22 luglio 2018 - XVI Domenica del T.O.: L'arte divina della compassione per restare umani
News del 21/07/2018 Torna all'elenco delle news
C'era tanta gente che andava e veniva che non avevano neanche il tempo di mangiare. Gesù allora mostra una tenerezza di madre nei confronti dei suoi discepoli: andiamo via, e riposatevi un po'. Lo sguardo di Gesù va a cogliere la stanchezza dei suoi. Non si ferma a misurare i risultati ottenuti nella missione appena conclusa, per lui prima di tutto viene la persona, la salute profonda del cuore.
Più di ciò che fai, a lui interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di pregare, di preparare nuove missioni o affinarne il metodo, solo li conduce a prendersi un po' di tempo tutto per loro, del tempo per vivere. È il gesto d'amore di uno che vuole loro bene e li vuole felici. Come suggerisce questo testo molto noto:
Prenditi tempo per pensare / perché questa è la vera forza dell'uomo
Prenditi tempo per leggere / perché questa è la base della saggezza
Prenditi tempo per pregare / perché questo è il maggior potere sulla terra
Prenditi tempo per ridere / perché il riso è la musica dell'anima
Prenditi tempo per donare / perché il giorno è troppo corto per essere egoista
Prenditi tempo per amare ed essere amato / perché questo è il privilegio dato da Dio
Prenditi tempo per essere amabile / perché questo è il cammino della felicità.
Prenditi tempo per vivere!
E quando, sceso dalla barca vide la grande folla, provò compassione per loro. Appare una parola bella come un miracolo, filo conduttore dei gesti di Gesù: l'arte della compassione. Che è detta con un termine che evoca le viscere, un crampo nel ventre, un graffio, un'unghiata sul cuore. Che lo coinvolge. Gesù è preso fra due compassioni in conflitto: la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. E cambia i suoi programmi: si mise a insegnare loro molte cose. Gesù cambia i suoi programmi, ma non quelli dei suoi amici. Rinuncia al suo riposo, non al loro. «Venite in disparte, con me», aveva detto. «Poi torneremo tra la gente con un santuario rinnovato di bellezza e generosità». E i suoi osservano e imparano ancora più a fondo il cuore di Dio: Dio altro non fa' che eternamente considerare ogni suo figlio più importante di se stesso.
Stai con Gesù, lo guardi agire e lui ti offre il primo insegnamento: come guardare, prima ancora di come agire. E lo consegna ai dodici apostoli: prima ancora delle parole insegna uno sguardo che abbraccia, che ha compassione e tenerezza. Poi, le parole verranno e sapranno di cielo.
Se ancora c'è sulla terra chi ha l'arte divina della compassione, chi si commuove per l'ultimo uomo, allora questa terra avrà un futuro, allora c'è ancora speranza di restare umani, di arrestare questa emorragia di umanità, questo dominio delle passioni tristi.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Il maestro non guarda al risultato ma alla persona
Al ritorno dalla missione, gli apostoli trovano un volto a cui consegnare la gioia di aver lavorato per il Regno. È lo stesso volto di cui si sono fidati sia nel momento della chiamata alla sequela che in quello dell’invio; volto accogliente e rassicurante come quello della mamma a cui il bambino racconta ciò che gli è capitato a scuola. Tutti abbiamo bisogno di raccontarci, di sentirci chiedere “come stai? Com’è andata?”, e così poter condividere ciò che portiamo dentro.
