V Domenica di Pasqua: Amarci come Gesù ci ama
News del 01/05/2010 Torna all'elenco delle news
Il Vangelo narra del testamento che Gesù lasciò ai Suoi discepoli, prima di andare verso l'orto del Getsemani, in quell'Ultima Cena, che è davvero la 'divina carta della carità di Dio verso di noi e la carità nostra verso tutti'.
Così racconta l'apostolo Giovanni: "Quando Giuda fu uscito dal Cenacolo, Gesù disse: ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora un poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,31-35).
Meraviglioso testamento!
E non poteva che essere così, essendo stato Gesù, Figlio di Dio, il grande Dono di Amore e la testimonianza dell'Amore tra noi e per noi.
Se noi, che siamo discepoli del Signore e quindi Suoi amici, dovessimo fare di questo testamento la regola della nostra vita, tutti dovrebbero riconoscerci proprio perché il nostro 'dirci' cristiani non sarebbe parola vuota, ma testimonianza di amore e di vita.
Affermava il grande Paolo VI, che sapeva veramente leggere il cuore degli uomini e della Chiesa, in tempi difficili, come ora:
"Chi è senza fede, è senza luce. Chi è senza religione, è senza speranza. Invece la fede e la speranza assicurano che la vita nostra continua aldilà del terribile episodio che si chiama morte. E ancora chi è senza contatto con Dio, è privo di amore. Dio è amore. Se non siamo uniti a Lui ci viene meno il sentimento più nobile. Non abbiamo più ragione di chiamare gli uomini nostri fratelli, nessun motivo di sacrificarci per loro, né ragione di vedere in ogni faccia umana lo specchio del volto di Cristo. Se non abbiamo la fede, la speranza, la carità - le tre virtù teologiche che sono i tre vincoli che ci uniscono a Dio - siamo gente cieca, costretta ad essere schiava della terra, gente turbata dalle passioni, che la fanno infelice e che pongono la fiducia degli uomini nelle cose più terribili, come le armi, le lotte, le guerre, gli odi, i vizi" (30 marzo 1960). Sembrano parole per oggi.
Ma si può vivere senza amare e sentirsi amati? Credo che sia un inferno insopportabile.
Ascoltiamo ciò che dice il Santo Padre Benedetto XVI nella sua prima enciclica, che ha voluto intitolare 'Dio è amore', come indicazione a raccogliere il testamento di Gesù: "L'amore è gratuito: non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l'azione caritativa debba per così dire lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l'uomo.
Spesso è proprio l'assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l'amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza di Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l'amore. Egli sa che Dio è amore. E si rende presente proprio nei momenti in cui niente altro viene fatto fuorché amare. Egli sa - per tornare alla domanda di prima - che il vilipendio dell'amore è vilipendio di Dio e dell'uomo, è il tentativo di fare a meno di Dio. Di conseguenza la miglior difesa di Dio e dell'uomo consiste proprio nell'amore" (Deus charitas est n. 31).
Allora viene da chiederci: come mai l'amore di cui Dio ci ha fatto dono ed è il testamento di Gesù, è preferito, a volte, all'egoismo che genera ingiustizie, solitudini e insopportabili sofferenze?
Mistero dell'animo umano...
Poteva Gesù lasciarci un testamento più bello di questo?
Per chi ama la felicità certamente no, ma bisogna 'entrare nel cuore dell'amore e farci riempire il cuore dalla gioia'.
Scriveva il grande Follereau in un messaggio ai giovani, nel 1962: "Siate intransigenti nel dovere di amare. Non venite a compromessi, non retrocedete. Ridete in faccia a coloro che vi parleranno di prudenza, di convenienza, che vi consiglieranno di mantenere 'il giusto equilibrio': questi poveri campioni del 'giusto mezzo'! E poi soprattutto credete nella bontà del mondo. Nel cuore di ogni uomo vi sono tesori prodigiosi e voi scovateli. La più grande disgrazia che vi possa capitare è di non essere utili a nessuno, che la vostra vita non serva a nulla. Siate invece forti ed esigenti, coscienti di dover costruire la felicità per tutti gli uomini, vostri fratelli, e non lasciatevi sommergere dalle sabbie mobili degli incapaci. Lottate a viso aperto. Non permettete l'inganno attorno a voi. Siate voi stessi e sarete vittoriosi".
Non ci resta, allora, che raccogliere a piene mani il grande testamento di Gesù e vivere facendo della vita un donare sorrisi a tutti: sorrisi che siano come gettare fiori a chi ci accosta, al posto del silenzio indifferenza o delle parole che, come 'sassate', fanno male.
Ci aiuti Gesù...ma, intanto, ripeto la mia gioia che voi siete miei amici. Grazie.
