La spiritualità del tempo di Avvento - di don Nicola Casuscelli

News del 06/12/2009 Torna all'elenco delle news

Il tempo liturgico dell’Avvento richiama il Christifidelis a vivere alcuni aspetti fondamentali della propria vita cristiana:

l’attesa e la speranza, la conversione, la povertà.

a) Chi attende vive nella fiducia! Quanto più forte è il motivo dell’attesa, tanto più intensa è la fiducia nella realizzazione della speranza. Il cristiano va all’origine della sua speranza e trova consolazione nel prepararsi al compimento dell’attesa stessa. Dio annuncia la salvezza e la promette nel Messia che verrà. Tutta la Liturgia avventuale è caratterizzata dall’annuncio della salvezza da parte di Dio e dalla risposta fiduciale dell’uomo. L’uomo attende nella speranza perché Dio promette il suo intervento sicuro per riporlo nella pace.

Sia la prima che la seconda parte dell’Avvento insistono su questo aspetto: il Figlio di Dio verrà nell’umiltà della condizione umana (con l’inno gioioso degli angeli festanti in cielo) e il Figlio dell’Uomo verrà di nuovo nella gloria (accompagnato da tutta la corte angelica). Noi, nel mistero-memoriale della Liturgia, che sola può renderci contemporanei al mistero del Natale del Signore, siamo avvolti dalla speranza della nostra salvezza: che è già venuta nella storia, che viene nelle celebrazioni della Chiesa, che verrà nella Parusia.

Contemplando l’origine della speranza, il Salvatore, il credente vive l’attesa in maniera gioiosa e vigilante. È nella gioia perché l’amore per l’Amato genera in colui che ama pieno appagamento e maturità di vita. L’Amante (Cristo Signore), infatti, infondendo il suo Amore (lo Spirito vivificatore) negli amati (tutti gli uomini) li avvolge ed “invade” di gioia infinita. Ed è vigilante nell’attesa perché il cristiano si prepara ad incontrare il Dio che viene nell’ora che non conosce. Si prepara non nella paura (che è di coloro che non conoscono veramente l’ “oggetto” dell’amore), ma operando per la crescita personale, spirituale e comunitaria. Nell’attesa, la gioia e il desiderio aumentano e il “premio” della speranza è il “vedere”, cioè contemplare il desideratum gentium, l’atteso/desiderato di tutti gli uomini: Cristo Gesù, speranza nostra!

La Liturgia dell’Avvento ha un profondo significato pedagogico, cioè ci educa alla speranza: speranza forte e paziente, che accetta l’ora della prova, che si affida al Signore, che esce da schemi e abbandona pregiudizi che non manifestano appieno la libertà e l’autenticità dell’uomo.
La Chiesa è il popolo di Dio in cammino, e durante questo pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste, avanza fiduciosa con e verso il suo Sposo, che è sempre con lei e la custodisce con la sua stessa vita.
In Gesù lo  sfiduciato ritrova forza, il lontano si avvicina, l’ammalato riesce a dare un senso alla sua situazione, colui che ha bisogno trova comprensione e conforto e la speranza rinasce.
Il Signore, però, chiede a chi lo ha già incontrato di diventare suo sacramento, cioè presenza visibile del Dio invisibile, perché molti ricostruiscano la loro speranza frammentata dalle vicissitudini della vita, attraverso l’olio della consolazione che, a nome del Signore, spandiamo sulle dolorose ferite. E la speranza si riaccende, l’amore fraterno si rende visibile e credibile, l’attesa diventa generatrice di vita.

b) L’Avvento è tempo di conversione. Non c’è possibilità di gioiosa speranza e vigilante attesa senza  il ritorno al Signore con tutto se stessi nella fiducia della sua venuta. La vita del cristiano è caratterizzata anche da un atteggiamento che oggi è molto poco considerato, ossia quello dell’ascesi. Non è più il tempo delle “mortificazioni eccessive” (considerate tali oggi da noi) del periodo medievale e, per certi aspetti, di non molti anni fa, ma di certo una vita austera e penitente è capace di riconoscere meglio l’essenziale quale via di accesso al Mistero. L’asceta è colui che fatica sulla propria vita per poter ristabilire una relazione autentica con Dio e la conversione consiste nel rincentrare, giorno dopo giorno, tutto di se stessi sul Salvatore e ripartire da lui. Ascesi, austerità e sobrietà non sono stili di vita che vanno contro la gioia, non sono dei limiti alla felicità dell’uomo, anzi, lo aiutano a dare l’esatto valore alle realtà terrene, ad avere una corretta considerazione di se stessi, a dare il primato su tutto a Colui dal quale tutto proviene e verso il quale tutto è orientato.

