Vi lascio la pace, vi do la mia pace

News del 08/05/2010 Torna all'elenco delle news

La Liturgia della domenica sesta di Pasqua ci fa leggere ancora un brano del Vangelo di Giovanni (Giov.14, 23-29) tolto dal grande discorso pronunciato da Gesù nelle ultime ore della sua vita, poco prima che inizi la sua Passione. Ai suoi discepoli riuniti accanto a lui, Gesù offre il centro del suo insegnamento e li esorta a vivere secondo la sua Parola, presentando la sua vita come modello e preannunciando il loro destino.
Leggendo attentamente queste pagine del Vangelo, possiamo accorgerci che in realtà esse ci collocano all'interno della comunità cristiana degli inizi, ci rendono partecipi dei turbamenti, delle domande angoscianti, dei problemi, di fronte ai quali essa si è trovata dopo la morte di Gesù e ci fanno sentire che tutto questo è ancora il cammino della nostra comunità attuale, attraversato dalle stesse domande e dalle stesse prove, perché anche noi possiamo arrivare a sperimentare la stessa fede in Gesù risorto.
La situazione descritta dal Vangelo è tanto simile a quella di cui parla il cap.20,19: "La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse a loro: Pace a voi": adesso Gesù è con loro, rivolge a loro la sua Parola, fa in modo che non si sentano soli facendo gustare a loro i segni della sua presenza. E al termine del brano che oggi leggiamo, troviamo l'invito di Gesù: "Alzatevi, andiamo (via) di qui" (14,31), invito che non ha senso locale, ma metaforico. È l'invito a non rimanere fermi, ma a "risorgere" dalla paura, dal torpore, a vivere una vita piena, arricchita dalla forza che viene dalla sua Parola.
Tutto questo è per noi: nei cap.14-16 il Vangelo di Giovanni riporta le Parole di Gesù che non troviamo negli altri Vangeli, in un genere letterario che non è nuovo nella Bibbia: lo troviamo nella benedizione di Giacobbe (Gen.49,1-28), nell'ultimo messaggio di Mosè al suo popolo (Deut.31-34), tutto il libro del Deuteronomio può essere considerato un discorso di addio. Si tratta, in realtà, della comunità credente, che alla luce della Parola di Dio, va tracciando la guida che deve illuminare il suo cammino nella storia. Giov.14 presenta Gesù con i tratti di Mosè: Gesù, come Mosè, alla guida del nuovo popolo, lo invita ad osservare i suoi comandamenti che consistono nel "credere" e "amare". I discorsi di Gesù si concatenano, interrotti dalle domande dei discepoli: si sviluppa in questo modo la riflessione della comunità che, richiamando le Parole di Gesù, comprende se stessa, ciò che è chiamata a vivere ed illumina il proprio cammino nel mondo. Così, Tommaso esprime la difficoltà nel conoscere la via e la meta verso cui tendere (5), Filippo manifesta la sua ansia di vedere il Padre (8) e Giuda rimane perplesso di fronte al fatto che Gesù si manifesti solo ai suoi e non al mondo (22): la piccola comunità giovannea è tutta riunita nella memoria della Parola di Gesù che l'ha introdotta nella sua intimità, le ha rivelato la relazione che lo unisce al Padre, il ruolo dello Spirito Santo, dono di Amore che egli avrebbe dato ai suoi discepoli per continuare ad essere in comunione con lui e per creare una comunione tra di loro talmente profonda da essere uguale a quella che unisce Lui con il Padre. E' meravigliosa l'esperienza che Gesù ha fatto gustare ai suoi discepoli: è stupenda l'esperienza che la comunità cristiana è chiamata a vivere nel tempo. Ma se tutto è così bello, perché Gesù, proprio Lui, è finito in croce? Non è forse Lui, per primo, un grande illuso? E perché la comunità che crede, deve chiudersi di fronte alle minacce del mondo? Perché il mondo non capisce? E' il senso di questi capitoli di Giovanni: da una parte l'orizzonte splendido che Gesù apre di fronte ai suoi discepoli, e dall'altra parte il realismo del percorso dell'esperienza cristiana nel mondo. Giovanni lo ha detto sin dal prologo del suo Vangelo: "la luce splende nelle tenebre…Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto" (Giov.1,5.11). Ma perché tutto questo? Le domande che i discepoli pongono a Gesù e le sue risposte ci mostrano che non c'è un momento nel quale l'esperienza cristiana è stata scambiata con un'illusione.
Il piccolo brano che oggi la Liturgia ci offre è la risposta alla domanda di Giuda: "Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?", che significa chiedersi perché la rivelazione di una realtà così bella non avviene in modo da imporsi al mondo, per vie impressionanti, miracolistiche (domanda particolarmente significativa per noi, oggi, che abbiamo mezzi così potenti per convincere il mondo intero). La risposta di Gesù ci invita ad entrare nella profondità del progetto del Padre: si tratta di entrare in una relazione di Amore, un Amore infinito che lega il Padre con il Figlio, si tratta di aprirsi ad un'esperienza di Amore che solo il contatto con la carne di Gesù fa gustare, si tratta di lasciare che la propria carne diventi la dimora dell'Amore che lega il Padre e il Figlio. La "manifestazione" di Gesù non è "impressionante", non è "potente": appare solo nell' "annientamento" dell'Amore: solo chi entra in questa relazione può capire.
E Gesù avverte immediatamente che tutto questo non è frutto di una emozione psicologica o di una conquista morale ma è un dono che viene dal Padre attraverso la relazione d'Amore che il Figlio ha con Lui, e con l'umanità di cui il Figlio ha assunto la carne. L'esperienza dello Spirito santo dà alla comunità cristiana la sua identità più precisa e qualificante, come comunità nella quale le relazioni sono la manifestazione nella storia della relazione che lega il Padre con il Figlio. Per questo, la comunità cristiana può essere libera dalla preoccupazione di doversi giustificare davanti al mondo quando non si sente condivisa: la sua difesa è solo la novità dello Spirito santo, è solo il poter gustare la gioia dello Spirito d'amore che è l'opposto dello spirito del mondo.
Alla sua comunità, che percepisce la durezza del cammino nella storia, Gesù lascia la sua pace, quella che il Vangelo di Giovanni ci descrive come costante atteggiamento di Gesù nella drammaticità della Passione. "Non come la dà il mondo, io la do a voi": la pace di Gesù è il frutto del suo totale abbandono nel Padre, è il gustare la vita del Padre che si fa tanto più intensa quanto più il Figlio vive soltanto di Lui. Di fronte a questa pace, il "principe del mondo" non può fare niente. Alla comunità che gusta la sua pace, Gesù può dire: "Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore". Oggi queste parole sono rivolte a noi se lasciamo che l'Amore che lega il Padre con il Figlio afferri la nostra vita. 

