Terza Domenica di Quaresima 2010: questo è il tempo della nostra conversione!
News del 07/03/2010 Torna all'elenco delle news
Se non vi convertirete...
Continua il nostro cammino quaresimale che ci condurrà a Gerusalemme per la Pasqua. Siamo alla terza tappa, dopo la tentazione nel deserto e la visione del Tabor. La liturgia di questa domenica si apre con la narrazione dell'esperienza religiosa di Mosè su un altro monte, l'Oreb.
Mosè, dice il libro dell'Esodo, stava pascolando il gregge del suocero e si spinse sino all'Oreb; era fuggito dall'Egitto perché la sua vita era in pericolo (aveva ucciso un egiziano) e si era sistemato con la tribù di Ietro, sacerdote di Madian. Lì conduceva una vita normale, come quella di tanti; forse, l'unica differenza era quella di tenersi a distanza dagli egiziani.
Un giorno, arrivato alle pendici del monte Oreb, «l'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto» (Es 3,2): un fuoco che bruciava ma non consumava. Così è della parola di Dio: brucia la nostra vita ma non la distrugge; ci inquieta ma non ci annienta.
Questo fuoco così particolare si fa parola viva, toccante: chiama Mosè per nome. In quel deserto sconfinato, mentre si trovava solo con le sue greggi, egli non era né solo né abbandonato: «Mosè, Mosè!», si sentì chiamare. Alla sua risposta la voce continuò: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è terra santa!» (v. 5). Mosè non solo si tolse i calzari, si velò anche il viso, «perché aveva paura di guardare verso Dio» (v. 6). Non si può stare impunemente alla presenza di Dio. Ancora oggi, in Oriente, quando si entra nei luoghi santi (penso alle moschee o alla zona attorno all'altare nelle chiese cristiane copte dell'Egitto), bisogna togliersi le scarpe.
È il senso della nostra pochezza e della nostra povertà. Prostriamoci davanti a chi è tanto più grande di noi, infinitamente più grande, nella forza e soprattutto nell'amore, nel preoccuparsi di noi e nel prendersi cura della nostra vita. Le parole che Dio rivolse a Mosè, infatti, bruciavano di un amore sdegnato per l'oppressione di Israele: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo» (vv. 7-8). Il Dio che Mosè si trova davanti non è lontano e impassibile: è un roveto d'amore, un fuoco che brucia per liberare il suo popolo.
Davanti a questa fiamma dobbiamo davvero coprire il nostro volto, spesso freddo e distante. Era così anche quello di Mosè.
La vicinanza di questo fuoco ci trasforma e ci rende testimonianza. Mosè aveva paura di tornare in Egitto, ma soprattutto come si sarebbe presentato al suo popolo? Con quale autorità avrebbe chiesto di essere ascoltato? Chiede quindi al Signore «Chi sono io per parlare al popolo d'Israele?» (v 11) Una domanda saggia, impregnata di tutta la sua fragilità e inadeguatezza La forza del discepolo non si fonda sulle sue capacità, ma sulla vicinanza del Signore «Io sono (sarò) con te» (v 12) Mosè non dovrà andare a liberare i suoi fratelli con parole dettate dal suo cuore vacillante, ma con quelle di Dio: «Io-Sono mi ha mandato a voi» (v. 14). La definizione che Dio dà di se stesso, «Io sono colui che sono», non è metafisica, ma storica: il Nome di Dio (ossia Dio stesso) accompagnerà sempre Mosè e il suo popolo.
Su quel monte, l'Oreb, si manifesta la scelta di Dio per Israele e per gli uomini: «Io sarò con te, dice il Signore a ogni uomo, a ogni donna; io sarò per te come il fuoco che riscalda e illumina, come la nube che guidava Israele nel deserto; io sarò la tua libertà e il tuo futuro, come diedi a Israele la terra promessa. Non solo; io porrò la mia tenda in mezzo a voi, mi stabilirò per sempre con voi; sarò l'Emanuele, il Dio con noi».
