Il sentiero del Buon Pastore
News del 24/04/2010 Torna all'elenco delle news
Il breve vangelo della quarta domenica di Pasqua, così ritagliato e staccato dal suo contesto (il grande discorso del buon pastore), è come uno stretto passaggio di montagna, estremamente delicato e impegnativo, da percorrere in equilibrio sul crinale, con burroni a destra e a sinistra. E solo chi lo supera può proseguire nel cammino, sul sentiero più alto che conduce alla meta. Gli altri, cadono negli strapiombi, da una parte o dall'altra, o scivolano per i ghiaioni, da dove diventa estremamente difficile risalire.
Primo burrone
Il primo burrone che si apre al nostro fianco è quello dell'attivismo. Il credere che tutto dipenda da noi, dalle notre iniziative, dalle nostre belle parole, dalle nostre buone azioni. Nella vita personale, l'individuo può perdersi a rimirare le sue devozioni, le sue imprese pastorali, le sue opere di volontariato, la sua vita familiare indefettibile... mentre a livello comunitario, nell'evangelizzazione, si moltiplicano le iniziative, la ricerca delle strategie comunicative vincenti, dell'organizzazione più efficiente... Ma Gesù ci ricorda: "Le mie pecore ascoltano la mia voce". Ciò che deve risplendere, quando evangelizziamo o cerchiamo di educare alla fede, non sono le nostre iniziative o belle parole, ma la sua voce. E anch enella nostra vita personale, la nostra integrità non conta a nulla, se non richiama all'Unico, che ci chiama dalle tenebre alla luce, e ci rende forti e coerenti con il dono del suo Spirito. Solo la voce di Gesù ha attrattiva autentica, solo la sua voce può radunare il gregge dei Figli di Dio, e nostro compito è aiutarla a risuonare ancora, non di coprirla con le nostre parole e i nostri gesti. Dovremo certamente dire parole, prendere iniziative, ma con lo stesso atteggiamento che abbiamo contemplato, nella I lettura, in Paolo e Barnaba: che partono, viaggiano, annunciano, ma non corrono per se stessi: fanno correre la Parola.
Secondo burrone
Al lato opposto, un'interpretazione elitaria e fondamentalistica delle parole del Maestro. "Le mie pecore ascoltano la mia voce": quindi, noi che ascoltiamo siamo sue pecore - gli altri che non ascoltano, non lo sono. E' una visione molto insidiosa, anche perché sembra supportata dalla Scrittura stessa. E' una tentazione che prima o poi si insinua in tutti i gruppi ecclesiali (anche quelli parrocchiali, soprattutto quelli che funzionano...), ma soprattutto nelle associazioni e nei movimenti. Credersi il gruppo eletto, privilegiato, delle pecore "conosciute da Gesù", che "nessuno strapperà dalla sua mano". Ma la Parola di Gesù non si lascia imbrigliare nelle nostre visioni campanilistiche e meschine. "Io le conosco, ed esse mi seguono". Gesù conosce noi, e non allo stesso modo in cui noi ci illudiamo di conoscerlo. Gesù ci conosce, solo lui, e con questo è sottratto il terreno ad ogni nostra pretesa di delimitare i confini del suo gregge, adattandoli a quelli del nostro gruppo. Solo lui ci conosce, solo lui sa chi lo segue veramente.
Un vago spiritualismo
Ascoltare la voce del Maestro potrebbe ridursi ad un vago spiritualismo. Ad un'emozione, ad un sentimento del cuore. Siamo molto assetati di esperienze spirituali, profonde, calde e commoventi. E' come un ghiaione insidioso, che ci risucchia dal giusto sentiero, e da cui è difficile risalire. Ci sono nel cammino spirituale esperienze privilegiate, ma sono appunto momenti particolari, momenti di illuminazione, in cui sembra davvero di udire la voce del Maestro che chiama. Non sono la regola: "ascoltare la voce" significa anche ubbidire, camminare umilmente, andare avanti al buio.
Quelli che si perdono
La parola del maestro potrebbe però anche suonare deludente: che significa che "nessuno le rapirà dalla sua mano?". In realtà vediamo tante persone che si perdono, che perdono la fede, che si allontanano dalla Chiesa, che non pregano più, che non sanno più rivolgersi a Dio... e vediamo anche quanti si pongono come ostacoli alla diffusione del Vangelo, alla pace, alla giustizia. Ma proprio di questi ostacoli parla il Signore. Nessuna persecuzione esterna, nessun nemico, nessuna difficoltà può separarci dall'amore di Cristo. Purché noi restiamo saldi nel suo amore. Purché noi ci aggrappiamo alla sua mano. Nessuna frana ci travolge, se ci appoggiamo alla roccia, se anche nel buio, quando ci abbandona la vista, seguiamo la voce sicura del nostro pastore.