Testo di mons. Gianfranco Poma


Non c'è pace del cuore senza Dio

"Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi". Di quale pace parla Gesù in questo brano evangelico? Non della pace esterna consistente nell'assenza di guerre e conflitti tra persone o nazioni diverse. In altre occasioni egli parla anche di questa pace; per esempio quando dice: "Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio". Qui parla di un'altra pace, quella interiore, del cuore, della persona con se stessa e con Dio. Lo si capisce da quello che aggiunge subito appresso: "Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore". Questa è la pace fondamentale, senza la quale non esiste nessun'altra pace. Miliardi di gocce di acqua sporca non fanno un mare pulito e miliardi di cuori inquieti non fanno un'umanità in pace.

La parola usata da Gesù è shalom. Con essa gli ebrei si salutavano, e tuttora si salutano, tra loro; con essa salutò lui stesso i discepoli la sera di Pasqua e con essa ordina di salutare la gente: "In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa" (Lc 10, 5-6).

Dobbiamo partire dalla Bibbia per capire il senso della pace che dona Cristo. Nella Bibbia shalom dice più che la semplice assenza di guerre e di disordini. Indica positivamente benessere, riposo, sicurezza, successo, gloria. La Scrittura parla addirittura della "pace di Dio" (Fil 4,7) e del "Dio della pace" (Rom 15,32). Pace non indica dunque solo ciò che Dio dà, ma anche ciò che Dio è. In un suo inno, la Chiesa chiama la Trinità "oceano di pace".

Questo ci dice che quella pace del cuore che tutti desideriamo non si può ottenere mai totalmente e stabilmente senza Dio, fuori di lui. Dante Alighieri ha sintetizzato tutto ciò in quel verso che alcuni considerano il più bello di tutta la Divina Commedia: "E 'n la sua volontate è nostra pace".

Gesù fa capire che cosa si oppone a questa pace: il turbamento, l'ansia, la paura: "Non sia turbato il vostro cuore". Facile a dirsi!, obbietterà qualcuno. Come placare l'ansia, l'inquietudine, il nervosismo che ci divora tutti e ci impedisce di godere un po' di pace? Alcuni sono per temperamento più esposti di altri a queste cose. Se c'è un pericolo lo ingigantiscono, se c'è una difficoltà la moltiplicano per cento. Tutto diventa motivo di ansia.

Il Vangelo non promette un toccasana per questi mali; in certa misura essi fanno parte della nostra condizione umana, esposti come siamo a forze e minacce tanto più grandi di noi. Però un rimedio lo indica. Il capitolo da cui è tratto il brano evangelico di oggi comincia così: "Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me" (Gv 14, 1). Il rimedio è la fiducia in Dio.

Dopo l'ultima guerra, fu pubblicato un libro intitolato Ultime lettere da Stalingrado. Erano lettere di soldati tedeschi prigionieri nella sacca di Stalingrado, partite con l'ultimo convoglio prima dell'attacco finale dell'esercito russo in cui tutti perirono. In una di queste lettere, ritrovate a guerra finita, un giovane soldato scriveva ai genitori: "Non ho paura della morte. La mia fede mi dà questa bella sicurezza!"

Adesso sappiamo cosa ci auguriamo a vicenda, quando stringendoci la mano, ci scambiamo, nella Messa, l'augurio della pace. Ci auguriamo l'un l'altro benessere, salute, buoni rapporti con Dio, con se stessi e con il prossimo. Insomma di avere il cuore ricolmo della "pace di Cristo che sorpassa ogni intelligenza". 

Testo di padre Raniero Cantalamessa