La definizione che Dio ha dato di se stesso sull'Oreb in Gesù raggiunge il suo culmine: Gesù è il definitivo roveto ardente («Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso», Lc 12,49). Ed è lui che ha detto ai discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
La pericope evangelica di questa terza domenica di Quaresima (Lc 13,1-9) ci presenta Gesù come un vignaiolo che intercede presso il padrone per salvare una pianta di fico. Per vari anni quest'albero non ha prodotto frutto e il padrone, sdegnato, vuole tagliarlo. Il vignaiolo insiste perché il padrone aspetti ancora un po' di tempo e lo convince.
Questa parabola non fa' che descrivere la vicenda della nostra vita; essa è spesso senza frutto, ma viene salvata dalla misericordia di Gesù che si è fatto compagno, amico e difensore di ognuno di noi.
Egli però chiede di lasciarsi toccare il cuore: questo tempo ci è dato per la nostra conversione. Dio non è intento a mandarci disgrazie perché ci ravvediamo (è una concezione distorta di Dio; e purtroppo è molto diffusa).
Gli esempi riportati da Gesù sono chiarissimi in questo senso; e il salmo ripete spesso: «Buono e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore» (Sai 102/103,8). Tuttavia il richiamo all'urgenza della conversione è grave e serio; non tanto per la vendetta di Dio, quanto per evitare di farci del male: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12).
Testo di mons. Vincenzo Paglia
Nesso tra le letture
Mosè, davanti al roveto che non si consuma, è il simbolo dell'uomo davanti alla trascendenza di Dio, e simbolo dell'accettazione umile della chiamata divina a compiere una missione.
Davanti a questa visione, Mosè deve restare scalzo, il terreno su cui cammina è sacro, è in presenza del Santo dei santi, deve purificarsi per stare alla presenza del Signore (prima lettura).
Il vangelo parla ancora più esplicitamente dell'imperiosa necessità di convertirsi: "noi non siamo meno peccatori di coloro che hanno sofferto grandi disgrazie, e se non ci convertiamo, periremo ugualmente" (Vangelo).
Paolo ci presenta un'interpretazione allegorica del passaggio nel deserto del popolo d'Israele e ci esorta a non essere increduli come gli israeliti, ma "a stare attenti a non cadere se stiamo in piedi", (seconda lettura).
Le tappe della salvezza. Il periodo di quaresima ci presenta via via le grandi tappe della salvezza. Nella prima domenica di quaresima leggevamo il credo del popolo di Israele che narrava, in breve, la schiavitù in Egitto, la liberazione e la conquista della terra promessa.
Nella seconda domenica abbiamo meditato sulla promessa fatta ad Abramo e sulla stipulazione dell'Alleanza.
Questa terza domenica di quaresima, la liturgia ci offre uno dei brani più importanti della Bibbia: la teofanìa a Mosè, sul Monte Oreb. Questo brano è costruito come una prefigurazione di quella che sarà la consegna delle tavole della Legge sul Sinai. Il fuoco che non si consuma rappresenta la natura e la presenza di Dio. Perciò, quando Mosè si avvicina per vedere quello spettacolo insolito, viene invitato a togliersi i sandali; l'uomo non può avvicinarsi in qualsiasi modo al Dio Santo, ma è necessaria una purificazione, necessita una conversione dell'anima e del cuore.
I credenti si avvicinano al mistero pasquale, come Mosè si avvicinava al roveto ardente. In questo mistero, essi vedono la manifestazione di Dio, la presenza di Dio, la volontà di Dio di liberare il suo popolo dallo schiavitù del peccato. L'esperienza della gloria di Dio è per Mosè un impegno definitivo. Mosè comprende che la sua vita entra nella dimensione del divino, che il mandato di Dio non può essere respinto o interpretato in maniera diversa. E comprende l'immensa sproporzione che esiste tra il comandamento ricevuto, quello di liberare il suo popolo, e le forze di cui dispone; non ha neppure il dominio della parola. Inoltre, non ha ancora una conoscenza profonda di Dio: gli chiede il suo nome. Il Signore si rivela come "Io sono colui che sono". Cioè, Egli è l'unico Dio, non ce n'è un altro. Qualunque altro idolo è inganno per l'uomo. Dio è l'unico e solo a lui si deve servire e rendere culto. Nel versetto 12 del capitolo 3 dell'Esodo — versetto che la liturgia di oggi non riporta, ma che si trova nello stesso contesto — viene data a Mosè una conferma ed una prova. Gli viene detto: "Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte". La vera liberazione consisterà nel rendere culto al vero Dio nel deserto, e quello sarà il motivo per cui Mosè ripeterà al faraone più volte: "Dice il Signore, il Dio d'Israele: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!" (cf. Es 5,1; Es 5,3; Es 8,4).
