25 giugno 2017 - XII Domenica del Tempo Ordinario: oltre ogni paura

News del 24/06/2017 Torna all'elenco delle news

E' difficile considerare il cristianesimo "vangelo", cioè buona notizia, quando ci annuncia che il peccato regna nel mondo, che al peccato di un solo uomo (Adamo) si sono aggiunti i peccati di molti, tutti hanno peccato, e che questo genera strutture di peccato all'opera nella storia delle quali siamo inevitabilmente complici. Gli esempi sono nella cronaca di tutti i giorni. Individualmente, nessuno di noi è insensibile al dramma di migliaia di profughi costretti dalle guerre -che sono i nostri paesi occidentali ad avere innescato- ad abbandonare le loro patrie per cercare rifugio nei nostri paesi. Individualmente, non siamo insensibili alla loro sorte e se ne incontrassimo li aiuteremmo senz'altro in qualche modo, ma collettivamente facciamo di tutto per tenerli lontani, per impedire loro di entrare nei nostri paesi, per deportarli nei loro luoghi d'origine dove saranno di nuovo esposti a pericoli mortali. Una struttura di peccato è questa: indipendentemente dalla volontà dei singoli, essa stritola tutti sul suo passaggio e, a meno di essere eroi, nessuno sembra capace di resistere ai suoi meccanismi letali. Il nostro benessere riposa su queste strutture e nessuno è pronto a rinunciarvi, né saprebbe come fare. C'è davvero una inevitabilità riguardo al male nel mondo e alla nostra complicità con esso, che la tradizione cristiana ha chiamato ?peccato originale' e che Paolo descrive impietosamente quando afferma che in tutti gli uomini si è propagata la morte.

Il cristianesimo non pecca però di pessimismo o di fatalismo nell'offrire questo quadro. Se denuncia così accoratamente questa situazione non è per colpevolizzare nessuno, né per dispensare dalla lotta per la giustizia. Ben al contrario, è in virtù della sua acuta consapevolezza di quanto tale situazione, pur restando critica, porti già in sé i semi di cambiamento dai quali risulteranno i cieli e la terra nuovi. Da dove proviene infatti la diagnosi del cristianesimo sulla storia? Non prima di tutto dall'esperienza, né da una analisi meramente storica, sociologica o filosofica. Sorprendentemente, tale diagnosi proviene dalla salvezza di Cristo e il ragionamento di Paolo, che è poi diventato quello cristiano, è facilmente riassumibile come segue: se era necessario che Dio si facesse uomo per salvarci, questo vuol dire che la nostra situazione doveva essere (e resta) davvero drammatica. Gli esegeti hanno infatti appurato che Paolo ragiona a partire non dal peccato, ma dal dono della grazia: è perché tutti hanno bisogno del perdono di Cristo che sappiamo che tutti hanno peccato; è misurando quanto il dono della grazia non sia come la caduta, e con quale abbondanza il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sia riversato su tutti, che deduciamo quanto ne avessimo bisogno.

Se dunque il cristianesimo presenta un quadro non roseo della situazione dell'umanità non è per incuterci timore, per colpevolizzarci o per scoraggiarci, ma ben al contrario come sottofondo al grande messaggio di consolazione e di speranza che risuona praticamente in ogni pagina della Scrittura. Se infatti spesso vi è terrore all'intorno, se spesso insulto e vergogna coprono la nostra faccia, se la vita ci esporrà ad ogni sorta di sfide, di prove, di sofferenze, l'invito reiterato due volte nel vangelo di oggi è non abbiate paura.

Ci è garantita l'amorevole assistenza di un Dio che ci conosce a tal punto da aver contato il numero dei capelli sul nostro capo, che ci ha tanto amato da dare il suo Figlio per noi e la cui fedeltà è eterna.

