5 giugno 2016 - X Domenica del Tempo Ordinario: La vedova di Nain e il 'miracolo' che ci chiede Gesù

News del 04/06/2016 Torna all'elenco delle news

La donna di Nain aveva già pianto la morte del suo uomo. Adesso è inghiottita dal dolore più atroce, quello che non ha neppure un nome per essere detto: due vite, quella del figlio e la sua, precipitate dentro un'unica bara.

Quante storie così anche oggi. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili? Nella Bibbia cerchi invano una risposta al perché del dolore. Il Vangelo però racconta la prima reazione di Gesù: egli prova dolore per il dolore dell'uomo.

E lo esprime con tre verbi: provare compassione, fermarsi, toccare. Gesù vede il pianto e si commuove, si lascia ferire dalle ferite di quel cuore. Il mondo è un immenso pianto, un fiume di lacrime, ma invisibili a chi ha perduto lo sguardo del cuore. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona (donna, non piangere) e scoprire dietro un centimetro quadrato di iride vita e morte, dolore e speranza.

C'è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, un dolore: fermarsi, inginocchiarsi e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, come bambini o come innamorati. Quando ti fermi con qualcuno hai già fatto molto per la storia del mondo. Nessun segnale ci dice che quella donna fosse più religiosa di altri. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù è il suo dolore.

Quella donna non prega Gesù, non lo chiama, non lo cerca, ma tutto in lei è una supplica senza parole, e Dio ascolta l'eloquenza delle lacrime, risponde al pianto silenzioso di chi neppure si rivolge a lui. E si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Gesù vede, si ferma e tocca. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain. Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare il contagioso, l'infettivo, il mendicante, la bara. Non è un sentimento è una decisione.

Si accosta, tocca, parla: Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati, sorgi, il verbo usato per la risurrezione.

E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all'abbraccio, all'amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d'amore nelle quali soltanto troviamo la vita.

E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande!

Gesù è il profeta della compassione, di un Dio che cammina per tutte le Nain del mondo, si avvicina a chi piange, piange insieme con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore.

E ci convoca a operare "miracoli", non quello di trasformare una bara in una culla, come a Nain, ma quello di sostare accanto a chi soffre, accanto alle infinite croci del mondo, lasciandosi ferire da ogni ferita, portando il conforto umanissimo e divino della compassione.

Fermarsi. Per vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi).

Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico, e lo riempie, è un modo di amare, il modo più intimo, è il bacio. Apre una stagione nuova nelle relazioni. Come la notte comincia dalla prima stella, così il mondo nuovo comincia dal primo samaritano buono.

Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, di un padre privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d'ora in poi niente sarà più come prima.

Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme a lei.

Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? gli avevano chiesto. Chi si avvicina al dolore altrui, se lo carica sulle spalle, cerca di consolarlo, alleviarlo, guarirlo se possibile.

Il Vangelo dice che Gesù fu preso da grande compassione per lei. La prima risposta del Signore è di provare dolore per il dolore della donna.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

"Consolare gli afflitti": è un'opera di misericordia spirituale.

La Chiesa celebra quest'anno il Giubileo straordinario della misericordia: non solo quest'anno, dovremmo vivere concretamente la consegna della misericordia che il Signore ci ha lasciato prima di tornare al Padre. Dovremmo viverla sempre, la misericordia, come uno stato di vita, come lo stato di vita che caratterizza tutte le vocazioni, e le conforma alla vocazione di Cristo.

Lo abbiamo appena ascoltato nel racconto della vedova di Zarepta di Sidone: il segno che le parole del profeta non sono solo parole, è la guarigione prodigiosa del figlio di quella vedova.