Paradossalmente, quello che esterniamo diventa più intimo, perché mentre lo raccontiamo lo comprendiamo meglio, mettiamo a fuoco tutti i particolari, lo facciamo più nostro e non rischiamo di dimenticarlo. Marco, per indicare tale riunione intorno a Cristo, usa il verbo dell’adunanza ecclesiale, conferendo all’incontro tra il maestro e i discepoli il carattere di una paradigmatica esperienza di Chiesa nascente, la cui «missione non finisce nel momento in cui incontra la folla, ma trova compimento e nuovo inizio nel momento in cui viene raccontata a Gesù» (Stefano Ripepi). Dunque una missione diventa autenticamente ecclesiale quando è restituita a colui in nome del quale è compiuta, che a sua volta si mostra interessato non tanto all’esecuzione della stessa, quanto alla persona dei missionari. Il vangelo infatti sottolinea sempre il primato della persona e della sua relazione con Cristo rispetto all’attesa del risultato, per quanto buona e legittima. C’è da chiedersi se una tale logica presieda anche al nostro modo di recare l’annuncio, o anche noi ci lasciamo dominare dalla mondana ansia da prestazione nel campo della evangelizzazione. L’altro verbo che Marco usa per dire che i discepoli «riferirono tutto quello che avevano fatto», è proprio quello della evangelizzazione. Forse Dio ha bisogno di essere ‘evangelizzato’? Sì, nel senso che quando i missionari recano nel mondo la lieta notizia, il cuore di Dio si rallegra, essendo realmente coinvolto e partecipe nell’impegno degli uomini a servizio del Regno. Non dunque un Dio impassibile che muove le fila della Chiesa dal suo trono inaccessibile, ma teneramente vicino al cammino concreto dei suoi, capace di intuire il loro bisogno di rigenerarsi per evitare di vivere tutto senza la percezione della bellezza di ciò che fanno. Lo sguardo di Gesù pertanto va ben oltre quello che gli apostoli raccontano. Egli sa perfettamente quanto anche la gioia può essere faticosa, cosa significa essere tutti protesi verso i bisogni dell’altro tanto da dimenticarsi dei propri, anche di quelli primari, come mangiare. Da qui la sollecitudine per i discepoli, che si avviano «verso un luogo deserto, in disparte», ma anche la necessità per Gesù: «egli deve fare discernimento sulla sua missione, soprattutto ora che Giovanni il Battista, con la morte violenta subita, diventa precursore anche del suo futuro» (Enzo Bianchi). Tuttavia l’agenda del missionario non è dettata da un programma studiato a tavolino, ma da uno sguardo di compassione come quello del maestro, irresistibilmente attratto dal povero che tende la mano. «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro», che addirittura avevano preceduto i missionari all’altra riva, mossi da un bisogno che li aveva resi intraprendenti. L’audacia dei bisognosi e lo sguardo dell’appassionato si incontrano. Il vangelo racconta dunque di passioni forti, di ricerche reciproche, di perdite e ritrovamenti. Sembra di rivedere la dinamica del desiderio dell’amato e dell’amata del Cantico dei Cantici, in cui la momentanea distanza non fa altro che accrescere il desiderio della presenza dell’altro. È necessario talvolta che Gesù si allontani dal nostro sguardo perché capiamo se è veramente Lui l’amato del nostro cuore e facciamo chiarezza su cosa cerchiamo davvero nella vita. Certo, la pericope successiva della moltiplicazione dei pani aiuterà a comprendere se Gesù è cercato per il desiderio di stabilire una relazione con Lui o per il cibo che Egli dà, ma intanto è decisivo imparare a dimorare nell’intimità divina, verificare se il cuore riposa volentieri in Cristo. Al di là della intenzione che muove il cuore degli uomini, Gesù coglie la loro oggettiva realtà di «pecore che non hanno pastore» perché, come denunciarono i profeti, le guide del popolo avevano pascolato se stesse. È questa la verità dell’uomo del nostro tempo, cui Gesù risponde con la forza del suo insegnamento, a riprova del fatto che non gli stratagemmi umani, ma attingere alla sapienza divina è l’unica via per la risoluzione dei problemi del mondo.
Omelia di don Tonino Sgrò tratta da www.reggiobova.it
Modelli del gregge
Il profeta Geremia al brano di cui alla Prima Lettura rassicura che Dio provvederà alle sue pecorelle, procurando loro un pastore adeguato, sollecito e premuroso. Anche Ezechiele (cap 34) riprova l'atteggiamento perfido dei pastori che, anziché rendersi guide e modelli del gregge, spadroneggiano sul popolo loro affidato perseguendo obiettivi ben differenti da quello della salute delle loro pecorelle. Pastori poco propensi, scarsamente dediti alla cultura del gregge e intenti a personalizzare il loro ministero sulla base di preferenze personali non possono che causare dispersione e confusione suscitando l'intervento risolutivo di Dio. Questi promette che non farà mancare al suo popolo i Pastore supremo ideale che si farà innanzitutto modello del gregge, guidandolo innanzitutto con la vicinanza e con l'esempio, collocandosi dalla parte di ciascuna delle pecorelle e chinandosi su ciascuna di esse con la sollecitudine paterna di chi vuole risanare le ferite e ricondurre all'ovile chi si era disperso.
