25 settembre 2016 - XXVI Domenica del Tempo Ordinario: Il peccato del ricco è l'indifferenza verso il povero
News del 24/09/2016 Torna all'elenco delle news
La parabola del ricco senza nome e del povero Lazzaro è una di quelle pagine che ci portiamo dentro come sorgente di comportamenti meno disumani.
Un ricco senza nome, per cui il denaro è diventato l'identità, la seconda pelle. Il povero invece ha il nome dell'amico di Betania. Il Vangelo non usa mai dei nomi propri nelle parabole. Il povero Lazzaro è un'eccezione, una felice anomalia che lascia percepire i battiti del cuore di Gesù.
Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell'inferno. Perché il ricco è condannato? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi della gola? No. Il suo peccato è l'indifferenza verso il povero: non un gesto, una briciola, una parola. Il contrario dell'amore non è l'odio, ma l'indifferenza, per cui l'altro neppure esiste, e Lazzaro è nient'altro che un'ombra fra i cani.
Il povero è portato in alto; il ricco è sepolto in basso: ai due estremi della società in questa vita, ai due estremi dopo. Tra noi e voi è posto un grande abisso, dice Abramo, perdura la grande separazione già creata in vita. Perché l'eternità inizia nel tempo, si insinua nell'istante, mostrando che l'inferno è già qui, generato e nutrito in noi dalle nostre scelte senza cuore: il povero sta sulla soglia di casa, il ricco entra ed esce e neppure lo vede, non ha gli occhi del cuore. Tre gesti sono assenti dalla sua storia: vedere, fermarsi, toccare. Tre verbi umanissimi, le prime tre azioni del Buon Samaritano. Mancano, e tra le persone si scavano abissi, si innalzano muri. Ma chi erige muri, isola solo se stesso.
Ti prego, manda Lazzaro con una goccia d'acqua sul dito... mandalo ad avvisare i miei cinque fratelli... No, neanche se vedono un morto tornare si convertiranno!
Non è la morte che converte, ma la vita. Chi non si è posto il problema di Dio e dei fratelli, la domanda del senso, davanti al mistero magnifico e dolente che è la vita, tra lacrime e sorrisi, non se lo porrà nemmeno davanti al mistero più piccolo e oscuro che è la morte.
Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la parola e la carne di Dio (ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che l'avete fatto). Nella loro fame è Dio che ha fame, nelle loro piaghe è Dio che è piagato.
Non c'è apparizione o miracolo o preghiera che conti quanto il loro grido: «Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi» (San Vincenzo de Lellis).
Nella parabola Dio non è mai nominato, eppure intuiamo che era presente, che era vicino al suo amico Lazzaro, pronto a contare ad una ad una tutte le briciole date al povero, pronto a ricordarle e custodirle per sempre.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Nel nome del povero. Cioè, di Dio.
Se sapessimo chiamare le cose e soprattutto le persone con il loro nome, ci accorgeremmo che le situazioni che incontriamo nella nostra vita di ogni giorno non sono tutte uguali e non sono affatto impersonali, ma hanno una loro ben precisa identità. Perché quando cose o persone diventano un insieme generico, senza volto e senza nome, perdono identità e di conseguenza dignità. Impareremmo, ad esempio, che il povero che suona al campanello di casa nostra, o che ci chiede l'elemosina seduto sul marciapiede o camminando nel parcheggio di un supermercato o di un ospedale, o che cerca con insistenza di lavarci il cristallo dell'auto mentre attendiamo che il verde del semaforo scatti il prima possibile, ebbene, questo povero non è "il solito nero", "il solito extracomunitario", "il solito barbone che sta lì da anni", "il solito ubriacone che non fa altro che bere tutto il giorno": ha una storia, un'identità. Soprattutto, ha un nome. E agli occhi di Dio, il suo nome è prezioso: più prezioso di tutte le ricchezze, gli abiti lussuosi, i conti bancari "a sei zeri", "i letti d'avorio", "le larghe coppe", "gli unguenti più raffinati", "gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nelle loro stalle" con cui "i ricchi spensierati di Sion" preparano "ogni giorno lauti banchetti".
