La lascerete passare? Anche voi, maestri ed educatori cristiani, che avete nelle vostre mani l'infanzia e l'adolescienza, siate missionari nella scuola! Potremo permettere che la paura prevalga sulla nostra missione cristiana? La nostra missione deve essere la nostra corona e la nostra gloria. 

Testo di Totustuus
 

Liturgia della XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) - 4 luglio 2010

Liturgia della Parola della XIV Domenica del T.O. (Anno C)

tratti da www.lachiesa.it