VI Domenica di Pasqua: Non sia mai turbato il vostro cuore
News del 08/05/2010 Torna all'elenco delle news
Il lungo, ed insieme breve periodo, che Gesù fa intercorrere tra la sua resurrezione fino all'ascensione al Cielo, deve essere stato denso di attese tra gli Apostoli e quanti erano rimasti fedeli al Maestro: tempo di incertezze e di attesa di certezze, di domande sul da farsi.
Gesù andava e veniva, apparendo in continuità, come volesse guidare i passi di un lungo cammino verso il Regno, che Lui aveva iniziato in terra tra noi e fra noi: un Regno a cui anche noi siamo chiamati a partecipare e costruire, giorno per giorno.
Se la bellezza e la profondità della Buona Novella era stata così poco capita, se i confini dove farla giungere erano immensi, se tutto questo era apparso difficile stando vicino a Gesù, doveva apparire quasi una follia per gli Apostoli 'andare'. 'Andare', ma da chi? E dicendo che cosa? Con quali mezzi persuasivi?
Bastava annunciare, come faranno poi gli Apostoli e siamo chiamati noi, la morte e la resurrezione di Gesù, figlio di Dio? Bastava e basta dire agli uomini, sempre malati di scetticismo, che Gesù è la Verità e non ha certamente bisogno di fatti eclatanti, di potenza umana, ma solo di un'autentica ricerca, per poter diventare 'Luce che illumina le nostre tenebre'?
Gesù poi li mandava - e ci manda - raccomandando di andare in totale povertà, ossia non ricorrendo a strategie, a fatti miracolosi, rifuggendo così i metodi del mondo, che quando annunciano qualcosa di `grande' usano una tale forza di mezzi e di pubblicità, da non far più capire se quanto si proclama sia vero o nasconda altro, che nulla ha a che fare con la bellezza e il valore dell' evento stesso.
Tutti interrogativi e perplessità 'umane', che spesso inondano la nostra anima, trovano la loro risposta dopo Pentecoste.
È la stessa debolezza o timore che tante volte si nota tra di noi: paura di testimoniare la nostra fede, una testimonianza che nasce sola da una vita vera di fede.
Troppe volte siamo superficiali e, davanti alla prova, mostriamo la nostra titubanza e debolezza.
Non pregheremo mai abbastanza per avere quella pienezza di fede, che ci fa andare oltre l'umano e la mediocrità di troppi.
Ma il nostro tempo - e lo abbiamo vissuto e lo viviamo drammaticamente a causa della pedofilia - il mondo, accusandoci – sia pure senza distinzioni - per un peccato davvero totalmente inaccettabile, sembra invitarci, senza saperlo, ad una coerenza che ci si attende da chi è credente e chiamato alla santità: una coerenza di vita, che assume tutte le istanze dell'uomo e del creato.
Ma forse trova ancora in troppi quella che possiamo definire 'incertezza'. Ed è proprio questa incertezza, aggravata anche da scenari di scienza e tecnologie, che quasi si considerano 'onnipotenti', a rendere nuovo il tempo che viviamo. Sono sfide di carattere culturale, educativo, morale, di fronte alle quali nessuno può restare indifferente, tanto meno un credente.
Il credente fedele non può mai chiudersi in se stesso, isolandosi spiritualmente dalla comunità, ma è chiamato a vivere in un continuo scambio con gli altri, con vivo senso di fraternità, nella gioia e nel rispetto della uguale dignità e nell'impegno di fare fruttificare insieme l'immenso tesoro ricevuto in dono. Fanno tanto pensare le parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli, che oggi siamo noi:
"Gesù disse ai suoi discepoli: 'Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserverà le mie parole e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto quando ancora ero tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà a mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, Io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito ciò che vi ho detto. Vado e tornerò a voi: se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l'ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate". (Gv. 14, 23-29)
Parole che Gesù pronunciò nell'Ultima Cena, prima di affrontare il supremo dono della sua vita con la passione e crocifissione.
