Tra beatitudini e guai...
News del 12/02/2010 Torna all'elenco delle news
Questa domenica possiamo chiamarla la «domenica delle beatitudini o della felicità».
Il vangelo di Luca riporta il noto discorso delle beatitudini (6,17.20-26) dopo che Gesù sul monte aveva scelto gli apostoli, uno per uno.
La situazione nella quale egli si trovava era delicata: si stava determinando l'organizzazione di una nuova «comunità» con la scelta degli uomini e la chiarificazione dell'indirizzo. Gesù, dopo aver passato la notte in preghiera, certamente ha parlato con i discepoli della missione che stava per affidare loro, stabilendo probabilmente cosa avrebbero dovuto dire e come avrebbero dovuto comportarsi.
Il tono delle parole, pur non perdendo la familiarità, aveva senza dubbio i tratti dei momenti importanti.
Sceso dal monte, Gesù si trova di fronte a una numerosissima folla. Tutti volevano ascoltarlo, toccarlo, sentirlo vicino.
L'evangelista nota, con un certo stupore, che anche persone «tormentate dagli spiriti immondi» erano accorse per essere liberate. La folla era estremamente composita, anche contraddittoria, ma in una cosa erano tutti concordi: aspettavano una vita diversa, nuova, migliore di quella che conducevano, e speravano di poterla trovare attraverso quel giovane profeta venuto da Nazaret: «Da lui usciva una forza che sanava tutti»(v. 19).
Gesù, vedendo quella folla, non rimase insensibile e prese occasione per inaugurare una nuova fase della sua missione pronunciando uno dei discorsi più sconvolgenti, quello appunto delle beatitudini.
In Luca, a differenza di Matteo, è pronunciato in pianura, potremmo dire a livello della gente, di quella gente stanca, sfinita, malata, disperata. Le parole che Gesù pronuncia non sono astratte, e non hanno il tono del manifesto di una nuova ideologia, neppure sono un'esortazione rivolta a una èlite di eroi. Le sue parole erano dirette a quei poveri, a quei malati, a quella gente che piangeva, a coloro che erano insultati e rifiutati, a chi mendicava una parola per sé, a chi cercava di toccare con le mani almeno il lembo del mantello di quel profeta.
Ma la beatitudine non nasceva dalla condizione di miseria o di malattia in cui costoro versavano: sarebbe stato crudele dirlo. La beatitudine consisteva nel fatto che Dio aveva scelto di occuparsi di loro, prima che di altri. Insomma con Gesù giungeva il tempo in cui Dio dava il pane a chi aveva fame, trasformava in gioia il pianto e in allegrezza l'odio. Il regno è dei poveri, sin da ora, perché Dio sta con loro.
Il vangelo non si lascia andare a un facile e superficiale moralismo circa i «poveri buoni», quasi che questa loro condizione disagevole li renda moralmente migliori degli altri.
No; i poveri sono come tutti noi, buoni e cattivi. La beatitudine di avere Dio vicino nasce dall'oggettiva condizione di povertà, che intenerisce il cuore del Signore. Così è per i malati e i deboli, per i prigionieri e i carcerati. Essi, pur nel dramma e nella sofferenza, non debbono essere più disperati: Dio li ha scelti come suoi amici e su di loro riversa la sua misericordia. Del resto sarebbe davvero disumano se così non fosse. Che cuore avrebbe quella madre che distribuisse il suo tempo in maniera uguale con un figlio malato grave e con l'altro che sta bene?
Se proprio si vuole trovare nei poveri un aspetto soggettivo che facilita la vicinanza di Dio, questo lo si può individuare nel desiderio maggiore che essi hanno di qualcuno che stia loro vicino. Chi è ricco e sazio, chi riceve solo lodi, difficilmente attende un cambiamento radicale della propria vita, difficilmente sente il proprio limite e la radicale debolezza. E' facile che pensi di non aver bisogno di nessuno. Lo sappiamo bene per esperienza personale.
Il vangelo, perciò, con un procedimento a contrasto, aggiunge ai quattro «beati voi», altri quattro «guai a voi»: guai a voi ricchi, guai a voi sazi, guai a voi che ora ridete, guai a voi quando tutti vi diranno bene.
«Guai», perché in questi momenti è più facile sentirsi autosufficienti e per nulla bisognosi, neppure di Dio. Il ricco, che è in ognuno di noi, rischia di essere talmente ripiegato su di sé da restarne imprigionato.
«Guai a noi», quando lasciamo prevalere il ricco che è in noi.
Gesù non vuole esaltare la povertà in se stessa e neppure condannare la ricchezza in se stessa.
La salvezza, non dipende dal proprio stato, ma nel sentirsi, o meglio nell'essere, figlio di Dio. Se noi ricchi ci avviciniamo a Dio, i poveri saranno beati, perché assieme al Signore avranno vicini anche noi come loro fratelli.
