9 ottobre 2016 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario: la fede salva dalla lebbra dell'ingratitudine
News del 08/10/2016 Torna all'elenco delle news
Gesù è in cammino. E come lungo ogni cammino, la lentezza favorisce gli incontri, l'attenzione trasforma ogni incontro in evento.
Ed ecco che dieci lebbrosi, una comunità senza speranza, un nodo di dolore, all'improvviso si pone di traverso sulla strada dei dodici.
E Gesù appena li vede... notiamo: subito, senza aspettare un secondo di più, "appena li vede", prima ancora di sentire il loro lamento. Gesù ha l'ansia di guarire, il suo amore ha fretta, è amore preveniente, amore che anticipa, pastore che sfida il deserto per una pecora che non c'è più, padre che corre incontro mentre il figlio cammina...
Davanti al dolore dell'uomo, appaiono i tre verbi dell'agire di Cristo: vedere, fermarsi, toccare, anche se solo con la carezza della parola.
Davanti al dolore scatta come un'urgenza, una fretta di bene: non devono soffrire neanche un secondo di più. E mi ricorda un verso bellissimo di Ian Twardowski: affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto! L'amore vero ha sempre fretta. È sempre in ritardo sulla fame di abbracci o di salute.
Andate... E mentre andavano, furono purificati. Sono purificati non quando arrivano dai sacerdoti, ma mentre camminano. La guarigione comincia con il primo passo compiuto credendo alla parola di Gesù. La vita guarisce non perché raggiunge la meta, ma quando salpa, quando avvia processi e inizia percorsi.
Nove lebbrosi guariscono e non sappiamo più nulla di loro, probabilmente scompaiono dentro il vortice della loro inattesa felicità, sequestrati dagli abbracci ritrovati, ridiventati persone libere e normali.
Invece un samaritano, uno straniero, l'ultimo della fila, si vede guarito, si ferma, si gira, torna indietro, perché intuisce che la salute non viene dai sacerdoti, ma da Gesù; non dalla osservanza di regole e riti, ma dal contatto con la persona di quel rabbi. Non compie nessun gesto eclatante: torna, canta, lo stringe, dice un semplice grazie, ma contagia di gioia.
Ancora una volta il Vangelo propone un samaritano, uno straniero, un eretico come modello di fede: la tua fede ti ha salvato. La fede che salva non è una professione verbale, non si compone di formule ma di gesti pieni di cuore: il ritorno, il grido di gioia, l'abbraccio che stringe i piedi di Gesù.
Il centro della narrazione è la fede che salva. Tutti e dieci sono guariti. Tutti e dieci hanno creduto alla parola, si sono fidati e si sono messi in cammino. Ma uno solo è salvato. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, rinasce una pelle di primavera. Nella salvezza ritrovi la sorgente, tu entri in Dio e Dio entra in te, e fiorisce tutta intera la tua vita.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Tra novità e certezze
A volte, penso quanto sia duro accettare la novità del Vangelo, o meglio, accettare che il messaggio del Vangelo sia un messaggio di novità, un messaggio che ribalta le coscienze, che manda all'aria gli schemi, che punta a farci fare un'esperienza di fede prima ancora che insegnarci una religione. Una religione (lo dice la parola stessa) "lega" le persone a una realtà più grande di loro perché vi rimangano sottomesse; vera religione è quella che, mettendoci in contatto con Dio, non ci lega a lui, ma ci fa liberi unendoci a lui con le uniche catene che Dio ha, quelle dell'amore; vera religione, in definitiva, è una fede vissuta nell'amore a Dio e ai fratelli. Ma come dicevo all'inizio, accettare questa come la più grande e più profonda verità del Vangelo è duro e richiede fatica, perché - checché se ne dica - facciamo una fatica enorme a staccarci da una religione fatta di norme e di precetti che, sebbene apparentemente ci danno sicurezza, in realtà ci impediscono di scoprire il vero volto di Dio, che è grazia e gratuità.