Testo di mons. Antonio Riboldi
Gli apostoli, dopo la risurrezione, incontrano Gesù ora nel Cenacolo, ora sulla via di Emmaus, ora sul mare di Tiberiade.
E' quel che accade anche a noi, di domenica in domenica.
Ci ritroviamo assieme infatti per incontrare il Risorto, quello stesso Gesù che aveva detto ai suoi: "Figlioli, ancora per poco sono con voi". Lo incontriamo in questo tempo, mentre tanti pensano sia poco importante e poco utile ascoltare la sua voce. Eppure nel cuore degli uomini ci sono lacrime, lutto, lamento e soprattutto l'affanno del vivere. Chi dimentica di incontrare colui che ha vinto la morte risorgendo alla vita, resta da solo con le sue povere energie, con i suoi poveri sentimenti, magari pieni di autosufficienza; costui viene a scoprire presto l'affanno del vivere, mentre la parte migliore della sua umanità finisce con l'oscurarsi.
Basta alzare gli occhi dalla propria piccola vita e guardare verso altre terre per accorgersi di quanta morte, di quanti lutti e lamenti ci sono ancora nel mondo. E noi senza far nulla! Senza dubbio potremmo almeno gridare di più contro lo scandalo di tante ingiustizie e prevaricazioni. Come possiamo essere così indifferenti, quasi ubriachi solo dei nostri problemi, individuali o nazionali? Il credente va incontro al Risorto e invoca un giorno diverso: quel giorno in cui non si levino più lamenti poiché la morte è stata debellata. E' un momento, grave ed esaltante.
Quella sera di giovedì, Giuda era appena andato via, e l'atmosfera si era fatta come più serena e familiare: allora Gesù diede loro "il comandamento nuovo". Ogni domenica è così.
Il comando che Gesù ci rivolge è un comando "nuovo": "amatevi l'un l'altro come io ho amato voi". "Nuovo", ossia "definitivo", "fondamentale". Quando attorno alla tavola del Signore si cominciano ad ascoltare queste parole e ci si ama come egli ci ha amati, si accende in noi un amore più grande che trascende i nostri abituali confini. Di qui nasce il desiderio di un giorno diverso, migliore, il desiderio della fine di ogni tristezza, di ogni dolore, di ogni potere oscuro. Non è chiesto ai cristiani di costruire la città cristiana; tuttavia, sentiamo una voce che dice: "Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà "il Dio-con-loro".
La vicinanza al Risorto ci tocca e ci trasfigura: il cielo e la terra nuova iniziano quando cominciamo ad amarci come il Signore ci ha amati. E' la trasfigurazione non solo di singole persone, bensì di un gruppo, non importa se piccolo o grande. "E' stato soprattutto la pratica dell'amore – afferma Tertulliano – ad imprimere quasi un marchio di fuoco agli occhi dei pagani: "vedete come si amano" dicono (mentre essi si odiano tra loro) "e come sono pronti a dare la vita l'uno per l'altro" (mentre essi preferiscono uccidersi tra loro).
Il comandamento "nuovo" non è solo il distintivo di appartenenza a Cristo, è il volto stesso del Signore risorto che vive in quel piccolo gruppo di poveri discepoli che cercano di metterlo in pratica.
Testo di mons. Vincenzo Paglia (Commento Giovanni 13,31-33.34-35)
Nesso tra le letture
"Io, Giovanni, vidi un nuovo cielo e una nuova terra". La seconda lettura, presa dell´Apocalisse ci introduce in un mondo nuovo, il mondo che avrà il suo compimento alla fine dei tempi, ma che ha avuto inizio in questo dal momento in cui Gesù Cristo si è offerto in sacrificio e ha proclamato solennemente: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri". Il mondo non conosceva in pienezza l´amore, non conosceva quella forza sovraumana che spinse gli apostoli, Paolo e Barnaba, a logorarsi e consumarsi per donare agli uomini il tesoro della fede, come ci mostrano gli Atti degli Apostoli. È Dio fatto uomo che ci ha manifestato nell´amore il senso ultimo dell´esistenza umana, Dio che è "paziente e misericordioso lento all´ira e ricco di grazia", "buono verso tutti, e la cui tenerezza si espande su tutte le creature". L´amore apre un´altra tappa nella storia dell´uomo: "io faccio nuove tutte le cose".