Il povero, pure lui, è avido, possiede vestiti e si unge di unguenti: è "avido" e "bramoso" di "sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco", è vestito di "preziosissime" piaghe, si "unge" della raffinata saliva dei "cani che vengono a leccare le sue piaghe". Due persone molto vicine tra loro, in questa terrificante pagina di Vangelo di Luca: ed entrambi possessori, proprietari di qualcosa. Di ricchezze l'uno, di miserie l'altro. Ma uno dei due, il povero, ha qualcosa che il ricco non ha: ha un nome, si chiama Lazzaro, e nel cuore di Dio non poteva che chiamarsi così, "colui che è aiutato da Dio". Il ricco non ha un nome, cioè non ha un'identità, sarà pure uomo d'onore, rispettato e invidiato da tutti, ma non è nessuno, ancor meno agli occhi di Dio. Del resto, a lui che importa "essere"? Per lui conta solo "avere". Ma non ha un nome, non è identificato con nulla, non ha un'essenza dentro, a lui importa solo ciò che ha, e questa cosa la pagherà cara, alla fine.
Già, la fine: eh, sì, perché la fine arriva pure per lui. Poveri o ricchi, gaudenti o sofferenti, sani o malati, su questa terra siamo tutti pellegrini e viaggiatori: viaggiamo l'uno accanto all'altro, paralleli e talmente vicini da darci quasi fastidio, eppure rischiamo di non conoscerci, di ignorarci, di non vederci nemmeno. Chiudiamo gli occhi sugli altri: e più siamo pieni di noi stessi, meno vediamo gli altri; e più guardiamo a ciò che abbiamo, meno pensiamo a chi abbiamo al nostro fianco; e più siamo presi dalla ricchezza, meno siamo attenti alla povertà. Alla fine, però, il destino del ricco e del povero è lo stesso: la morte. Con una differenza: il povero non aveva nulla, quindi non avrà neppure una tomba, ed è meglio così, perché Sorella Morte lo porta "lassù", con gli angeli accanto ad Abramo, in quel "lassù" che nessuno di noi conosce ma dal quale tutti siamo affascinati. Il ricco, invece, viene sepolto: lui ha tutto, avrà sicuramente anche una tomba, pronta da tempo per sé e per i suoi familiari, e chissà che mausoleo! Tutti i mausolei che vuole, ma ciò che conta non è quello che tutti vedranno all'esterno, passando per la sua tomba: lui è laggiù, negli inferi fra i tormenti. Anche quel laggiù è un luogo che nessuno di noi conosce, e di certo non ci affascina come il "lassù": di certo, c'è pure che laggiù la morte non si chiama Sorella, si chiama Signora, domina, comanda, opprime, ti rende schiavo di ciò che qui hai bramato possedere.
E non c'è verso di cambiare le cose: c'è il grande abisso, quello che nella vita il ricco ha scavato con le proprie mani per tenere a debita distanza il povero e che ora rimane un vuoto incolmabile. Nulla lo può attraversare, nemmeno la preghiera, o meglio "la supplica" che il ricco rivolge ad Abramo, ora che è nei tormenti: in casa sua, nella vita, mai un canto di lode a Dio, solo l'orgia dei dissoluti, e adesso suppliche e preghiere ad Abramo? Nella sua vita, mai si era accorto di un povero che mendicava alla sua porta, e adesso (solo adesso) lo vede, lo chiama finalmente per nome (quindi sapeva benissimo che c'era, e chi era) e gli chiede un gesto di pietà? Falso, ipocrita, sfrontato e impudente: questo sei diventato, accecato dalle tue ricchezze! No, caro: da quest'abisso non si passa. Del resto, Abramo con te è chiaro: te la sei goduta in vita: non avere la pretesa di possedere anche l'aldilà! No, questo abisso non si attraversa neppure per tornare sulla terra a mettere in guardia i tuoi fratelli: con che cosa, poi? Spaventandoli con un morto che risuscita? Ma questi non si ravvedono nemmeno se Dio in persona parla loro, attraverso Mosè e i Profeti. Cinque fratelli, tutti crapuloni come te, e tu sei il sesto: per giungere a sette, il numero perfetto, avevi bisogno ancora di uno... In realtà l'avevi, si chiamava Lazzaro, e abitava sotto la tua tavolata, si sfamava delle tue briciole, si vestiva di piaghe, si faceva leccare le ferite dai cani, e tu hai sempre fatto a finta di non vederlo. È finita, caro ricco epulone: stavolta è proprio finita!