Eppure, la religione con le sue norme e i suoi precetti non ci salva: ci salva la fede, come ci dicono le ultime parole del Vangelo di oggi, parole spesso usate da Gesù per congedare le persone che si sono rivolte a lui ottenendo misericordia: "Va', la tua fede ti ha salvato!". E mai, nel Vangelo, troveremo parole di Gesù che dicano: "Va', la tua religione ti ha salvato". Men che meno nel brano che abbiamo ascoltato quest'oggi, dove più che metterci davanti dieci malati di lebbra, Luca ci presenta la vicenda di ogni discepolo e ogni seguace di Gesù: una vicenda di continua alternanza tra fede e religione, tra una religiosità fatta di norme e precetti e una fede fatta di tentativi di avvicinarci a Dio a prescindere dalle norme e dai precetti della religione.
È difficile pensare che quello che abbiamo letto possa essere un brano storico, la semplice narrazione di un miracolo come uno dei tanti effettuati da Gesù. Le molte incongruenze ci fanno pensare più a una costruzione letteraria, quindi a un messaggio da comunicare, che a un fatto da narrare. Gesù in cammino verso Gerusalemme non può certo attraversare Samaria e Galilea nell'ordine in cui Luca ce le presenta; ed è anche un po' anomalo, per non dire totalmente surreale, che entrando in un villaggio venga accolto non da uno, ma da addirittura dieci lebbrosi, che per legge dovevano stare lontanissimi da qualsiasi luogo abitato. E come mai Gesù, che fino a pochi versetti prima era con i propri discepoli in cammino verso Gerusalemme, ora è completamente solo? E come mai Gesù, quando chiede dove siano spariti gli altri nove lebbrosi guariti, in realtà non ha interlocutori, quasi parlasse da solo? E come mai i lebbrosi si rivolgono a lui con un termine, "Gesù maestro", che solo i discepoli nel Vangelo utilizzano, e nessun altro?
Forse, allora, non abbiamo di fronte realmente un miracolo di guarigione (cosa comunque molto probabile, vista la familiarità di Gesù con i malati di lebbra, esclusi e rifiutati da tutti nella società), bensì la descrizione del cammino tormentato e faticoso dei discepoli alla scoperta della novità del Vangelo, la storia del loro passaggio da una religione di norme e precetti a una fede fatta di gratitudine e gratuità. Una storia altalenante, fatta di entusiastici slanci incontro al Maestro e di sano mantenimento delle distanze; di corse al riparo all'interno del villaggio (luogo della tradizione, delle certezze e della religione) e di guarigioni che avvengono solamente "andando fuori", uscendo, in periferia, come direbbe papa Francesco oggi, perché è solo uscendo che il discepolo è salvato, così come è solo aprendosi all'esterno che la Chiesa si riscopre come madre di salvezza. Per i discepoli non dev'essere stato facile incontrare e scoprire Gesù come il Salvatore; per loro, cresciuti negli insegnamenti della religione ebraica che li aveva rivestiti e appesantiti come piaghe di lebbra sul corpo, e ora chiamati a incontrare Dio direttamente, faccia a faccia, senza più la mediazione delle norme e dei precetti della Legge, vista ormai come una lebbra da cui sanarsi. Per loro, che trovano più giusto o forse più comodo compiere con i precetti della Legge presentandosi guariti ai sacerdoti per riceverne la certificazione legale, che non tornare sui propri passi rendendo gloria a Dio per il dono della salvezza; per loro, che prima di gioire per la salvezza ritrovata, attendono di sapere dai sacerdoti (giudici onnipotenti e onniscienti) se è proprio vero che sono stati salvati.
Che fatica per noi oggi, se lo è stato allora per loro, vissuti a fianco del Maestro, accettare che la novità del Vangelo passa attraverso una fede fatta di incontro gratuito e riconoscente con l'amore di Dio, piuttosto che con una serie di norme e di comportamenti di cui sentiamo il bisogno per evitare di andare fuori strada. Che fatica accettare che pur uscendo dai canoni della religione possiamo comunque incontrare Dio, e magari meglio di prima, facendo però lo sforzo di incontrarlo in maniera immediata, senza mezzi termini, e quindi con la possibilità di rendere gloria a Dio in piena libertà, senza la preoccupazione di osservare formule e canoni prestabiliti.
Tutte cose che ci vincolano ma che, alla fine, ci danno sicurezza: perché una fede vissuta nella libertà di dare gloria a Dio senza dover rendere conto a nessuno non è certo facile da professare. Occorrono libertà interiore e senso di grande responsabilità: consoliamoci, il cammino verso Gerusalemme è ancora lungo!