Conosceva bene la debolezza umana dei suoi discepoli. Sapeva che per un poco avrebbero messo in dubbio la loro totale fiducia, fino a rinnegarLo. Sapeva tutto di loro.
Ma volle rinfrancarli con queste parole, che abbiamo letto: hanno tutto il sapore di un testamento da non dimenticare.
Tutto è in quella stupenda espressione, che ripeterà all'infinito nell'Ultima Cena: CHI MI AMA.
L'amore, in e con Gesù, non conosce i limiti della morte, ma anzi è la chiave che apre il Cielo.
Occorre partire dalla convinzione che la vitalità nella fede e nella comunione fraterna nasce dal sublime:
`Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri come Io ho amato voi: così amatevi anche voi gli uni gli altri'.
C'è stata e c'è una pericolosa diffidenza verso gli altri, che porta all'indifferenza, come se non ci appartenessero, e peggio ancora al rifiuto. Fa tanto soffrire.
Gesù ha affidato il comandamento di amarci gli uni gli altri, all'intera Chiesa. Il che vuol dire che tutti, ma proprio tutti, hanno il dovere di fare dono di sé con quella manifestazione dello Spirito che è data a ciascuno, come direbbe S. Paolo, 'per l'utilità comune'.
Oserei dire come avviene tra noi, che ci troviamo nella riflessione settimanale della Parola di Dio... ed è talmente tanta l'amicizia, la comunione che mi comunicate, che mi commuove sempre. Siete veramente buoni! E Dio solo sa quanto sia necessaria questa carità, per dare respiro a tanti che si sentono soli, o soffrono, o sono poveri. Amarsi, come ci dice Gesù, è costruire un piccolo o grande segno di speranza in tanti, oggi... ed è il miglior modo per essere e fare felici e permettere a Dio di accoglierci nel suo Cuore.
Ricordiamocelo sempre, come a sconfiggere la tentazione dell'indifferenza e della solitudine:
"Chi mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui".
Con S. Francesco preghiamo:
"O Signore fa' di me uno strumento della Tua pace.
Dove c'è odio che io porti l'amore, dove c'è offesa che porti perdono,
dove c'è discordia, che io porti l'unione, dove c'è errore che io porti verità,
dove c'è dubbio che io porti la fede e dove c'è disperazione che io porti la speranza. Dove c'è tristezza che io porti la gioia e dove sono tenebre porti la luce.
O Divino Maestro, che io non cerchi tanto di essere consolato, ma di consolare; di essere compreso, quanto di comprendere – di essere amato, quanto amare. Poiché è dando che si riceve, dimenticandosi che si trova comprensione,
perdonando che si è perdonati, morendo che si risorge alla vita eterna".
Testo di mons. Antonio Riboldi
Nesso tra le letture
La liturgia di questa domenica presenta la problematica che la Chiesa affrontava al tempo degli apostoli: da un lato, alcuni si aggrappavano alle tradizioni ebraiche e chiedevano la circoncisione e il rispetto di altri precetti per i neo-convertiti al cristianesimo; dall´altra, vediamo Paolo, pieno di zelo per Cristo e per la predicazione del vangelo, che invita tutti ad aderire unicamente a Cristo risorto. Per risolvere il conflitto intervengono le "colonne" della Chiesa, ma soprattutto, interviene l´azione dello Spirito Santo che illumina il cuore degli uomini ed indica loro la via che devono seguire (prima lettura). Gesù, nel dialogo coi suoi apostoli nell´ultima cena, aveva annunciato loro che lo Spirito Santo sarebbe venuto per insegnar loro e per ricordare tutto quello che Cristo stesso aveva detto (Vangelo). Lo Spirito Santo ricorda loro, in modo speciale, l´amore di Cristo. Ricorda loro che devono rimanere nell´amore, nell´unità, nella comunione, devono mantenere la parola del Signore, essere dimora della Trinità stessa.