Ogni volta che nella Scrittura un profeta o un salmo si lamentano di una prova, gridano una sofferenza, protestano contro il Signore, lo fanno con onestà, audacia, senza paura di offendere il Signore, consapevoli di poter dire tutto a Dio, ma concludono sempre questi sfoghi con una lode, con un ringraziamento, dando già per scontato di essere stati ascoltati ed esauditi. Le letture di oggi ci mostrano questo modello all'opera sia nel testo di Geremia che nel salmo. Il primo si conclude con un invito a cantare inni al Signore e a lodarlo perché ha liberato il povero dalla mano dei malfattori e il secondo invita i poveri a vedere, a rallegrarsi, a farsi coraggio, già sicuro che il Signore ascolta i miseri, e conclude con un invito alla lode: A lui cantino lode i cieli e la terra,

i mari e quanto brulica in essi.

Ritroviamo la stessa dinamica presente nel pensiero di Paolo. Possiamo dire che è la fede nella fedeltà di Dio, nel suo amore per noi, che libera il grido di dolore e gli permette di esprimersi in tutta la sua veemenza. Il salmista può rivolgere a Dio la sua preghiera con sincerità, senza timore, perché ne conosce la fedeltà, la bontà ed anche la tenerezza: Ma io rivolgo a te la mia preghiera,

Signore, nel tempo della benevolenza.

O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,

nella fedeltà della tua salvezza.

Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore; volgiti a me nella tua grande tenerezza.

Il realismo cristiano, insomma, non ha bisogno di edulcorare in nulla la realtà del male del mondo, ma è al sicuro da ogni forma di fatalismo, di cinismo e di disperazione perché conosce il Dio in cui spera, ha imparato a decifrare il suo intervento nella storia, ne conosce la tenerezza e la fedeltà e a queste sa di poter ricorrere senza temere mai di restare deluso.

Omelia di don Luigi Gioia

 

 

Perché il Padre tiene il conto anche dei nostri capelli

Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri. Ogni volta, di fronte a queste parole provo paura e commozione insieme: la paura di non capire un Dio che si perde dietro le più piccole creature: i passeri e i capelli del capo; la commozione di immagini che mi parlano dell'impensato di Dio, che fa per te ciò che nessuno ha fatto, ciò che nessuno farà: ti conta tutti i capelli in capo e ti prepara un nido nelle sue mani. Per dire che tu vali per Lui, che ha cura di te, di ogni fibra del corpo, di ogni cellula del cuore: innamorato di ogni tuo dettaglio.

Nemmeno un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti a morire, i bambini ad essere venduti a poco più di un soldo o gettati via appena spiccato il loro breve volo.

Ma allora, è Dio che fa cadere a terra? È Dio che infrange le ali dei corti voli che sono le nostre vite, che invia la morte ed essa viene? No. Abbiamo interpretato questo passo sull'eco di certi proverbi popolari come: non si muove foglia che Dio non voglia. Ma il Vangelo non dice questo, assicura invece che neppure un passero cadrà a terra senza che Dio ne sia coinvolto, che nessuno cadrà fuori dalle mani di Dio, lontano dalla sua presenza. Dio sarà lì.

Nulla accade senza il Padre, è la traduzione letterale, e non di certo senza che Dio lo voglia. Infatti molte cose, troppe accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza accade contro la volontà del Padre, e tuttavia nulla avviene senza che Dio ne sia coinvolto, nessuno muore senza che Lui non ne patisca l'agonia, nessuno è rifiutato senza che non lo sia anche lui (Matteo 25), nessuno è crocifisso senza che Cristo non sia ancora crocifisso.

Quello che ascoltate all'orecchio voi annunciatelo sulle terrazze, sul posto di lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno annunciate che Dio si prende cura di ognuno dei suoi figli, che nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.

Temete piuttosto chi ha il potere di far perire l'anima, l'anima è vulnerabile, l'anima è una fiamma che può languire: muore di superficialità, di indifferenza, di disamore, di ipocrisia. Muore quando ti lasci corrompere, quando disanimi gli altri e togli loro coraggio, quando lavori a demolire, a calunniare, a deridere gli ideali, a diffondere la paura.

