Amare, l’unico comandamento

News del 01/05/2010 Torna all'elenco delle news

Il comandamento che Gesù dona alla sua comunità (Gv 13,34-35) si esprime al singolare («un comandamento»).

I molti comandamenti non sono che la manifestazione dell'unico comandamento che è l'amore.

Il comandamento dell'amore è chiamato da Giovanni un dono (il verbo dare è troppo debole, meglio tradurre donare). Che un comandamento sia un dono può sembrare paradossale, ma è conforme a tutta la tradizione biblica: la legge di Dio è un dono, perché il suo dettato corrisponde alla nostra vocazione più profonda. L'amore scambievole è per l'uomo movimento, vita, uscire dal chiuso, dall'odio, dall'egoismo e dall'indifferenza per respirare a pieni polmoni. Si legge nella prima lettera di Giovanni (3,14): «Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli, chi non ama rimane nella morte». Amare i fratelli è la prova decisiva che si è vivi.

L'amore reciproco trova in Gesù il modello e la fonte: «Come io ho amato voi». Come dice la norma e la misura. Ma dice anche la ragione: se possiamo amarci fra noi è perché Lui per primo ci ha amati. «Come io ho amato voi», dice Gesù. Noi ci aspetteremmo: «Così anche voi amate me». Invece no: «Gli uni gli altri». C'è dunque nell'amore di Gesù una dimensione di gratuità che anche il nostro amore deve avere. L'amore di Gesù non accaparra il discepolo. Al contrario è un dinamismo che lo spinge verso gli altri. È amando i fratelli che si ricambia quello di Gesù.

L'amore tra i discepoli è un amore che tende alla reciprocità «amatevi gli uni gli altri» è ripetuto più volte. Ma se vuole somigliare a quello di Cristo deve nascere da una gratuità. E deve trattarsi di una reciprocità che si apre all'universalità. «Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli». Un'affermazione, questa, che taglia corto su ogni eventuale tentazione della comunità di rinchiudersi in se stessa. L'amore cristiano – proprio quando se ne sottolinea la reciprocità – non cessa di essere aperto. Il comando dell'amore fraterno è da Gesù definito «nuovo». Non si tratta di una novità cronologica, ma di una novità qualitativa.

Il comando dell'amore è nuovo come è nuovo Gesù. Nuovo perché dischiude un mondo che appare nuovo e rinnovato, che sempre sorprende: nuovo a tal punto da essere il segno prefiguratore dei «nuovi cieli e della nuova terra». Nuovo anche perché è il segno e il frutto del mondo nuovo che la venuta di Cristo ha instaurato.

La svolta è avvenuta e l'amore che ora i cristiani possono vivere appartiene già al mondo rinnovato. L'amore fraterno è la novità della vita di Dio che irrompe nel nostro vecchio mondo, rigenerandolo. Ed è l'anticipo della vita futura a cui aspiriamo. 

Testo di don Bruno Maggioni 

 

Il vangelo di Giovanni della V Domenica di Pasqua comincia con l'annuncio drammatico dell'uscita di Giuda dal cenacolo. Esperienza dolorosa sia per Gesù che ama profondamente Giuda, che per Giuda che ha amato Gesù e l'ha seguito per anni; frutto di una incomprensione riguardo all'annuncio della Passione che Giuda non capisce, come del resto non lo capisce nessuno dei discepoli, ma Giuda è l'unico che ha il coraggio di prendere una decisione coerente con ciò che pensano tutti, e passa all'azione.

Anche per questo Gesù capisce quanto è urgente che avvenga la sua glorificazione, cioè che manifesti la grandezza e la gratuità dell'amore di Dio per l'umanità, amandola fino al punto di lasciarsi uccidere dai propri figli che non lo capiscono, come Giuda. Peccato! Se Giuda fosse andato sotto la croce a contemplare l'amore di Dio che si lasciava uccidere anche da lui, senza rancore, se fosse riuscito a vederlo, ad accettare questo grande dono tanto da ringraziarlo, sarebbe diventato un apostolo più grande di Pietro e di Paolo.

Gesù glorifica il Padre manifestando il suo amore tramite la sua Passione e il Padre manifesta la sua approvazione risuscitandolo e portandolo alla sua destra.