Il Padre mio che me le ha date
Se veramente seguiamo le sue parole, passo dopo passo, senza deviare nei burroni del nostro orgoglio, senza lasciarci sedurre dai sentieri più facili e in discesa, senza lasciarci scoraggiare dall'opposizione del nemico, ecco che arriviamo alla meta del cammino: la conoscenza del Padre, il rapporto con Dio. Lui ci ha "dati" al suo Figlio, perché potessimo essere "raccolti" e "ritrovati". Lui risplende nel volto amoroso di Cristo, perché i due sono "una cosa sola". Lui ci chiama, nel suo Figlio, a vivere la stessa comunione di amore.
Flash sulla I lettura
"In quei giorni Paolo e Barnaba...": queste parole non si trovano nel testo originale degli Atti, ma sono aggiunte per dare senso compiuto ai dieci versetti che vengono proclamati dalla liturgia. Attraverso queste operazioni di ritaglio, è possibile avere letture più brevi e praticabili, ma si perdono tutti i collegamenti con il contesto. Al riguardo, è da notare che questa parte del primo viaggio missionario di Paolo è immediatamente preceduta dall'abbandono da parte di Giovanni Marco, cugino di Barnaba, che non se la sente di proseguire. E' chiara la contrapposizione tra chi fugge e chi ha il coraggio di riprendere il cammino faticoso per annunziare il Vangelo.
"Attraversando Perge, arrivarono ad Antiochia di Pisidia": ci sono circa 150 km tra Perge e Antiochia, tutti di territorio montuoso, verosimilmente da percorrere a piedi. Si comprendono i disagi che probabilmente Giovanni Marco tentò di evitare; e comprendiamo anche il coraggio degli apostoli, e la loro determinazione nell'annunciare il Vangelo.
"Entrati nella sinagoga...": forse una delle ragioni che avevano spinto Paolo e Barnaba a recarsi così lontano era la presenza di una consistente comunità giudaica. La prima predicazione era generalmente rivolta agli ebrei, nelle sinagoghe e nei giorni di riunione stabiliti. Gli apostoli si sentono a casa loro, non gli annunciatori di una diversa religione.
"... Quasi tutta la città si radunò per ascoltare...": la predicazione ha successo, diremmo noi. Ma il punto di vista del successo non è un punto di vista adeguato: sarebbe meglio dire che nel cuore delle persone c'è un'attesa profonda, una tensione verso Dio, che con l'arrivo degli apostoli può finalmente esprimersi: "la Parola di Dio si diffondeva in tutta la regione".
"... suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba": forse è questo il vero segnale del successo degli apostoli. Non soltanto la massa di conversioni, ma la reazione negativa presso certi ambienti. C'è da dubitare di un vangelo innocuo, pacificamente accolto, guardato con troppo favore. Il Vangelo non può passare inosservato, e senza andare in cerca di polemica, diviene inevitabilmente segno di contraddizione. Ma è così anche per le nostre comunità? O viviamo una fede "normalizzata", adeguata agli standard del mondo?
Flash sulla II lettura
"Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare": vediamo qui il compimento della promessa ad Abramo, di una discendenza numerosa come le stelle del cielo, che non si riescono a contare. Nell'Apocalisse, tutti i temi dell'Antico Testamento vengono portati alla loro definitiva realizzazione.
"... di ogni nazione, razza, popolo, lingua": la chiamata di Dio è veramente universale, e non conosce barriere. Costantemente la Parola di Dio ci richiama alla nostra identità e abbatte i confini del nostro egoismo istintivo, del nostro sentirci al centro del mondo.
"... sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione": all'epoca di composizione dell'Apocalisse, già si erano avute le prime persecuzioni e le prime vittime, che probabilmente avevano creato notevoli dubbi nelle comunità.
"... hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell'Agnello": la croce di Gesù rende possibile vivere in modo diverso la persecuzione, anche con il dono della vita.
"l'Agnello sarà il loro pastore": quasi un gioco di parole. L'Agnello, nell'Apocalisse, rappresenta sempre Gesù, immolato e risorto, e con questa immagine diventa possibile recuperare il valore sacrificale della Passione, e il suo significato per l'identità di Gesù: egli resta per sempre come colui che si offre e si dona, e proprio per questo può essere guida e pastore, per la radicalità del suo amore.
Testo di don Fulvio Bertellini