Il pastore supremo zelantissimo è il Messia Gesù Cristo, che più volte si è proposto con questo appellativo dimostrando effettivamente di essere ciò che di se stesso proclamava: la guida del gregge, la porta per la quale è possibile entrare nel recinto, il luogo di adunanza di tutte le pecore disperse. Di fatto Gesù è pastore in quanto egli stesso accompagna il gregge mantenendolo in unità ed evitando che si smarrisca e che si disorienti. In Gesù c'è la completezza delle prerogative del pastore, soprattutto perché egli è stato agnello, vittima immolata che per nostro riscatto ha effuso il suo sangue. E' pastore quindi perché è agnello.
La pastoralità di Cristo nei nostri confronti si esercita per mezzo del ministero degli apostoli, che la scorsa Domenica abbiamo visto partire provvisti della sola assistenza della Provvidenza di Dio, per la quale potevano anche viaggiare privi di mezzi e di sostentamento, ben certi che a loro non sarebbe mancato nulla. Gli stessi Dodici adesso vengono chiamati a rapporto da Gesù e a lui riferiscono ogni cosa di ciò che hanno fatto di quanto hanno insegnato, riferendo episodi di successo ministeriale ma anche di delusione per l'ostinazione da parte degli interlocutori a non rispondere. Gesù aveva dato loro il monito di predicare la conversione e il ravvedimento e ora loro riferiscono di quanti fra la gente li hanno ascoltati e di quanti titubavano o si ostinavano a persistere nella loro via. Raccontano di persone sensibile e ben disposte all'ascolto della parola, ma di altre refrattarie e indifferenti, di coloro che li hanno accolti benevolmente nella loro casa e di quanti li hanno respinti ed esecrati. Raccontano dei miracoli di guarigione di cui sono stati capaci in forza dell'autorità che Gesù aveva loro dato, di prodigi come pure di ostinazioni di cuore sperimentate. E intanto parecchia altra gente fa ressa attorno a loro, si accalca al punto da impedire loro perfino di prendere cibo. Gesù si mostra premuroso certamente nei confronti delle pecore che vede sprovviste di pastore, ma non manca di provvedere alla serenità e al sollievo di coloro che egli stesso aveva mandato: ?Venite in disparte e riposatevi.? Il missionario necessita infatti di adeguato raccoglimento, di solitudine e di relax perché il suo ministero possa essere efficiente e fruttuoso. Non si può fare a meno di cercare luoghi ritirati e solitari dove raffrontarsi con se stessi e fare nello spirito il punto della situazione, per poteri riprendere poi a lavorare con rinnovata energia. Il riposo apporterà agli apostoli il risultato di un lavoro ministeriale all'insegna dell'amore qualitativo verso il gregge, carico di contenuti e di densità spirituale.
Agli apostoli si chiede nient'altro che si dispongano a guidare il popolo che verrà loro affidato secondo quello che sarà poi il monito di Pietro: ?"...pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge." (1Pt 5, 2- 3) Il che vuol dire camminando accanto a ciascuna delle pecore, piangendo con essa e con essa esultando, rendendosi partecipi delle sue gioie e dei suoi dolori. Farsi modelli del gregge vuol dire far proprie le loro condizioni di vita, calarsi nelle singole realtà di ciascuno e con amore, comprensione e carità proporsi quale compagnia seria e produttiva, almeno dal punto di vista spirituale.
In qualsiasi attività il ministro è mandatario di un annuncio che non è di sua provenienza e del quale è consapevole di dover essere responsabile, di conseguenza non può mancare di rendere evidente a tutti la presenza stessa di Cristo con il suo stesso esempio prima ancora che nelle sue parole e nelle sue opere. Facciamoci modelli del gregge perché il gregge veda in noi il modello della sequela di Cristo.
Omelia di padre Gian Franco Scarpitta
Liturgia e Liturgia della Parola della XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 22 luglio 2018
tratto da www.lachiesa.it