E a noi, alle nostre ricchezze, cosa dice Gesù con questa parabola? Vuole che ci ravvediamo? Vuole farci spaventare? Vuole minacciarci? Io non me la sento di emettere alcun giudizio, perché credo nel primato della coscienza di ognuno, e credo che altrettanto debba fare ogni uomo e ogni donna, pensando alle proprie ricchezze e al rapporto che ha con esse. Lasciamo il giudizio a Dio: lui sa cosa c'è nel cuore dell'uomo. Anche noi, però, sappiamo qual è il suo giudizio: è proibito chiudere gli occhi sui poveri, ancor più quando vivono accanto a noi o quando sono vittime di un nostro errato sistema di vita. Se lo facciamo, ne accettiamo le conseguenze. E allora, sì, il giudizio diviene drammatico e tassativo. E per di più, irreversibile.
Omelia di don Alberto Brignoli
L'aldilà comincia aldiqua'
La vita non ci è data in proprietà. Ci è data in amministrazione. Questo è quello che dice la Bibbia dappertutto. Che ci piaccia o non ci piaccia, finiremo per metterla al servizio di qualcuno o di qualcosa. Questo il senso profondo del vangelo di domenica scorsa, nel racconto della parabola dell'amministratore disonesto, come anche nelle successive e perentorie parole del Signore che ci avverte sull'impossibilità di servire due padroni: poiché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e il denaro (Lc 16,13). La parabola del vangelo di oggi riprende plasticamente questo avvertimento.
Un uomo ricco senza nome e un uomo povero di nome Lazzaro sono vicinissimi: il povero infatti, "stava alla sua porta" (v.20). Come mai il ricco non lo vede se è alla porta? Lazzaro non ha voce, ma il suo corpo coperto di piaghe grida aiuto. Come è possibile non vederlo, se persino i cani si accorgevano di Lazzaro? (v.21) La prima scena del racconto, situata aldiqua della vita, è già tremenda per se stessa nel suo messaggio...Il cuore dell'uomo si acceca a un punto tale da perdere per sempre il senso della vita e a ridursi, ahimè, come un animale. Perché non essere toccati dalla sofferenza altrui, rimanere indifferenti a chi è nel bisogno, è segnale preoccupante di un cammino che avanza verso la morte interiore, ovvero di un cuore che sta spegnendo la propria capacità di amare. La seconda scena del vangelo infatti, spingendosi aldilà di questa vita, viene a confermare e a illustrarci questo salmo. Dopo la morte di entrambi, la situazione è totalmente capovolta: Lazzaro si trova con Abramo, simbolo del paradiso di tutti coloro che hanno creduto e confidato nella Parola di Dio. Il ricco si trova negli inferi tra i tormenti, simbolo di tutti coloro che pongono la propria sicurezza nelle ricchezze di questo mondo e non si curano affatto di quello che dice la Parola di Dio (v.23). Ma guarda un po': solo ora il ricco degna di uno sguardo Lazzaro. Adesso è il ricco a gridare il suo bisogno. "Egli sembra vedere Lazzaro per la prima volta, ma le sue parole lo tradiscono: «Padre Abramo - dice - abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Adesso il ricco riconosce Lazzaro e gli chiede aiuto, mentre in vita faceva finta di non vederlo. Quante volte tanta gente fa finta di non vedere i poveri! Per loro i poveri non esistono! Prima gli negava gli avanzi della sua tavola, e ora vorrebbe che gli portasse da bere!" (Papa Francesco, Udienza pubblica generale del 18.05.2016) Nonostante Abramo risponda con misteriosa dolcezza, non è più possibile cambiare la situazione (vv. 25-26). Troppo tardi. Anche qui, il versetto di un altro libro della Bibbia è la più chiara spiegazione di questo passo della parabola: chi chiude l'orecchio al grido del povero, griderà a sua volta, ma non otterrà risposta (Proverbi 21,13).