La diffusione del vangelo tra i Gentili. La prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli ci informa su una questione di vitale importanza, dalla cui soluzione dipendeva la diffusione del vangelo tra i Gentili. Mentre i discepoli di Gesù nella comunità di Gerusalemme rimanevano fortemente vincolati alle antiche tradizioni d´Israele e alla Legge di Mosè, i cristiani della comunità di Antiochia, provenienti in buona parte dagli ambienti gentilizi, non si ritenevano più obbligati a praticare la circoncisione e né all´osservanza delle tradizioni ebree. Ma questo spirito di libertà, imprescindibile affinché il cristianesimo realizzasse la sua missione universale, non poteva arrivare fino all´estremo di supporre un taglio netto con le sue origini bibliche. È da qui che originò la tensione tra la novità cristiana e la tradizione ebraica, che poneva un problema tanto più urgente quanto più si diffondeva il vangelo tra i popoli dell´Asia Minore. Il conflitto inevitabile tra le due tendenze o mentalità (quella ellenista e quella giudaizzante) si evidenziò nella città di Antiochia. Fu lì che si incontrarono l´uno di fronte all´altro, da una parte, Paolo e Barnaba, e dall´altra, alcuni emissari che erano scesi da Gerusalemme per imporre ai nuovi convertiti la circoncisione. Paolo si presenta subito quale paladino della "libertà dei figli di Dio" e si oppone con energia alle pretese di coloro che più tardi avrebbe chiamato "falsi fratelli" (Gal 2,4). Ma questo conflitto doveva risolversi a Gerusalemme, dove si trovavano "le colonne della chiesa". Per questo motivo fu deciso che Paolo e Barnaba avrebbero guidato una delegazione della comunità di Antiochia fino a Gerusalemme. Non andavano soli: con loro c´era Tito, un discepolo di Paolo, di estrazione gentilizia. Ma, soprattutto, ci andarono carichi dell´esperienza missionaria. Né vi si recarono a mani vuote: portarono il frutto di una colletta fatta in favore dei poveri di Gerusalemme (cfr. Gal 2,10). Ciononostante, a Gerusalemme trovarono l´opposizione del gruppo dei giudaizzanti, anche se non era loro mancata la comprensione di Pietro. Il documento [che fu preparato] era rivolto espressamente ai fratelli di Antiochia e delle nuove comunità fondate da questi in Siria e in Cilicia. Ma Paolo avrebbe reso pubblico questo documento anche in altre parti (16,4). In lui la Chiesa è considerata comunità guidata dallo Spirito Santo, e non vuole imporre ulteriori obblighi legali oltre a quelli imprescindibili (Eucaristia, 1986, n. 22).
La nuova Gerusalemme. In una grandiosa visione, Giovanni contempla quella che potremmo chiamare la Chiesa celeste a partire dalle immagini della sposa e della città. Attraverso quest´ultima immagine (la città), che esprime meglio la condizione del popolo di Dio, si sviluppa la realtà splendida ed abbagliante dalla nuova Gerusalemme. (...) Sorprende, innanzitutto, la luminosità della città, la perenne chiarezza che si scorge, segno della presenza di Dio che allontana ogni oscurità. La sua estensione è immensa, per poter accogliere i cittadini venuti da tutte le parti. Ha una struttura perfetta. Le sue dimensioni ben proporzionate e le sue misure immutabili sono immagine del popolo di Dio riunito. Alla sua base ci sono dodici pietre salde, i dodici apostoli dell´Agnello, poiché la fede e la testimonianza costituiscono le sue fondamenta.
Dunque: in cosa si distingue da qualsiasi altra città? La partecipazione di coloro che l´abitano, difensori della verità e combattenti per la giustizia, nella santità divina, nel modo di essere di Dio: bugiardi e idolatri non vi trovano posto. Ma il Signore non manifesta la sua santità col tuono o la tempesta — come nell´Antica Alleanza —, bensì nella comunicazione personale ed intima con coloro che vedono il suo volto. La nuova Gerusalemme è illuminata dalla gloria di Dio, cioè, dall´Agnello, manifestazione del Padre: Gesù Cristo risplende fedele e vittorioso per i secoli eterni. Isaia ed Ezechiele avevano annunciato già la gloria della città santa; ma è Giovanni colui che intuisce la presenza definitiva di Dio senza necessità di tempio che lo renda visibile, poiché "il Signore Dio, sovrano di tutto, e l´Agnello, era il suo tempio" (22).