La storia della vedova di Zarepta è nota a tutti, talmente nota che, quando Gesù ne fece allusione, parlando in giorno di sabato nella sinagoga del suo paese, suscitò ire a dir poco omicide; il motivo di tanto livore contro Gesù era dovuto al fatto che quella vedova non era israelita, ma pagana. "Perché Dio aveva compiuto il miracolo a una vedova straniera? Se era il Dio di Israele, perché manifestava la sua misericordia ?fuori dal nido', a gente che non aveva la (loro) stessa fede?". Ennesimo caso in cui gli israeliti perdono un'occasione preziosa per crescere nella fede: costoro interpretano il segno celeste come un'ingiustizia, un favore tolto a loro e dato ad altri. La verità è che il Dio di Israele non è solo il Dio di Israele, ma è il Dio di tutti! si è rivelato agli Israeliti, sì, ma non ha legato la propria identità a un solo popolo, per giunta, tra i più piccoli e insignificanti.

Il privilegio di essere scelti come primizia di salvezza è compreso, difeso e predicato come privilegio di avere l'esclusiva di Dio. "Il Dio dei padri è il nostro Dio, e guai a chi ce lo tocca!".

Ma quale universalismo della salvezza? Solo noi siamo i salvati! Nessun altro si può salvare, a meno che non si faccia circoncidere: gli stessi primi cristiani, quelli che provenivano dalle file dei Giudei, erano, anche loro, convinti di questo primato dei Giudei. Neppure il Vangelo di Cristo avrebbe potuto annullare i privilegi; in fondo, anche Gesù era un ebreo.

La questione è presentata al capitolo 15 degli Atti degli Apostoli, andate a leggervela con calma.

Quando la Chiesa del ?500 possedeva un enorme ascendente in Europa, e l'Europa si accingeva a conquistare il resto del mondo con la politica coloniale, più selvaggia dei selvaggi che abitavano le Nuove Americhe... la parola d'ordine di Roma era: "Fuori dalla Chiesa non c'è salvezza! Dunque, battezzate tutti! ?Compelle intrare!' Fateli entrare con la forza nella Chiesa!".

La tentazione di fare di Dio un oggetto di possesso, è (tentazione) di tutti; anche nostra!

Detto questo, il tema di Vangelo di oggi è ancora e sempre lo sguardo di misericordia del Signore per coloro che soffrono. Leggendo il racconto, qualcuno potrebbe concludere con una punta di cinismo: "Piove sempre sul bagnato!": quella donna doveva già sopportare la condizione infamante della vedovanza, per giunta aveva un solo figlio. Ora anche quell'unico figlio le veniva strappato.

Gesù reagisce e compie il miracolo, notate bene, senza che sia la donna a chiederglielo!

Comunque, chiesto o non chiesto, il Figlio di Dio è sempre dalla parte di coloro che soffrono. Di più, Gesù sceglie la ?via dolorosa', aderendo liberamente alla sua vocazione.

Inchiodato sulla croce, Cristo abbraccia tutta l'umanità e muore in atto di salvare tutti. 

Ecco, ora sappiamo a quale limite estremo arriva l'amore di Dio per noi.

Possiamo affidarci senza timore al Dio dei vivi e dei morti, nella fiducia, nella certezza che, al momento opportuno, il Cristo si avvicinerà anche a noi, come alla vedova, per darci conforto, un conforto non solo a parole, un conforto vero, efficace...come quello che anche il cristiano dovrebbe dare in nome di Cristo, compiendo l'opera di misericordia spirituale di cui sopra.

La confessione di san Paolo ai cristiani della Galazia non è certamente una excusatio non petita, ma la dichiarazione coraggiosa della autenticità della sua vocazione a diventare apostolo dei pagani. Mi fa curiosamente venire in mente quei testimoni del Vangelo che hanno aderito a Cristo in seguito a una conversione radicale da una vita che aveva poco niente a che vedere con la fede. Penso a uomini come Agostino di Ippona, Ignazio di Lojola, Francesco d'Assisi; penso a donne come Edith Stein... Non erano persone tanto di chiesa... non erano credenti per tradizione di famiglia; addirittura avevano rifiutato la religione di famiglia, per vivere come cani sciolti, senza legami, né debiti di riconoscenza con nessuno...Neanche con Dio.

