19 marzo 2017 - III Domenica di Quaresima "Oculi": Cristo acqua, verità e vita

News del 17/03/2017 Torna all'elenco delle news

Massa e Meriba significano letteralmente "prova" e "denuncia" e nella circostanza in cui queste località sono citate avviene effettivamente che Dio viene messo alla prova dal popolo d'Israele, che con la sua impazienza, complice le sofferenze e le atrocità del pellegrinaggio forzato, chiede acqua per non morire di sete. La "prova" in tal caso risiede nell'interrogativo contestuale: "Il Signore è con noi, si o no'"cioè in una sorta di esame, di verifica a cui Dio viene sottoposto onde appurare la sua presenza e la sua onnipotenza. Il popolo manca di fede e vuol provare Dio, accertarsi che davvero ci sia e che operi a loro vantaggio. La versione del libro dei Numeri che riporta lo stesso episodio afferma ulteriormente che, di fronte alla roccia, perfino Mosè dubita della parola divina: "Vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?"(Nm 20, 10) e questo rafforza l'idea del voler mettere Dio alla prova e di non contentarsi della sua parola promettente. La "denuncia" consiste in una lamentale verso lo stesso Signore che anche nella persona del suo ministro Mosè viene avversato e giudicato. In tutto questo Massa e Meriba sono emblema di negatività, perché in quei luoghi il popolo intendeva mettere alla prova il Signore, saggiare la sua reale onnipotenza e grandezza. Che si possa impetrare a Dio, nella preghiera, qualsiasi grazia spirituale o materiale è legittimo e giustificato e non di rado sottende che il nostro animo è elevato nella confidenza verso Colui che ascolta tutte le nostre invocazioni; mettere Dio alla prova, cioè costringerlo a sottoporsi alle nostre verifiche e ai nostri "test di valutazione" corrisponde invece a "tentarlo" e a mancare di fede nei suoi confronti, quasi come se Lui dovesse rendere conto a noi e non il contrario. Mettere Dio alla prova era stata una delle tentazioni accattivanti con le quali il diavolo intendeva mettere alla prova Gesù nel deserto e denota sempre un'assenza di fede perché fa prevalere in ogni caso la nostra volontà a quella di Dio. Il popolo (leggi qualsiasi credente affermato e convinto) nella circostanza suddetta doveva semplicemente aver fiducia, abbandonarsi alla parola promettente di Dio e disporsi ad agire, in primis il patriarca Mosè, secondo le sue indicazioni senza batter ciglio e senza reticenze. Soprattutto perché Dio voleva concedere non soltanto l'acqua materiale, indispensabile in terra arida per dissetare il popolo e l'intero bestiame, ma anche l'acqua sostanziale della vita. Nella Bibbia infatti la sete non è solamente desidero di prezioso liquido con cui appagare una necessità neurovegetativa, ma anche inconsapevole ricerca della verità, desiderio di universalità nei valori, anelito verso l'assoluto e l'indefinito. L'acqua nella Scrittura indica la sete materiale e l'arsura spirituale del vero di cui soffre senza consapevolezza piena l'uomo di ogni tempo, che cerca di appagare questa carenza attraverso felicità passeggere o verità contingenti e immediate, relegate nel sistema tangibile e dell'esperienza diretta. Dio ci rende edotti invece sulla nostra fondamentale miseria che ci identifica ciascuno assetato di verità trascendentale, ossia di un anelito che prescinde dalla temporaneità e dalla limitatezza. La verità che appaga l'uomo è quella assoluta e eterna e per accedervi occorre il semplice atto della fede e dell'autodonazione. In Cristo Dio fatto uomo l'acqua che estingue la sete ci viene donata definitivamente, perché Lui è la Verità incarnata, l'assoluto che è entrato nel relativo.

Nel colloquio con la Samaritana di cui alla pagina odierna, Cristo Verità si colloca dalla parte di chi ha sempre cercato il vero nelle effimeratezze e nelle illusioni, ossia nelle promesse vacue e inconcludenti del paganesimo per proporre egli stesso ciò che è effettivamente Reale in senso assoluto. Cristo Dio fatto uomo, rivelandosi all'uomo lo mette in rapporto con se stesso, gli svela la sua stessa profondità e lo invita a scrutare se stesso perché solo Lui sa (per l'appunto) la verità su ciascuno di noi, ed è quello che effettivamente egli dimostra invitando la donna alla sincera introspezione: "Hai detto bene, non hai marito. Ne hai avuti cinque e quello che hai adesso non è tuo marito." Come nessun altro dei suo conterranei avrebbe mai fatto, Gesù entra in sintonia con la Samaritana perché si sintonizzi in lui e scopra la Verità fondamentale che da sempre sta cercando invano ricorrendo a vie fallaci e gliela offre come acqua da bere. Da bere immediatamente, diremmo anche porta in un vassoio d'argento. Infatti, in nessuna altra parte dei Vangeli si nota che Gesù identifichi categoricamente se stesso come fa con questa donna di Samaria. Le dice infatti: "Sono io che ti parlo (il Messia)". Scrive Heisemberg: "Non sarà mai possibile, attraverso la ragione pura, arrivare a qualche verità assoluta"; Cristo è la verità rivelata che interpella la nostra ragione, come nel caso di questa Samaritana.