Nel cuore dell´Ultima Cena, il momento di maggior intimità tra Gesù e i suoi — "Figlioli, ancora per poco sono con voi" —, risuonano alcune parole che hanno segnato una pietra miliare definitiva: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri". E indica fino a che punto: "come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri". Il suo primo e più grande atto d´amore per noi è stato l´incarnazione, mistero insondabile della nostra fede. Egli, che è Dio, si fa carne, l´Invisibile diventa visibile, l´Immortale diventa mortale, il Creatore si fa creatura, l´Eterno comincia nel tempo. La mente sente vertigine davanti ad una realtà tanto sorprendente. Egli è diventato povero, e noi, con Lui, siamo diventati immensamente ricchi. Cosa ha potuto spingerlo fino al punto di umiliarsi? La forza del suo amore per noi.
Prendiamo in mano il vangelo, apriamolo a una qualsiasi pagina e vedremo Gesù che insegna alla gente, che percorre le strade, si esaurisce in giornate spossanti, guarisce i lebbrosi, scaccia i demoni, ridona la vista ai ciechi, perdona i peccati. Lo vedremo dormire in terra il più delle volte, perché non aveva un luogo dove posare il capo, sacrificando il tempo del riposo per dedicarlo alla preghiera; lo vedremo per tutta la vita incompreso, calunniato, perseguitato, e infine sottoposto ad un processo farsa, accusato di falsità, condannato al supplizio più orribile senza prove. Cosa lo spinse a sopportare una vita così? Ogni frase del Vangelo ci grida che Cristo ci ama alla follia.
Ora, nella vigilia della sua Passione, sul punto di versare il suo sangue per noi, ci spalanca il suo cuore e ci lascia come testamento il "suo" comandamento: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri". Ed aggiunge queste altre parole, che dovrebbero toccare le fibre più profonde del nostro essere cristiani: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri". I primi cristiani compresero davvero bene queste parole! Così un convertito del II secolo riferisce quel che dicevano i pagani al vedere la condotta dei credenti: "'vedete come si amano´ dicono (mentre essi si odiano tra loro), 'e come sono pronti a dare la vita l´uno per l´altro´ (mentre essi preferiscono uccidersi tra loro)" (Tertuliano, Apologeticum, n.39).
Generazione dopo generazione, la Chiesa ha trasmesso questo comandamento di Cristo. Dovunque sia stato posto in pratica ha prodotto frutti mirabili di pace, gioia e vera santità nelle anime. La carità ha asciugato lacrime, ha strappato sorrisi, ha cancellato rancori e ha illuminato con la speranza ambienti e situazioni segnati dal dolore e dalla desolazione. Indubbiamente, si tratta di quella carità che suppone la donazione generosa e sacrificata di noi stessi agli altri per amor di Dio. Si tratta di dimenticare se stessi per far felici gli altri, a costo di vincere le nostre tendenze all´orgoglio e alla sensualità. Le persone si tormentano e si ingannano per essere felici. Pensano che la felicità stia nell´avere, nell´ostentare, nell´occupare una posizione sociale, in un certo modello politico. Non è così: conosce la vera felicità solo chi, per amore di Cristo, è capace di donarsi agli altri. "La perfezione esige quella maturità nella donazione di se stesso a che è chiamata la libertà dell´uomo" (Veritatis splendor, n. 17).
La carità ha molte manifestazioni. Innanzitutto, si manifesta nella parola. Quanto suona falsa una spiritualità fatta sì di preghiere e devozioni, ma che si fa compatibile con la critica e la mormorazione, che sono la negazione stessa della carità! Al contrario: fissiamo lo sguardo sulle cose buone che ci sono negli altri, ponderiamole nel nostro parlare e respingiamo inflessibili le critiche. Poi, bisogna passare alle opere. ´E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo. Poiché dunque ne abbiamo l´occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fedeª (Gal 6,9-10). Sì, è necessario cominciare dalla propria famiglia, dalla parrocchia, dai compagni di studio o lavoro. Diffondiamo intorno a noi un amore soprannaturale, un´accoglienza affabile, un sostegno sincero e generoso in ogni circostanza: ´Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel piantoª (Rm 13,15).
Ci sono molte forme di esercitare la carità: perché molte sono le forme di miseria che angosciano l´uomo. Ma non dimentichiamo che la miseria più grande è quella di chi non conosce Dio e, pertanto, la manifestazione più alta dell´amore è far conoscere il tesoro della nostra fede a coloro che sono lontani da Dio. È ciò che c´insegna la prima lettura, nelle figure di Paolo e Barnaba. Tutti i cristiani sono chiamati ad essere predicatori del vangelo tra le persone con cui convivono. Ma non dimentichiamo che il mandato dell´apostolato è possibile solo in un´anima che sente molto profondamente per i suoi fratelli lo stesso amore e la stessa compassione che ha il Cuore di Gesù.
Testo di Totustuus
Foglietto della Messa di domenica 2 maggio 2010 ( V di Pasqua anno C)
Liturgia della Parola di domenica 2 maggio 2010 (V di Pasqua anno C)