L'ARCIVESCOVO MOROSINI AL G.O.M.: "Se si guarda verso il crocifisso, si trova sempre la forza di andare avanti"

News del 10/04/2020 Torna all'elenco delle news

Le mani giunte chiuse nei guanti neri. Prega e scruta la Città semideserta, monsignor Morosini. Da sette anni vive la "sua" Reggio Calabria e sa che questo Venerdì Santo passerà alla storia. Fino a un mese fa, immaginava la tradizionale marcia delle Varette sul Corso Garibaldi. E invece, da oltre trenta giorni, il bollettino dell'epidemia allarma il Paese, sbarra l'ingresso alle chiese e moltiplica le liturgia via streaming. Ma l'arcivescovo Morosini per questo Venerdì Santo si aggrappa alla Croce per camminare, tra preghiera e silenzio, verso il reparto Covid-19 del Grande Ospedale Metropolitano.

Le mani giunte chiuse nei guanti neri e la mascherina a coprirgli la bocca. Poche parole davanti al sagrato della parrocchia del Santissimo Salvatore, luogo del raduno ristrettissimo prima della partenza. Abbraccia quella Croce, un regalo che gli hanno fatto i detenuti. A loro rivolge un primo pensiero: «Non bisogna dimenticarli», pronuncia prima di segnarsi con la croce e incamminarsi verso il nosocomio. Con lui, il parroco del Santissimo Salvatore e assistente diocesano dell'Unitalsi, don Antonio Bacciarelli, e il cappellano del Grande Ospedale Metropolitano, don Stefano Iacopino.

I tre si alternano a sorreggere il vessillo della cristianità, quel Dio che si fa fragile, che muore su un legno di croce. Da solo. Un primo parallelismo con le scomparse silenzose di chi ha lottato, ma ha perso contro il virus invisibile del Covid-19. E la marcia silenziosa di Morosini è un pensiero delicato per loro, per chi è caduto in questa guerra che riempie gli ospedali e svuota le piazze. La Polizia scorta il corteo, col vescovo, i sacerdoti e pochi giornalisti, e poi c'è quella sparuta cittadinanza che si ferma dinnanzi a quella croce.

È un momento surreale, che commuove e interroga, come le parole che Morosini dirà - da lì a poco - davanti all'ingresso degli ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Ad attenderlo c'è un nutrito numero di medici, infermieri e operatori sanitari.

Un rito sobrio è vissuto dai presenti, un medico prende la parola e chiede all'arcivescovo di sorreggere quanti «sono stati costretti a scegliere chi curare in virtù della grande emergenza che viviamo». Una richiesta d'aiuto che arriva dritta come un pugno allo stomaco dell'arcivescovo che sbarra gli occhi e fissa la Croce. «"Attirerò tutti a me", ha detto Gesù spiegando il mistero della sua morte. Se si guarda verso il crocifisso, si trova sempre la forza di andare avanti». «Guardiamo verso di lui, chi soffre e chi cuore - prosegue Morosini - e troveremo in quella Croce la dignità della sofferenza, della fatica. Chi è impegnato in prima linea tenga presente questa espressione: "Attirerò tutti a me" ». Prima di benedire i presenti, il presule porge la carezza della Comunità reggina al personale medico e sanitario che sta lottando contro la diffusione del Coronavirus in riva allo Stretto: «Siamo noi che diciamo grazie a voi; questo luogo è il più degno per commemorare la morte di Cristo. È quì che oggi il Signore si fa presente nella vita di ciascuno».

Poi l'ingresso all'interno del Gom. L'arrivo a Malattie Infettive e quella preghiera, sempre tenendo quella Croce tra le mani, con chi è in prima linea. Sono irriconoscibii visto l'imponente apparato protettivo che indossano tra loro spunta anche una paziente. L'arcivescovo prega e incoraggia. Così come fa all'interno del reparto di Rianimazione. Entra da solo. Quando si affaccia alla vetrata, si emoziona. Un sorriso sotto la mascherina e quei guanti neri che lanciano un saluto affettuoso sono il suo ultimo gesto. In questo Venerdì Santo che resterà unico, nel suo ministero episcopale. E nella storia di Reggio.

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