Si diceva all'inizio che l'acqua è sinonimo di vita, il che è evidente sotto tutti gli aspetti, anche quello biologico e materiale. Nel concedersi a noi risolutamente e senza restrizioni, Cristo diviene Via, Verità e Vita (Gv 14, 6) e solo attraverso di lui si accede al Padre nello Spirito Santo per fare della Verità la nostra stessa vita. Cristo ci si dona come acqua di cui dissetarsi, quindi nel modo più spontaneo e convincente perché possiamo vivere di lui risolutamente e con fiducia. Solo la fede però è la prospettiva che rende possibile il realizzarsi di questa possibilità e fin quando da parte nostra si pretenderà invece di voler tentare il Signore pretendendo che egli si atteggi secondo le nostre preferenze o che ci dia un saggio risolutivo della sua onnipotenza, non soltanto mancheremo nei suoi confronti, ma mancheremo anche verso noi stessi.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Una sorgente intera in cambio di un sorso d'acqua

Vuoi riannodare i fili di un amore? Gesù, maestro del cuore, ci mostra il metodo di Dio, in uno dei racconti più ricchi e generativi del Vangelo.

Gesù siede stanco al pozzo di Sicar; giunge una donna senza nome e dalla vita fragile. È l'umanità, la sposa che se n'è andata dietro ad altri amori, e che Dio, lo sposo, vuole riconquistare. Perché il suo amore non è stanco, e non gli importano gli errori ma quanta sete abbiamo nel cuore, quanto desiderio.

Questo rapporto sponsale, la trama nuziale tra Dio e l'umanità è la chiave di volta della Bibbia, dal primo all'ultimo dei suoi 73 libri: dal momento che ti mette in vita, Dio ti invita alle nozze con lui. Ognuno a suo modo sposo.

Dammi da bere. Lo sposo ha sete, ma non di acqua, ha sete di essere amato.

Gesù inizia il suo corteggiamento (la fede è la risposta al corteggiamento di Dio) non rimproverando ma offrendo: se tu sapessi il dono...

Il dono è il tornante di questa storia d'amore, la parola portante della storia sacra. Dio non chiede, dona; non pretende, offre: Ti darò un'acqua che diventa sorgente. Una sorgente intera in cambio di un sorso d'acqua. Un simbolo bellissimo: la fonte è molto più di ciò che serve alla tua sete; è senza misura, senza fine, senza calcolo. Esuberante ed eccessiva. Immagine di Dio: il dono di Dio è Dio stesso che si dona. Con una finalità precisa: che torniamo tutti ad amarlo da innamorati, non da servi; da innamorati, non da sottomessi.

Vai a chiamare colui che ami. Gesù quando parla con le donne va diritto al centro, al pozzo del cuore; il suo è il loro stesso linguaggio, quello dei sentimenti, del desiderio, della ricerca di ragioni forti per vivere. Solo fra le donne Gesù non ha avuto nemici.

Il suo sguardo creatore cerca il positivo di quella donna, lo trova e lo mette in luce per due volte: hai detto bene; e alla fine della frase: in questo hai detto il vero. Trova verità e bene, il buono e il vero anche in quella vita accidentata. Vede la sincerità di un cuore vivo ed è su questo frammento d'oro che si appoggia il resto del dialogo.

Non ci sono rimproveri, non giudizi, non consigli, Gesù invece fa di quella donna un tempio. Mi domandi dove adorare Dio, su quale monte? Ma sei tu, in spirito e verità, il monte; tu il tempio in cui Dio viene.

E la donna lasciata la sua anfora, corre in città: c'è uno che mi ha detto tutto di me... La sua debolezza diventa la sua forza, le ferite di ieri feritoie di futuro. Sopra di esse costruisce la sua testimonianza di Dio.

Un racconto che vale per ciascuno di noi: non temere le tue debolezze, ma costruiscici sopra. Possono diventare la pietra d'angolo della tua casa, del tempio santo che è il tuo cuore.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Sono io che parlo con te

Le letture di questa domenica ci pongono di fronte a due atteggiamenti possibili nella nostra relazione con il Padre.