In Cristo avviene la vera liberazione dalla schiavitù, non più dal popolo egizio, bensì del peccato, tiranno ben più crudele. Il vero culto avviene in Cristo, agnello di Dio che è stato immolato per i nostri peccati. Egli, il nuovo Mosè, è colui che ci libera dalla schiavitù e ci conduce alla salvezza attraverso il suo mistero pasquale.
La conversione del cuore. Il vangelo ci sprona alla conversione del cuore. L'idea di fondo è chiara: noi non siamo meno peccatore degli altri, che hanno subito una morte ignominiosa. Tutti siamo altrettanto peccatori, e tutti abbiamo bisogno della misericordia divina. E questa misericordia divina è quella che viene sparsa abbondantemente in questo tempo quaresimale. È ora il tempo della salvezza, è questo il tempo della conversione. La parabola del fico sterile ci mostra, tuttavia, la pazienza di Dio che aspetta sempre il momento opportuno per la conversione del peccatore. Vediamo che la nostra vita è, in un certo modo, la visita del buon agricoltore che vanga e cura il fico affinché dia frutto.
Questa conversione ha luogo dentro l'uomo, quando l'uomo entra dentro se stesso e rende autentica la sua vita, quando vede che le sue azioni non corrispondono con ciò che professa e, come il cieco dalla strada, supplica: "Figlio di David, abbi pietà di me". Non è sensato rimandare la conversione dell'anima. Non lo è, perché non sappiamo l'ora del termine finale del nostro passaggio su questa terra. Non lo è, perché solo la conversione a Dio ci rende davvero felici e ricolma la nostra anima di frutti. Non lo è, perché anche gli altri fratelli che pure sono di passaggio, insieme a me, in questa vita hanno bisogno di Dio e della mia testimonianza di vita.
Il sacramento della penitenza. Il periodo della quaresima ci offre l'opportunità di rivalutare il sacramento della penitenza. La meditazione sulle tappe della salvezza che stiamo portando avanti in questo tempo quaresimale ci conducono alla conversione del cuore. Il Signore è vicino. Il Signore viene. Il Signore ha dato la sua vita per noi. Promuoviamo questo sacramento a tutti i livelli: coi piccoli, nella loro prima confessione e durante la loro infanzia; coi giovani, con giornate penitenziali ben preparate ed ambientate in un clima di pace e silenzio; con gli adulti, nei ritiri o in momenti specifici per occuparsi solo di loro. Tutti abbiamo bisogno del perdono di Dio. Non ci allontaniamo dall'altare di Dio, perché solo in Dio è la nostra salvezza.
La vigilanza nella vita cristiana. Nel vasto campo dell'ascesi cristiana la vigilanza svolge un ruolo importante. Oggi san Paolo ci raccomanda: "chi sta in piede, veda di non cadere". Si tratta del santo timor di Dio, del timore di perdere Dio. Perciò dobbiamo vigilare: "il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare".
La vigilanza non è uno stato di allarme ed inquietudine, al contrario, è il raccoglimento sereno e profondo di tutte le forze per vivere sempre in Dio, in pace, facendo il bene e praticando la carità. Chi vigila, come una buon sentinella, attende l'aurora, e sta attento affinché il nemico non entri nel suo terreno, vive con la speranza dell'alba ed è profeta di speranza.
Testo di Totustuus
Foglietto della Messa di domenica 7 marzo 2010 (III Tempo di Quaresima anno C)
Liturgia della Parola di domenica 7 marzo 2010 (III Tempo di Quaresima anno C)
tratti da www.lachiesa.it