Per tre volte Gesù ci rassicura: Non abbiate paura (vv 26,28,31), voi valete! Che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo di più, di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Cogliere il futuro

Non abbiate paura degli uomini

Per tre volte Gesù invita i suoi discepoli a non aver paura, è un invito costante in tutta la Scrittura espresso in tutte le declinazioni possibili proprio perché la paura, il timore, la preoccupazione, il sospetto sono connaturali all'uomo, uno strumento di difesa dall'inconoscibile, un allarme di pericolo. Se la paura è spesso indispensabile per la sopravvivenza non lo è per l'Amore. Ci sono due forze motrici fondamentali: la paura e l'amore. Quando abbiamo paura, ci ritraiamo indietro dalla vita. Quando siamo innamorati, ci apriamo a tutto ciò che la vita ha da offrire con passione, entusiasmo, e l'accettazione (John Lennon).

Eppure se dovessimo caratterizzare il tempo presente, nonostante la raffinatezza tecnologica, l'alto livello culturale, l'ampiezza relazionale, è proprio la paura degli uomini l'elemento identificante la nostra epoca. Finiti gli anni di piombo, caduto il muro di Berlino, dileguata la cortina di ferro come quella di bambù abbiamo individuato altre categorie a cui affidare le nostre inquietudini e i nostri presentimenti, verso cui mostrare diffidenza e ostilità (dai vaccini ai rifugiati, dal consumo di alcuni alimenti ai Rom,...). Se la paura era determinata da ciò che era sconosciuto e lontano, nel tempo d'oggi è il vicino e ciò che è troppo conosciuto a provocare timore (Marc Augé).

Nulla vi è di nascosto

Si ha l'impressione che i discepoli fossero depositari di qualche dottrina tenuta nascosta, detta nelle tenebre o sussurrata all'orecchio; piuttosto che indicare il passaggio da una rivelazione privata ad una pubblica quello che appare nasce dalla incapacità dei discepoli di capire fino in fondo ciò che hanno ricevuto. La loro esperienza col Signore è ancora dominata dal mistero e dalla incomprensione finché la sua morte sulla croce non rivela la grandezza della paternità di Dio, finché la debolezza di Gesù non mostra l'onnipotenza del Padre. È la contrapposizione tra vita e morte, fragilità e forza, perdita e vittoria che spaventa, è così incredibile da diventare inannunciabile; nel processo tra l'ascolto e l'annuncio dobbiamo fare i conti con le nostre paure e le nostre reticenze, con le tenebre che avvolgono i nostri pensieri, con le intuizioni che ci paiono appena appena sussurrate. La piccolezza ci scandalizza, l'insignificanza, la rovina suonano come disfatta da tenere nascosta altro che essere sbandierata alla luce del giorno o proclamata dalla terrazza della storia.

Quelli che uccidono

Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (Rm 8,35). La storia ci insegna che il rifiuto del Vangelo e dei cristiani è inevitabile, cambiano le ragioni, le modalità, la violenza, l'intensità, gli obiettivi, anche l'atteggiamento di chi del mondo cristiano dice di far parte, ma resta la realtà di fondo.

Il vangelo ci chiede di mantenere un atteggiamento di fiducia in Dio Padre, se Dio ha cura di due passerotti e persino di un insignificante capello, dobbiamo sentire la certezza e la sicurezza del suo progetto di amore.

Non è nel volere di Dio la caduta di chicchessia (come la proverbiale foglia) ma è certo che nulla e nessuno è abbandonato da Dio, il suo è uno sguardo di Padre a meno che non siamo noi stessi a sottrarci al suo sguardo.

Anch'io lo riconoscerò

È interessante il verbo greco omologheis che è tradotto con riconoscere: è formato dal termine "medesimo" con "parola" nonostante la somiglianza il significato è assai diverso dal nostro omologare. Il riconoscere è soprattutto espressione di "comunione", di vita, di storia, di prospettiva. Tra le righe possiamo leggerci la necessita di cogliere il futuro in questo nostro tempo presente. Nella "medesima parola" che ci esprime la comunione col Signore è contenuto il progetto di salvezza. Cogliere il futuro significa entrare nella dinamica di questo progetto, entrare nella complessità storica del mondo, nella fatica e nella tribolazione quotidiana percependone la provvisorietà e la relatività perché nel presente si vive il futuro di Dio.

Omelia di don Luciano Cantini

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 25 giugno 2017

tratto da www.lachiesa.it