Nella prima lettura incontriamo il popolo di Dio che nel deserto dimentica tutti i benefici ricevuti dal Signore e mormora contro Mosè: Perché ci hai fatti salire dall'Egitto per farci morire di sete, noi, i nostri figli e il nostro bestiame? Gli israeliti non credono più che il Signore sia in mezzo a loro e si lasciano vincere da un atteggiamento che possiamo descrivere come quello della disperazione.

L'atteggiamento opposto ci è invece offerto nella lucida confessione di fede di Paolo che alla tentazione della disperazione risponde con un elogio straordinario della speranza: La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. La speranza non delude, perché alla nostra sete ha risposto il Padre, versando il suo Spirito Santo nei nostri cuori, dove ci consola, ci da la forza, ci insegna a pregare, ci rivela le profondità di Dio, ci aiuta ad entrare nella vita divina.

In questo tempo di quaresima, in questo deserto nel quale ci siamo inoltrati per aver seguito Gesù, possiamo ritrovarci anche noi ad un bivio tra la disperazione e la speranza. È offerta anche per noi l'occasione di aprirci a questa speranza che non confonde, cioè ad osare continuare a contare sul Signore anche contro ogni evidenza contraria.

Questo è ciò che il vangelo di oggi chiama adorazione: Viene l'ora - dice Gesù - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Che cos'è l'adorazione se non questa capacità di rientrare in noi stessi e scoprire che zampilla in noi una fonte di acqua viva, la fonte dello Spirito Santo che è stato versato nei nostri cuori?

L'adorazione è qualcosa che abbiamo bisogno di imparare prima di tutto lasciandoci condurre nel deserto dove siamo provocati dalla nostra sete a cercare dove dissetarla. Solo grazie a questo pungolo cerchiamo il cammino dell'adorazione, ci lasciamo condurre per mano dalla paziente pedagogia di Gesù.

Il popolo di Israele era stato condotto nel deserto per poter adorare Dio. Quando Mosè infatti chiese al faraone di poter condurre il popolo nel deserto, la ragione che diede fu proprio questa: per condurlo in un luogo nel quale potesse adorare il Signore. Ed effettivamente se il popolo restò quaranta anni nel deserto fu perché era un popolo idolatra, che non sapeva adorare il Signore. Il Signore ebbe bisogno di un ricambio generazionale totale perché apparisse una generazione nuova di Israeliti, non contaminati dall'idolatria, che sapessero riconoscere nel Signore il loro tutto.

Quanto è successo nella storia di Israele si ripete in ciascuna delle nostre vite. Il Signore conduce ognuno di noi nel deserto per sedurci e per parlare al nostro cuore, come fa con la donna samaritana. Prima le chiede da bere. La donna risponde con una certa sorpresa e all'inizio non capisce cosa voglia Gesù. Ma Gesù con questa donna parla, parla al suo cuore, si rivela apertamente e le proclama: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva. Gesù compie esattamente ciò che Dio annuncia nel libro di Osea: seduce questa donna, la conduce nel deserto e là parla al suo cuore. Quando la donna gli chiede del messia, la risposta di Gesù non è solo "Sono io il Messia" ma "Sono io che parlo con te".

Il nostro Dio non resta nel cielo, dicendoci quello che dobbiamo fare attraverso la Parola, attraverso mediazioni umane come quelle della Chiesa, per poi lasciarci alla nostra iniziativa. Il nostro è un Dio che ci viene incontro e ci parla, perché l'amore di Dio, lo Spirito Santo, cioè Dio stesso, è stato versato nei nostri cuori. Se vogliamo incontrarlo è nel nostro cuore che dobbiamo ritornare, perché - come dice ancora Gesù in questa pagina del Vangelo - viene l'ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità.

Che cos'è adorare Dio, se non ritrovare le ragioni della nostra speranza non fuori di noi stessi, ma nel nostro cuore? Il senso profondo dell'itinerario quaresimale si schiuderà per noi se sapremo ritagliarci nelle nostre giornate piccoli momenti nei quali entrare nella nostra camera e chiudere la porta, là dove il Padre ci scruta, ci vede nel segreto, e là pregarlo. Pregarlo semplicemente con le parole del Padre Nostro capite, meditate, gustate. Pregarlo per riconoscerlo presente, per sperimentare che la sua non è una presenza vuota, ma pacificante, consolante, vivificante. È la presenza del Dio che ci dichiara: "Sono io, che parlo con te. Sono io che parlo al tuo cuore".

Omelia di don Luigi Gioia

 

Liturgia e Liturgia della Parola della III Domenica di Quaresima (Anno A) 19 marzo 2017

tratto da www.lachiesa.it