Fatto tutto ciò, a Gesù non rimane che consegnarci il comandamento dell'amore. E' come se fosse il suo testamento. Rappresenta l'eredità che ci lascia, il frutto del suo lavoro, la sintesi di tutto il suo apostolato.

Con questo comandamento Gesù ci indica la via della realizzazione, la verità su Dio e la vita eterna, perché questo è quello che ha fatto lui. Se vogliamo fare un paragone è come un padre o una madre che dicono ai loro figli: "Cercate di volervi bene". Lo possono dire perché loro hanno dato la vita per i figli e vedere i figli litigare è brutto e dà un senso di fallimento. Per Gesù, vederci litigare è come sentire che è morto invano, che non è riuscito a fare delle sue creature una famiglia. Per questo insiste e ripete per tre volte: "Amatevi gli uni gli altri, questo sarà il segno che siete miei discepoli, perché io vi ho amati veramente".

Ora spetta a noi cercare di essere cristiani, cioè agire come tali. Il cristiano, se è vero che crede in Gesù, lo manifesta amando; questa è la sua religione, cioè il modo con il quale vive pubblicamente la sua fede. Questo lo porta a decidere chi privilegiare, chi amare e, di conseguenza, con chi vivere. 


Testo di padre Paul Devreux 
 
 

Lasciarsi amare per capire la verità

Amatevi, come io vi ho amato.

Lo spe­cifico del cristiano non è amare (lo fanno molti, dovunque, sempre, e alcuni in un modo che dà luce al mondo) ma a­mare come Cristo. Con il suo modo unico di inizia­re dagli ultimi, di lasciare le novantanove pecore al sicuro, di arrivare fino ai nemici.

La prima caratteristica dell'amore evangelico: a­mare come Cristo. Non: quanto Cristo, impresa impossibile all'uomo, il confronto ci schiaccereb­be. Nessuno mai amerà quanto Lui. Ma come Lui: con quel sapore, in quella forma, con quello stile.
Con quel suo amore crea­tivo, che non chiude mai in un verdetto, che non guar­da mai al passato, ma apre strade. Amore che indica passi, almeno un passo in avanti, sempre possibile, in qualsiasi situazione. A­more che ti fa debole ep­pure fortissimo: debole verso colui che ami, ma in guerra contro tutto ciò che fa male.

La seconda caratteristica: «Come io ho amato voi». L'amore cristiano è anzi­tutto un amore ricevuto, accolto. Come un'anfora che si riempie fino all'or­lo e poi tracima, che di­venta sorgente. L'amore non nasce da uno sforzo di volontà, riservato ai più bravi; l'amore viene da Dio, non dalla mia bravu­ra: amare comincia con il lasciarsi amare. Non sia­mo più bravi degli altri, siamo più ricchi. Ricchi di Dio.
È un amore che perdona ma non giustifica ogni sbaglio. Giustifica la fragi­lità, lo stoppino smorto, la canna incrinata, ma non l'ipocrisia dei pii e dei po­tenti. Ama il giovane ricco ma attacca l'idolo del de­naro.
Se il male aggredisce un piccolo, Gesù evoca immagini potenti e dure come una macina al col­lo.
Amore guerriero e lot­tatore. Ma se il male è con­tro di Lui allora è agnello mite che non apre bocca.

Terza caratteristica «Ama­tevi gli uni gli altri»: tutti, nessuno escluso; guai se ci fosse un aggettivo a qualificare chi merita il mio amore e chi no. È l'uo­mo. Ogni uomo, perfino l'inamabile. Gli uni gli al­tri significa inoltre reci­procità. Non siamo chia­mati solo a spenderci per gli altri, ma anche a la­sciarci amare: è nel dare e nel ricevere amore che si pesa la beatitudine della vita.

Amore è intelligenza e ri­velazione; amare è capire più a fondo: Dio, se stessi e il cuore dell'essere. Co­me Gesù quando fa emer­gere la verità profonda di Pietro: «Mi ami tu, ades­so?». E non gli importa di quando nel cortile di Cai­fa', Cefa', la Roccia, ha avu­to paura di una serva. A­more che legge l'oggi, ma intuisce già il domani del cuore. E ripete a Pietro e a me: il tuo desiderio di a­more è già amore. 

Testo di padre Ermes Ronchi