Fu Dio in persona a chiamarli, forse, proprio per il loro temperamento forgiato dalla solitudine, dall'inclinazione alla trasgressione. Persone che difficilmente si sarebbero allineate... non incarnavano certo il prototipo dell'intellettuale organico, come definiva Gramsci il prete del Medioevo... Evidentemente Dio sceglie per sé colui, colei che non è politically correct... 

Del resto, anche gli Apostoli di Gesù non provenivano dagli ambienti religiosi convenzionali, non erano professionisti delle S.Scritture, ma semplici pescatori, gente ignorante; alcuni addirittura, individui dalla dubbia reputazione, malvisti dai capi del popolo...

Paolo di Tarso non corrispondeva all'identikit dell'apostolo; al contrario, era stato un persecutore, un cacciatore di cristiani... Andava ad arrestarli su mandato dei Sommi sacerdoti, riscuotendone magari anche la taglia. Proprio lui, proprio Paolo, improvvisamente, da nemico di Cristo e dei cristiani, diventa paladino del Vangelo; non fu facile convincere i capi delle prime comunità a credere nella sua buona fede, nell'autenticità della sua conversione. Anche perché, come lui stesso confessò, durante i primi anni della sua predicazione, evitò accuratamente di salire a Gerusalemme, da coloro che erano apostoli prima di lui... Alla fine, però, anche lui si rese conto che l'annuncio del Vangelo non è individuale, ma della Chiesa; e nella Chiesa deve essere realizzato. 

I Santi nominati sopra amarono profondamente la Chiesa, si sottomisero integralmente alla Chiesa, ricevendone il mandato e,...dopo la morte, l'onore degli altari.

Omelia di padre Antonio Rungi

 

Due miracoli

La parola di Dio di questa decima domenica del tempo ordinario ci pone di fronte a due miracoli. Uno, narrato nel brano della prima lettura, in cui Dio, attraverso la preghiera di Elia, guarisce un bambino e lo ridona alla sua madre, preoccupata per la sorte del suo figlio; l'altro, narrato dall'evangelista Luca, riguardante la risurrezione del figlio di una vedova di Nain, di cui non si sa il nome né del bambino e né della madre. Due miracoli che attestano la potenza di Dio sul dolore, sulla malattia e sulla morte. Drammatico il racconto del primo miracolo, ma anche aperto alla speranza e alla fiducia in Dio. Il protagonista è sempre il Signore, ma l'intermediario tra Dio e la madre del bambino, che praticamente era morto, è il profeta Elia. Potremmo cogliere dal testo biblico, quasi un interesse privato in atto di ufficio, visto che il profeta chiede al Signore la guarigione del piccolo, perché deve essere ospitato da questa vedova di Sarepta. Invece non è affatto così. L'uomo di Dio si rivolge a Lui, perché mosso dalla sofferenza di quella donna, già senza marito ed ora senza figlio. Possiamo vedere la compassione del profeta verso questa vedova che, in un momento così difficile, trova nell'uomo di Dio il motivo di riprendere a sperare e a vivere con il figlio, praticamente morto. Bellissimo, intenso e pieno di significati spirituali, umani e religiosi il brano tratto dal primo libro dei Re, in cui è riportata questa prima risurrezione nell'Antico testamento.