Il messaggio è chiarissimo: l'ammonizione severa è per tutti coloro che vivono in una prosperità egoistica senza curarsi degli inviati speciali (i poveri) che Dio manda alle nostre porte. L'intento non è certo quello di spaventare, ma di invitare costoro ad una urgente e fattiva conversione. La possibilità di finire negli inferi tra i tormenti è seria, realissima. Da notare che non si dice nella parabola che Dio mandò negli inferi quel ricco. Negli inferi (o nel paradiso) ci si va con le nostre scelte. Il nostro aldilà comincia aldiqua. Perciò, senza inutili ansie, non c'è tempo da perdere! Abbiamo solo questa vita per credere alle parole del Signore che domenica scorsa aggiungeva: fatevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando questa verrà a mancare essi vi accolgano nelle dimore eterne (Lc 16,9). I poveri sono la possibilità di salvezza che Dio offre instancabilmente a ogni ricco accecato dal proprio benessere e preoccupato solo della sua sussistenza (cfr. Lc 12,16-21). Quel ricco ebbe una vita intera per farsi amico Lazzaro, ma non lo fece. Forse dentro di sé era come quei farisei che si fecero beffe di Gesù quando diede questo insegnamento (Lc 16,14). Ma rifiutarsi di ascoltare il grido del povero è rifiutare Dio. Escludendo Lazzaro, quel ricco non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio! (Papa Francesco, Udienza pubblica generale del 18.05.2016)
Bene, allora stiamo capendo qualcosa di importante per una sincera verifica della nostra fede. Le ricchezze nelle nostre mani non sono segno di benedizione, anzi, se le nostre mani non si aprono alla loro condivisione possono diventare causa di rovina eterna. Ma se le mani si aprono al dono verso i poveri, ecco che la benedizione di Dio ci sovrasta. C'è una furbizia del mondo che inganna e rende schiavo il cuore dell'uomo conducendolo verso la morte eterna; ma c'è anche un'altra furbizia che attira la benedizione e ci conduce a Dio. La morte, diceva un noto comico napoletano (Totò), è una "livella": è molto democratica in quanto comune esperienza del ricco come del povero. Ma per noi credenti non lo è. La morte è soltanto la porta d'ingresso al giudizio di Dio. Lasciamo tirare le opportune conclusioni alla già citata catechesi di Papa Francesco: "Abramo in persona offre la chiave di tutto il racconto: egli spiega che beni e mali sono stati distribuiti in modo da compensare l'ingiustizia terrena, e quella porta che separava in vita il ricco dal povero, si è trasformata in «un grande abisso». Finché Lazzaro stava sotto casa sua, per il ricco c'era la possibilità di salvezza, ma ora che entrambi sono morti, la situazione è diventata irreparabile. Dio non è mai chiamato direttamente in causa, ma la parabola mette chiaramente in guardia: la misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso il prossimo; quando manca questa, anche quella non trova spazio nel nostro cuore chiuso, non può entrare. Se io non spalanco la porta del mio cuore al povero, quella porta rimane chiusa, anche per Dio. E questo è terribile!... A questo punto, il ricco pensa ai suoi fratelli, che rischiano di fare la stessa fine, e chiede che Lazzaro possa tornare nel mondo ad ammonirli. Ma Abramo replica: «Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro». Per convertirci, non dobbiamo aspettare eventi prodigiosi, ma aprire il cuore alla Parola di Dio, che ci chiama ad amare Dio e il prossimo. La Parola di Dio può far rivivere un cuore inaridito e guarirlo dalla sua cecità. Il ricco conosceva la Parola di Dio, ma non l'ha lasciata entrare nel cuore, non l'ha ascoltata, perciò è stato incapace di aprire gli occhi e di avere compassione del povero. Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40), dice il Signore. Così, nel rovesciamento delle sorti che la parabola descrive è nascosto il mistero della nostra salvezza." (Papa Francesco, Udienza pubblica generale del 18.05.2016)
Omelia di don Giacomo Falco Brini
L'immagine: Lazzaro ed il ricco Epulone, illustrazione tratta dall'Evangeliario di Echternach.
Pannello superiore: Lazzaro alla porta dell'uomo ricco. Pannello centrale: L'anima di Lazzaro è trasportata in Paradiso da due angeli: Lazzaro nel petto di Abramo. Pannello inferiore: l'anima del ricco è trasportata da due diavoli all'inferno, il ricco è torturato nell'inferno.
Liturgia e Liturgia della Parola della XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 25 settembre 2016
tratto da www.lachiesa.it