Omelia di don Alberto Brignoli
Non è la razza a fare la differenza
L'accentuata immigrazione di stranieri che caratterizza i nostri tempi manifesta, anche nella nostra società sedicente evoluta, l'accentuarsi dei pregiudizi razziali. Peraltro, essi sono vecchi come il mondo: e la Bibbia ne dà la prova. Gli antichi ebrei, convinti che Dio fosse unicamente il "loro" Dio, guardavano con indifferenza, quando non con sottile disprezzo, gli appartenenti ad altri popoli; se trascurati da Dio - questo il loro sotteso ragionamento - dovevano essere rozzi e malvagi. Eppure la Bibbia smentisce spesso simili convinzioni: ad esempio nei due casi presentati dalle letture di oggi.
La prima (2Re 5,14-17) porta all'VIII secolo avanti Cristo. Il profeta Eliseo guarisce "a distanza" il comandante dell'esercito siriano, colpito dalla lebbra: è uno straniero, non sapeva nulla del Dio d'Israele, ma quando il prodigio glielo fa scoprire manifesta pubblicamente la sua riconoscenza. Gesù (Luca 17,11-19) risana "a distanza" dieci lebbrosi; però soltanto "uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un samaritano". Non è l'unico passo del vangelo in cui i samaritani, detestati dagli ebrei in quanto stranieri ed eretici, emergono migliori di loro: basti ricordare la parabola detta appunto del "buon" samaritano, perenne ammonimento sul fatto che non è la razza a determinare la qualità degli uomini.
I due episodi presentano molte somiglianze: in entrambi i beneficiati sono lebbrosi, sono stranieri, sono guariti a distanza; ma soprattutto, sono riconoscenti. Il fatto mette in evidenza, tra i guariti da Gesù, l'ingratitudine degli altri nove. "Quando incontriamo qualcuno che ci deve riconoscenza ce ne ricordiamo subito. Quante volte invece incontriamo qualcuno verso il quale abbiamo un debito di gratitudine e non ci pensiamo", ha scritto Goethe. Ed è tanto più vero riguardo a Colui al quale più di chiunque altro dobbiamo gratitudine, perché da lui abbiamo ricevuto tutto: la vita, con ogni buona cosa che la vita ci ha portato e ci porta, come l'intelligenza e l'istruzione, la possibilità di mangiare tutti i giorni, di avere una casa e un vestito e di curarci se ci ammaliamo, la capacità di amare ed essere amati, un mondo da ammirare per l'infinità di cose belle che racchiude. Soprattutto, da Dio abbiamo ricevuto incomparabili doni spirituali, riassumibili nella sua amicizia e nella possibilità di raggiungerlo, un giorno.
Spesso ci si dimentica di tutto ciò; tutto ci pare dovuto, o insignificante perché ovvio, scontato. Ecco perché nella preghiera spesso ci limitiamo a chiedere, chiedere ancora, chiedere dell'altro. Sarà allora il caso di ricordare il senso autentico della domenica cristiana. "Ricordati di santificare le feste", recita uno dei comandamenti; già prima di Gesù, la festa comportava di non lavorare, per avere il tempo e le disposizioni d'animo adatte ad elevare la mente a Dio con sentimenti di riconoscenza. Con Gesù, la festa ha mantenuto lo stesso significato, ma enormemente arricchito: la riconoscenza trova la sua espressione più alta nella Messa, il cui nome proprio, non a caso, è Eucaristia, cioè "ringraziamento". Nella Messa, sacerdote e fedeli riconoscono di avere ricevuto tutto da Dio e, come si dovrebbe anche nei rapporti tra gli uomini, contraccambiano come possono. Di nostro avremmo ben poco da dargli; ma - stupore - lui stesso ci ha messo nelle mani il dono da offrirgli, ed è il dono più grande, il suo stesso Figlio per noi morto e risorto.
Quale meraviglia, quale generosità! Dio ci colma di doni, compreso quello da offrire a lui; da parte nostra occorre soltanto la volontà di farlo. E se lo facciamo, se anche noi ci riconosciamo graziati, si realizza anche per noi quanto Gesù ha detto all'unico dei dieci lebbrosi tornato a ringraziarlo: "Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato".
Omelia di mons. Roberto Brunelli
Liturgia e Liturgia della Parola della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 9 ottobre 2016
tratto da www.lachiesa.it