I cittadini di questa città sono la comunità dei salvati, fratelli pieni dello Spirito, uniti dall´amore. In essa sono accolti tutti i popoli e le nazioni, come avevano annunciato le antiche profezie riferendosi all´estensione universale del regno messianico. I re della terra camminano verso la Gerusalemme celeste e le fanno offerta delle loro ricchezze e del loro splendore (cfr. A. PUIG, La biblia de cada día Comentario exegético a las lecturas de la Liturgia de las Horas Ediciones Cristiandad, Madrid-1981.Pàg. 612 s.).
Tabernacoli della Trinità. ´Per il dono della grazia, che viene dallo Spirito, l´uomo entra in "una vita nuova", viene introdotto nella realtà soprannaturale della stessa vita divina e diventa "dimora dello Spirito Santo", "tempio vivente di Dio". Per lo Spirito Santo, infatti, il Padre e il Figlio vengono a lui e prendono dimora presso di lui. Nella comunione di grazia con la Trinità si dilata l´ "area vitale" dell´uomo, elevata al livello soprannaturale della vita divina. L´uomo vive in Dio e di Dio: vive "secondo lo Spirito" e "pensa alle cose dello Spirito"ª (Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem, n. 58).
Vivere nell´attesa del Signore. ´La tensione all´evento finale va vissuta con serena speranza, impegnandosi nel tempo presente alla costruzione di quel Regno che alla fine sarà consegnato da Cristo nelle mani del Padre: "Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza" (1 Cor 15,24). Con Cristo, vincitore sulle potenze avversarie, anche noi parteciperemo alla nuova creazione, la quale consisterà in un ritorno definitivo di ogni cosa a Colui dal quale tutto proviene: "E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti" (ivi, 15,28).
Pertanto, dobbiamo essere convinti che "la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo" (Fil 3,20). Non abbiamo quaggiù una città stabile (cfr Eb 13,14). Pellegrini e alla ricerca di una dimora definitiva, dobbiamo aspirare come i Padri nella fede a una patria migliore, "cioè a quella celeste" (ivi, 11,16)ª (Giovanni Paolo II, Catechesi del 26 maggio 1999).
Vivere nell´attesa del Signore per un cristiano può significare:
— vivere con allegria e sano entusiasmo. Benché siano molte le ragioni per cui si può perdere il coraggio, sono più grandi e definitive le ragioni per cui si può conservarlo ed incrementarlo: "Il Signore viene... Il Signore sta per venire, sta alla porta e chiama. Non tarderà".
— aver presente che ciò che ci aiuta a discernere quel che conviene fare in ogni circostanza è l´amore. È il comandamento nuovo del Signore che ci invita a modellare tutta la nostra esistenza sulla base dell´amore per Dio e per i nostri fratelli.
— confidare che Colui che ha dato inizio all´opera buona in noi, la porterà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Possiamo e dobbiamo vivere con intensità, facendo tutto il bene che ci è possibile, senza perdere un solo istante della vita. Contiamo sull´aiuto di Dio, con la sua grazia, con la sua forza.
Rispettare il prossimo come tabernacolo della Trinità. Ricordiamo che Dio ama ogni uomo, desidera la sua salvezza e desidera venire ad abitare in lui, permanentemente. L´uomo è molto prezioso agli occhi di Dio. Per questo motivo, il nostro comportamento col prossimo deve essere guidato dal rispetto, dalla venerazione, dalla carità delicata e universale.
Testo di Totustuus (Commento Giovanni 14,23-29)
Foglietto della Messa di domenica 9 maggio 2010, VI Domenica di Pasqua (Anno C)
Liturgia della Parola di domenica 9 maggio 2010, VI Domenica di Pasqua (Anno C)