Con la venuta di Cristo, la luce entra nel mondo. Il cristiano vive di questa luce e la custodisce in se stesso, diventando strumento di Dio attraverso il quale possa irradiare la Luce vera, che sola ha la potenzialità di dare la vita e ricondurre alla Vita! Chi rinuncia a ciò che è effimero e persegue la via stretta del Vangelo certamente vive la vita con maggiore serenità perché è consapevole che di noi tutto è conosciuto/custodito dal Signore.

c) Un altro aspetto che caratterizza l’Avvento è quello del povero. Non si tratta della povertà economica, ma del significato profondo che ritroviamo nella Sacra Scrittura: il povero di Dio è colui che a lui si affida e vi si accosta con totale fiducia, è in ricerca la virtù dell’umiltà e della mitezza, della fiducia incrollabile in colui che salva dalla disperazione e dalla morte. Dio rivolge con tenerezza il suo sguardo sui suoi figli abbandonati in lui e li ricolma della sua presenza. Betlemme e Nazareth sono “i due paesini” che ci riconducono alla povertà di Gesù e della sua famiglia, una vita, quella di questi ultimi, in cui la fede diventa fonte di vita e donazione della vita stessa.

Dal cammino che abbiamo fatto, facilmente possiamo dire che gli elementi della spiritualità del tempo liturgico dell’Avvento caratterizzano lo stile di vita del cristiano. Siamo uomini e donne pellegrinanti e, lungo la via verso l’incontro con il Salvatore, ci accorgiamo del suo stare, sempre, in mezzo a noi.

La vita del cristiano è contraddistinta anche dalla consapevolezza della novità perenne. Ogni volta che lo riportiamo alla memoria, ci accorgiamo che l’amore trova forza quando lo si vive nella novità del suo essere. Quando l’abitudine si impadronisce di noi, restiamo bloccati e non avanziamo verso nessuna direzione, correndo il rischio di perdere quanto con sudore eravamo riusciti a raggiungere.

Questo tempo che stiamo vivendo ci aiuti nella speranza che spinge in avanti la fede e l’amore; ci incoraggi nella conversione alla vita divina; ci faccia gustare la gioia che il dipendere in tutto da Colui che ci ha creati non coincide con la schiavitù, ma, al contrario, con l’esaltazione della libertà dei figli di Dio.

Testo di don Nicola Casuscelli

 

Ogni settimana una immagine particolare della Natività si affianca al percorso di meditazione, abbinandosi al tema proposto.

La Adorazione del Bambino o Natività del Beato Angelico:

Il mistero dell’incarnazione che le Chiese cristiane festeggiano in questi giorni è emblematico di come la teologia e la spiritualità d’Oriente e d’Occidente abbiano cominciato a differenziarsi già nel primo millennio: l’Oriente ha sottolineato la dimensione di 'epifania', cioè la 'manifestazione' del Divino avvenuta in Gesù di Nazaret, mentre l’Occidente ha privilegiato l’aspetto storico dell’Incarnazione, il parto di Maria, la nascita a Betlemme del Messia atteso.
  Questa differenza di accenti si è riversata anche sull’iconografia che, in Occidente, ha via via abbandonato la natura di sintesi dossologica propria delle icone orientali, per insistere sulla concretezza di un evento storico caricato di una forte simbologia teologica.
  La raffigurazione della nascita di Gesù a Betlemme ne è un esempio paradigmatico. L’affresco della Natività (1437-1445) ad opera del Beato Angelico al Convento San Marco di Firenze ci può guidare in un affascinante percorso verso il cuore del messaggio cristiano e la lettura diversificata che si può avere di questo 'evangelo', di questa buona notizia per gli esseri umani oggetto del beneplacito di Dio, gli 'uomini di buona volontà' del canto del Gloria. Se prima, con Giotto, Duccio e Lorenzo Monaco, troviamo ancora tracce di un’ispirazione bizantina, dunque del comune sentire di due spiritualità non ancora estranee l’una all’altra – si pensi per esempio alla figura di Giuseppe, raffigurato come tentato dal diavolo in Oriente e come dormiente assorto nel rievocare il sogno in Occidente – con il Beato Angelico il bambino Gesù è ormai al cuore del dipinto, fulcro verso cui converge l’adorazione di Maria e di Giuseppe e del creato intero.
  Nelle icone orientali, la Madre di Dio non guarda mai verso il Figlio che ha partorito, ma volge il suo sguardo oltre, verso il mistero ma anche verso il fedele che contempla l’icona; qui invece, lo sguardo adorante e sereno di Maria è posato sul bimbo nudo a terra, mentre le mani giunte invitano al raccoglimento e alla preghiera.
  Stesso atteggiamento di adorazione del Bambino in Giuseppe ma anche – altra novità – in personaggi, soprattutto santi, totalmente estranei all’evento storico di Betlemme ma evocati dall’artista e resi testimoni, confessori dell’Incarnazione. Anche gli angeli, più che annunciare l’evento ai pastori, adorano in una solenne liturgia celeste.
  Ormai il racconto evangelico della nascita di Gesù si è arricchito di particolari propri agli scritti apocrifi, come l’asino e il bue, ma soprattutto ha assunto un’altra dimensione di 'incarnazione': il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo ai 'suoi', ma questi ultimi non sono solo i pastori di Betlemme o i magi d’Oriente ma anche i 'nostri', gli abitanti delle nostre contrade, i principi delle nostre terre, gli umili artigiani delle nostre botteghe, i contadini delle nostre campagne. Questa attualizzazione della venuta di Gesù in un contesto familiare con campagne nostrane e stalle nostrane si accentuerà sempre più e, assieme ad essa, si svilupperà anche quella dimensione di adorazione sottolineata dal dipinto del Beato Angelico.
  La riflessione teologica soggiacente a questa evoluzione è evidente: se il Bambino di Betlemme è il Messia, Figlio di Dio, il Re dei re, Signore dei signori (Ap 17,14 e 19,16), allora ogni ginocchio si deve piegare (cfr. Fil 2,10) al suo cospetto, compresi quelli di re, principi e signori a lui sottomessi come al loro sovrano celeste. Ma questa comprensione si spingerà ancora oltre: Gesù è la luce del mondo (Gv 8,12), la luce che brilla nelle tenebre (cfr. Gv 1,5). Come esprimere pittoricamente questa verità di fede? Facendo del Bambino in fasce la fonte che illumina ogni cosa e ogni presenza attorno a sé.
  Nei dipinti fiamminghi, poi in quelli di Georges de la Tour in modo eclatante, ma anche nel Correggio, in Carracci, Rubens, El Greco, il piccolo Gesù irradia luce all’intorno, è lui la fonte di ogni luce: non illuminato da un fascio di luce proveniente da altrove ma scaturigine della luce stessa, di una luminosità 'altra' da quella umana che rende luminoso tutto ciò con cui entra in contatto.
  Analogamente, l’universalità dell’adorazione resa al frutto del grembo di Maria porterà a privilegiare sempre più la scena dell’omaggio di pastori e magi rispetto al più discreto, umile e umanissimo 'segno' del neonato posto in una mangiatoia (cfr.
  Lc 2,12): così l’immagine evocativa di una nascita che squarcia simbolicamente i cieli per aprire il credente al mistero lascia il posto alla narrazione di un evento umano la cui magnificenza sta nella ricchezza della coreografia e degli astanti e non nella qualità divina del Figlio dell’uomo nato da Maria.
  In Oriente una sola immagine per la natività di Gesù, sintesi dossologica dell’Incarnazione, mentre in Occidente tutto è letto in modo più storico, più attento agli eventi svoltisi nel tempo, tesi a mettere in risalto l’umanità di Gesù, vero infante. Ecco perché in Occidente abbiamo immagini diverse: la nascita di Gesù, l’adorazione dei pastori, l’adorazione dei magi... mentre alla capanna, alla casa non più grotta, accorrono per dare volto ai pastori i nostri contadini e ai magi i nostri nobili, con la natura circostante che conferisce un aspetto locale: neve e geli per l’inverno nordico, campagna verde e fiorita per il più tiepido meridione italico.
  Sì, forse oggi dovremmo tornare al cuore del Natale, al Dio fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio, a quel neonato che ridesta in ciascuno di noi l’immagine e la somiglianza con Dio che niente e nessuno potrà mai cancellare: stupiti contempleremmo così un bambino debole, fragile infante che narra Dio.
 In Oriente una sola immagine per la natività di Gesù, sintesi dossologica dell’Incarnazione, mentre in Occidente tutto è letto in modo più storico, più attento agli eventi svoltisi nel tempo, tesi a mettere in risalto l’umanità di Gesù. Ecco perché in Occidente abbiamo immagini diverse: la nascita, l’adorazione dei pastori, i magi...

Testo di Enzo Bianchi
Fonte: www.avvenire.it (21.12.08)

L'Adorazione del Bambino o Natività è uno degli affreschi di Beato Angelico che decorano il convento di San Marco a Firenze. Misura 193x164,50 cm. Si trova nella cella 5 del corridoio Est, lato esterno, nella fila di celle da cui si ritiene che sia iniziata la decorazione, e fa parte di quelle opere dipinte non direttamente dall'Angelico ma sotto la sua stretta sorveglianza e con piccoli interventi diretti, in particolare il cosiddetto maestro della cella 2, risalente al 1440-1441 circa.

La Natività è composta a semicerchio con il Bambino al centro e le figure disposte attorno a lui in atto di adorazione. Vi sono rappresentati, da sinistra, santa Caterina d'Alessandria, la Vergine, san Giuseppe e san Pietro Martire. lo sfondo della capanna, col bue e l'asinello, crea un fondale piatto che evita qualunque distrazione che allontani la mente dai confini della scena. Lo scopo dell'opera era dopotutto quello di ispirare la meditazione dei frati, piuttosto che essere una mera decorazione della cella. Il bue e l'asinello sono elementi mutuati dal vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo, a sua volta derivati da un errore interpretativo dei libri di Isaia e Abacuc, forse commesso per la prima volta da san Girolamo, anche se all'epoca dell'Angelico erano da molto tempo entrati a far parte dell'iconografia tradizione della scena.

La presenza dei due santi è da leggere in chiave mistica, in contraddizione con la semplice descrizione narrativa dell'evento. San Pietro Martire in particolare era un santo dell'Ordine Domenicano e la sua figura doveva fare da esempio e ispirazione per la preghiera dei monaci, attualizzando la scena nel quadro dei principi dell'Ordine.

In alto una serie di quattro angeli, di fattura non eccelsa, chiude la rappresentazione.