E' interessante notare come dopo la guarigione del figlio, la vedova di Sarepta riprende il discorso della fede in Dio e della piena fiducia nel Signore. Certo, di fronte alla morte di un figlio, qualsiasi vera madre terrena resta interdetta di fronte ad un dramma del genere e, come spesso capita, anche ai nostri giorni, molte mamme e padri che forse non hanno una fede solida, in queste circostanze si allontanano da Dio e dalla Chiesa, perché pensano che il Signore non sia stato vicino a loro. Come è difficile capire la logica della croce e della morte, Solo chi si immerge nella spiritualità della croce e della passione di Cristo, può capire il grande mistero del dolore e della morte, non solo delle persone anziane e delle madri, ma soprattutto della morte dei giovani e dei figli. D'altra parte chi sale sul patibolo della croce è Gesù, giovanissimo. E Maria, ai piedi di croce, sta a lì a soffrire e vedere morire il suo figlio, il Figlio di Dio, l'innocente in senso assoluto e pieno. Ecco il grande mistero del dolore e della morte, che non è mai fine a se stesso, ma è aperto alla vita e alla risurrezione. Uno scenario completamente diverso quello che si presenta agli occhi di Gesù a Nain. Si tratta di un funerale di un bambino e nel corteo che porta il corpo senza vita del fanciullo al cimitero c'è la madre del bambino morto, anche lei una vedova. La scena straziante muove a compassione Gesù che fa fermare il corteo e si dirige verso la bara, nella quale è deposto il ragazzo appena morto. San Luca, concentra la sua attenzione propria sulla mamma del fanciullo e descrive il comportamento di Gesù in quella circostanza drammatica, che lascia poco spazio alla speranza. 

Due importanti elementi vanno sottolineati. Gesù si rivolge a quella madre straziata dal dolore della perdita del figlio con questo monito: "Non piangere". La presenza di Gesù è motivo di allontanare la morte e il dolore più atroce nel cuore di quella madre. E' come per lei, così per tutti nella vita. Nei momenti più dolorosi della nostra esistenza c'è questa voce amica di Gesù che ci dice: Non piangere, ci sono io. E dove ci sono Io c'è la vita e non la morte, c'è la gioia e non il dolore. La risurrezione prevale sulla morte, la bara vuota del risorto, rispetto al sepolcro pieno di morti di ogni genere, di quelli morti naturalmente e per cause naturali e di quelli morti per violenza come nel caso di Gesù e di tanti martiri innocenti e di persone uccise a tradimento, nelle guerre, nella nostra società violenta. Quel dolore di mamma si rinnova oggi nel cuore di tante madri che vedono morire i figli o figli che restano senza madri e padri, come stiamo vedendo in questi terribili giorni di violenza in Italia, nel mondo, nella questione dei profughi che muoiono nel mar mediterraneo e tanti altri fatti di sangue. Nessuno di questi bambini morti per violenza ritorna in vita, lasciando nel nostro cuore di persone sensibili uno smarrimento ed uno sconforto, che solo la fede nella risurrezione finale può attenuare.

Dalla risurrezione dalla morte corporale alla risurrezione dalla morte spirituale, il parallelismo è immediato e spontaneo. Questo parallelismo della doppia risurrezione, quella fisica e quella spirituale, si comprende alla luce del brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati, nel quale l'Apostolo delle genti racconta della sua conversione, della sua risurrezione interiore.

Come per Paolo, così per tutti, se ci rendiamo disponibili alla grazia di Dio ed abbiamo fede in Lui, tutto cambia in meglio nella nostra vita. Nulla può renderci tristi, farci soffrire e piangere, neppure la morte dei propri cari più cari, ma tutto diventa luce e speranza, guardando con passione a colui che è la vera risurrezione: Gesù Cristo, nostra vita e nostra gioia infinita. Sia questa la nostra umile, ma sentita preghiera che rivolgiamo al Signore in questo giorno di festa: O Dio, consolatore degli afflitti, tu illumini il mistero del dolore e della morte con la speranza che splende sul volto del Cristo; fa' che nelle prove del nostro cammino restiamo intimamente uniti alla passione del tuo Figlio, perché si riveli in noi la potenza della sua risurrezione. Amen.

Omelia di fr. Massimo Rossi

 
 

Liturgia e Liturgia della Parola della X Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 5 giugno 2016

tratto da www.lachiesa.it