Testo di mons. Vincenzo Paglia (Commento Luca 6,17.20-26)
Tra beatitudini e guai
La parola di Dio della sesta domenica del tempo ordinario dell'anno liturgico ci presenta Gesù che istruisce la gente con il celebre discorso della pianura, che il Vangelo di Luca, che oggi proclamiamo nella nostra assemblea liturgica riporta con particolari ben precisi.
Si tratta di uno dei testi fondamentali per capire esattamente il pensiero di Gesù circa le cose essenziali che conta nella vita di un suo seguace. Non a caso il discorso è diretto in primo luogo ai discepoli. Leggiamo attentamente il testo e ci troviamo immersi in una forte esperienza di incoraggiamento, di speranza e di promozione umana, da un lato, e precisi richiami circa i rischi che si possono avere se nella vita si dà molto spazio all'io e non a Dio.
"In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidóne. Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: "Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti".
E' interessante sottolineare in questo brano, l'affermazione conclusiva di tutto il discorso di Gesù: "Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti".
Noi cerchiamo nella vita e nelle nostre attività il consenso generale. Desideriamo che tutti dicano bene di noi e ci promuovano per le cose che diciamo o facciamo.
Gesù ci mette in guardia da questa tentazione di essere gli uomini e le persone di tutte le stagioni, che sono ottimi equilibristi nella società e nella stessa chiesa, perché non prendono posizioni chiare, paurosi come sono di compromettersi e di perdere in consenso. Gesù ci invita ad essere coerenti fino in fondo, al punto tale da non essere graditi ed accettati da nessuno.
D'altra parte, proprio Gesù ha fatto esperienza di questa emarginazione e solitudine, di questo rinnegamento da parte degli stessi amici, i primi a non riconoscere in lui l'inviato del Padre. In questa prospettiva è più che comprensibile che chi cerca di fare del proprio meglio e di impegnarsi a fare il proprio dovere indirizzando gli altri a fare ugualmente non risulta gradito ed accettato. Oggi si accettano di buon grado tutti coloro che sono permissivi e tolleranti su ogni cosa, magari anche su questioni etiche delicate.
Il Vangelo ci invita alla coerenza non solo nei pensieri, ma soprattutto nella vita.
Di particolare effetto ed efficacia è il testo della prima lettura, tratta dal profeta Geremia: "Così dice il Signore: "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa; quando viene il bene non lo vede. Dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia. Egli è come un albero piantato lungo l'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell'anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti".
Bisogna confidare pienamente nel Signore è questo l'invito esplicito che ci viene dal brano. Un confidare che deve sorpassare la presunzione di contare esclusivamente zu se stessi e sulle proprie forze. Alla fine si sa che l'uomo arrogante e presuntuoso non riesce in nulla dei suoi scopi è davvero un tamerisco lungo la steppa, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine dove è impossibile vivere ed è inconcepibile ogni forma di vita. E' la negazione di ogni prospettiva di relazione, in quanto è un essere preso esclusivamente da se stesso, un megalomane e mitomane, un idolatra della sua personalità, un soggetto pericoloso perché non si accorge che esistono anche gli altri e, in molti casi, migliori e più capaci di lui. Tale uomo è un essere solo, perché malato nel profondo della personalità.
Stessi concetti che vengono ribaditi nel Salmo resonsonsoriale: "Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte. Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere. Non così, non così gli empi: ma come pula che il vento disperde. Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina".
Chiaramente tutto questo discernimento interiore per superare le debolezze e le fragilità personali necessitano di un riferimento preciso a Gesù Cristo che come ci rammenta la Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo Apostolo è risorto e nella risurrezione trova significato e senso la fede, ma anche la vita morale in direzione di vero e continuo rinnovamento: "Fratelli, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti".
Nasce perciò spontanea la preghiera che la comunità dei credenti innalza oggi al Signore nella celebrazione eucaristica con la colletta: "O Dio, che respingi i superbi e doni la tua grazia agli umili, ascolta il grido dei poveri e degli oppressi che si leva a te da ogni parte della terra: spezza il giogo della violenza e dell'egoismo che ci rende estranei gli uni agli altri, e fa' che accogliendoci a vicenda come fratelli diventiamo segno dell'umanità rinnovata nel tuo amore".
Vogliamo chiedere al Signore, facendo tesoro della parola di Dio di oggi, che spezzi davvero in noi il gioco dell'egoismo che ci rende estranei gli uni agli altri. E come sia vero tutto questo lo sperimentiamo nelle famiglie a qualsiasi livello ed anche nella comunità dei credenti. L'egoismo non può mai generare amore e condivisione, ma solo odio e divisione.
Testo di padre Antonio Rungi
Foglietto della Messa di domenica 14 febbraio 2010 (VI T.O. Anno C)
Liturgia della Parola di domenica 14 febbraio 2010 (VI T.O. Anno C)
tratti da www.lachiesa.it